La settimana scorsa, dopo aver ruggito tra febbraio e marzo contro l’UE, il Messico, il Canada etc., Trump si è finalmente rivolto verso il “vero nemico” dell’ “America”, promettendo tariffe tra il 10 e il 25 su 1300 prodotti importati dalla Cina, i quali si aggiungono a quelli già approvati su acciaio e alluminio. I recenti sviluppi hanno indotto vari commentatori a tentare analogie con la situazione creatasi negli anni trenta del ventesimo secolo, quando i principali paesi imperialisti risposero alla Grande Crisi ermetizzando i propri mercati nazionali e coloniali, con il risultato di accelerare quelle tensioni politiche e militari che avrebbero condotto all’esplosione del secondo conflitto mondiale. Il paragone non è privo di fondamento, tuttavia esistono rilevanti differenze tra la struttura del mercato mondiale contemporaneo e quello di 90 anni fa. Mentre all’epoca infatti il commercio internazionale consisteva essenzialmente nello scambio di merci finite, oggi i beni intermedi rappresentano una percentuale molto rilevante nelle bilance commerciali dei vari paesi [1]. Se nei primi decenni del XX secolo – per dirla à la Lenin – l’imperialismo consisteva essenzialmente nell’esportazione di capitale volta soprattutto alla costruzione di infrastrutture nelle colonie e nella monopolizzazione di quei mercati, attualmente una parte molto rilevante degli investimenti esteri, avvengono tra centri imperialisti, con l’obiettivo di posizionarsi nei principali mercati, mentre – in particolare nei paesi in via di sviluppo – l’esportazione di capitale si intreccia con la produzione di merci inserite nelle catene globali del valore. Cifre che si aggirano attorno al 30 del commercio mondiale avvenivano già a fine anni 90 tra filiali della stessa impresa transnazionale (intrafirm trade) [2], anche se oggi spesso i principali monopoli capitalistici dominano le filiere in maniera indiretta limitandosi a controllare le fasi produttive ad elevato contenuto tecnologico e ricorrendo a una rete decentralizzata di subfornitori nelle produzioni a “basso valore aggiunto”. Alcuni gruppi transnazionali [3] come ad esempio la Apple, o la Nike, addirittura intervengono esclusivamente nella fase di progettazione e commercializzazione, derivando i loro profitti dalle royalties pagate dai subfornitori per produrre le componenti o assemblare i prodotti finiti. Senza poter approfondire in queste sede la questione, si può dire che mentre l’imperialismo tradizionale si appropriava del valore prodotto dalle colonie attraverso lo scambio ineguale di materie prime contro prodotti finiti industriali, pur non essendo scomparsa questa componente nei rapporti tra il centro e la periferia (i paesi più sottosviluppati come quelli africani), Il trasferimento di valore dalla semiperiferia (essenzialmente sud-est asiatico, in parte la Cina stessa e i “paesi emergenti”) al centro del sistema avviene in maniera sempre più preponderante in virtù della preminenza tecnologica dei paesi imperialisti nelle filiere transnazionali dei prodotti industriali [4].

 

Le caratteristiche degli scambi USA-Cina

Le relazioni economiche tra USA e Cina sono emblematiche rispetto ad alcuni elementi tratteggiati nell’introduzione. Il grosso delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti infatti consiste di prodotti assemblati nella Repubblica Popolare (RPC) per conto dei grandi gruppi capitalistici nordamericani, in particolare nel settore del tessile e dell’elettronica, ma in generale dei beni di consumo, mentre è molto rilevante anche l’esportazione di semilavorati che entrano nelle filiere dei produttori statunitensi, oltre agli investimenti diretti volti a costruire stabilimenti per avere un accesso più diretto al secondo mercato di sbocco al mondo. I dati relativi alla bilancia commerciale USA e tutti i ragionamenti sulla guerra commerciale tra USA e Cina, sono perciò fuorvianti se non tengono conto, appunto, di questi fattori. Per avere un’immagine accurata degli squilibri della bilancia dei pagamenti tra Washington e Pechino, e dunque delle loro reali relazioni commerciali, bisogna dunque ricorrere a statistiche più precise di quelle che si riferiscono ai puri e semplici scambi di beni e servizi, come ad esempio quelle che misurano i flussi di valore aggiunto, in base alle quali il famigerato deficit di conto corrente statunitense rispetto alla Repubblica Popolare risulta dimezzato rispetto a quello che emerge dalla contabilità del commercio internazionale tradizionale (1% sul PIL, contro 2%).

