Nella sera tra il 7 e l’8 gennaio circa verso le 23:00 due proiettili di pistola colpiscono la macchina su cui viaggia, nei pressi di Düren nella Renania Settentrionale-Vestfalia, Deniz Naki calciatore tedesco in forza all’Amed, club Curdo della città Diyarbakır. La polizia sta indagando per tentato omicidio.
Il giocatore di 28 anni, rimasto fortunatamente illeso, ha origini curde e dopo aver giocato nelle nazionali under 17 e 21 della germania e nelle squadre di Paderborn e St Pauli (quest’ultima conosciuta per il posizionamento politico decisamente a sinistra della sua tifoseria) ha deciso di tornare in patria per giocare in una squadra curda di terza categoria.
Quel che alunga ombre sinistre sull’accaduto è la condanna che lo stesso giocatore ha subito, nell’aprile del 2017, in Turchia: 18 mesi di carcere con la condizionale per aver fatto pubblicità, secondo lo Stato turco, all’organizzazione PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan) diventando quindi un bersaglio di pressioni poliziesche e aggressioni indirette (gli sono state inoltrate diverse minacce di morte) e dirette (ad inizio campionato addirittura un’aggressione in campo ad opera di un “tifoso” nazionalista).
La situazione del giovane sportivo è paradigmatica del clima di repressione e controllo sociale scatenato dal leader Recep Tayyip Erdoğan a capo del partito di governo AKP, soprattutto verso forze progressiste, rivoluzionarie e a favore dell’autodeterminazione del popolo curdo ma fa ancor più impressione pensare che questa repressione possa arrivare in maniera diretta o indiretta nel cuore dell’Europa.
Immaginiamo cosa avrebbe scatenato un atto gravissimo di questo genere se i dubbi sull’aggressione ad uno sportivo professionista fossero ricaduti su un’organizzazione riconosciuta come terroristica e non, come invece è, sul governo (o simpatizzanti di quel governo) cinicamente sostenuto dai padroni europei dopo anni di violenze contro la classe lavoratrice, e la gioventù turca e curda sollevatasi a più riprese da Piazza Taksim in poi.
Di Ciemme