 

Il reale problema rappresentato dalla RPC dal punto di vista dell’imperialismo a stelle e strisce non consiste dunque tanto nella concorrenza dei prodotti cinesi nel mercato nazionale, quanto nei risvolti della crisi del 2009 e nella rapidità dello sviluppo ineguale e combinato del gigante asiatico. Sia detto di passata – anche se dal punto di vista teorico è di estrema importanza – non abbiamo utilizzato casualmente il temine combinato, ma ci riferiamo al concetto introdotto da Trotsky nella Storia della Rivoluzione Russa dove il grande rivoluzionario segnala come non solo il capitalismo si sviluppi con tempistiche irregolari nei diversi paesi (sviluppo ineguale), ma lo faccia anche in maniera combinata, ovvero “saltando le fasi” e dunque combinando diverse fasi [5]. Mentre ad esempio gli Stati Uniti hanno impiegato quasi 80 anni per passare dalla produzione di automobili a quella di PC, la Cina non ha dovuto far trascorrere un secolo per sviluppare accanto al tessile, all’assemblaggio di beni di consumo, all’acciaio etc. un’industria dell’informatica, ma anche dei pannelli solari, dell’auto elettrica etc. che mettono in discussione il primato dei centri imperialisti nelle produzioni “ad alto valore aggiunto” e dunque nelle catene globali del valore, godendo peraltro dei “vantaggi dell’arretratezza”, come un mercato interno tutto sommato ancora in espansione (i contadini in Cina sono quasi il 30% della popolazione) e manodopera relativamente a basso costo.

 

Alle radici delle tensioni: lo sviluppo ineguale  e combinato cinese

Pur esistendo apparentemente tra Stati Uniti e Cina una relazione tra centro e semiperiferia, nella sostanza il rapporto è dunque molto più complesso: a differenza di altri paesi economicamente subordinati, in particolare, gli investimenti esteri nella Repubblica Popolare sono stati e sono tuttora vincolati a una legislazioni fiscale relativamente restrittiva, che va in coppia con obblighi di condivisione del “know how” tecnologico. Quando insomma l’accumulazione globale viveva una fase ascendente e l’economia cinese cresceva a doppia cifra i costi associati alle restrizioni di cui sopra potevano venire tollerati in nome dell’accesso a un mercato e a un bacino di manodopera a basso costo enormi. Tuttavia nell’ultimo decennio essi rappresentano lacciuoli sempre più stringenti dal punto di vista della profittabilità del capitale USA, colpita duramente dalla crisi, mentre costituiscono una minaccia strategica di lungo periodo [6]. L’integrazione regolamentata della RPC nella globalizzazione, ha infatti permesso al capitalismo di Stato cinese e alla nascente borghesia locale di accumulare il capitale e il “know how” necessari per guadagnare rapidamente posizioni nelle catene del valore, non solo passando dall’assemblaggio alla componentistica a contenuto tecnologico medio-alto, ma anche riuscendo a costruire grandi gruppi in grado di competere nei mercati mondiali – e a capo di filiere globali – in settori chiave dell’economia, come il chimico, l’automobilistico e l’informatica. In effetti, come giustamente ricorda il compagno Michael Roberts, il numero e il potere dei grandi gruppi transnazionali USA è ancora significativamente superiore a quello degli omologhi cinesi, mentre la percentuale di brevetti registrati negli States surclassa ancora quella di qualsiasi altro concorrente. Tuttavia, le classi dominanti occidentali sono spaventate (e giustamente) dall’attenzione data dal capitalismo cinese allo sviluppo di settori articolati attorno alle tecnologie più recenti (intelligenza artificiale, pannelli solari, auto elettriche etc.), oltre alla rilevante crescita degli investimenti cinesi, volti ad acquisire o ad entrare nella proprietà di grandi gruppi capitalistici della “triade” (UE, Giappone, Usa) [7].

 

Obama  e le contraddizioni della borghesia USA

La strategia – o meglio la tattica – adottata nell’ultimo decennio dall’amministrazione Obama per contrastare l’avanzata cinese è stata quella di contrattare la stipula di trattati come il Transpacific e il Transatlantic partnership (TPP e TTIP), dai quali gli States sono usciti in seguito ad una dei primi provvedimenti messi campo da Trump una volta diventato presidente. Gli accordi – ad oggi in vigore, ma sostanzialmente ininfluenti dopo l’abbandono di Washington – avevano al centro i paesi della “Triade”, ed erano atti a eliminare tutti quei vincoli non tanto ai flussi di capitale (ridotti ai minimi termini da decenni), quanto alle condizioni di investimento che a differenza dei paesi dipendenti esistono ancora nelle principali potenze capitalistiche. Questo accanto a regole ancora più stringenti di quelle vigenti sui diritti di proprietà intellettuale, in particolare ai danni dei vari paesi in via di sviluppo sudest asiatici coinvolti nel TPP; il tutto con l’obiettivo strategico di imporre le nuove norme alla Cina, pena un deflusso degli investimenti provenienti dai centri imperialisti storicamente consolidati. La contropartita messa sul tavolo dagli USA era un’ulteriore apertura dei mercati – anche se non dal punto di vista tariffario, ma inerente l’uniformazione degli standard qualitativi dei prodotti – che avrebbe plausibilmente sacrificato alcuni settori della classe capitalistica a stelle e strisce. Tale politica rifletteva gli interessi dei settori della borghesia capitalistica statunitense più internazionalizzati, mentre metteva in discussione le prerogative, ad esempio, di settori di allevatori e coltivatori. Ancora più rilevante in questo solco, la malcelata insoddisfazione di una frazione del grande capitale a stelle e strisce, in declino, ma ancora molto potente: ovvero il settore dell’acciaio. Soffermandoci sul TPP, infatti, l’agribusiness poteva beneficiare di un aumento delle esportazioni, ma i piccoli allevatori e coltivatori del “Sud” più legati al mercato interno sarebbero risultati penalizzati dall’aumento, ad esempio, delle importazioni di carne australiane [8]. I padroni dell’acciaio, invece, pur allettati dalla possibilità di un aumento delle esportazioni, chiedevano, ad esempio, una suddivisione più vantaggiosa delle quote appannaggio dei produttori nazionali relative ai prodotti di base e ai semilavorati destinati alle produzioni che sarebbero partite in seguito a partnerships programmate tra case automobilistiche statunitensi e nipponiche in seguito all’attuazione del TPP [9]. Da anni inoltre, i produttori di acciaio chiedono – per riprendere un’espressione di Gramsci – di passare dalla “guerra di posizione” alla “guerra di manovra” contro la Cina, che pur non detenendo una percentuale rilevante delle importazioni di acciaio negli USA, rappresenta la principale responsabile della sovrapproduzione mondiale e dunque del crollo dei prezzi dei prodotti in lega, mentre i grandi gruppi cinesi dell’acciaio hanno da tempo scalzato quelli nord-americani dalla leadership nel mercato mondiale [10]. Non è dunque un caso che proprio il settore dell’acciaio e i piccoli agricoltori e allevatori costituiscano la principale base di appoggio di Trump (oltre, ovviamente, a disparate fasce piccolo borghesi e proletarie illuse dalla retorica protezionista dell’ex magnate dell’immobiliare). Per rendersi conto di quanto detto, basta dare un occhiata al sito Coalition for a Prosperous America, organo della principale lobby che sostiene la virata protezionista impostata da Trump. Tra i membri finanziatori dell’associazione si annoverano oltre alla Nucor (il secondo produttore di acciaio USA), associazioni dei piccoli agricoltori e allevatori del sud, associazioni delle piccole imprese, e in particolare medio-piccoli produttori di utensili da lavoro (es. Eklind) che evidentemente subiscono la concorrenza dei grandi gruppi transanzionali e internazionali nel mercato interno, ma anche un piccolo gruppo multinazionale dell’assemblaggio di cavi e articoli elettronici (Atek) che plausibilmente non può reggere la concorrenza, ad esempio della cinese Foxconn. Vi sono poi medie imprese, o piccoli gruppi multinazionali (Global Brass and Copper), della meccanica di precisione legata in particolare alla lavorazione di componenti di rame, ottone e varie leghe metalliche. Come emerge scartabellando i rispettivi siti internet, questi ultimi, che includono tra le loro produzioni anche componenti per prodotti elettronici, sopravvivono essenzialmente rifornendo il settore delle costruzioni e della difesa, avendo subito il crescente ricorso da parte delle transnazionali USA a sub-fornitori cinesi e asiatici, sempre più presenti nella componentistica e non solo nell’assemblaggio di prodotti finiti (un dato rilevante per comprendere questo passaggio è rappresentato dalla progressiva riduzione della dipendenza dalle importazioni delle importazioni della RPC passata dal 60 al 40% in vent’anni)[11].

 

Il riorientamento “tattico” di Trump può funzionare?

Abbiamo detto che i settori capitalistici di cui sopra sono quelli sui quali si appoggia principalmente Trump, il quale tuttavia, in quanto presidente degli Stati Uniti, è costretto a mediare tra gli interessi del complesso della classe dominante, ove la frazione più potente è rappresentata dai grandi gruppi multinazionali e transnazionali. Ecco che negli ultimi tempi Trump ha ricalibrato in maniera evidente il suo approccio al protezionismo enfatizzando il fatto che lo si intende come arma di minaccia per costringere la Cina a “smetterla con i furti di proprietà intellettuale” e a liberalizzare ulteriormente il suo mercato interno delle merci e dei capitali, piuttosto che come progetto chiusura del mercato nazionale volto a riportare in patria le produzioni delocalizzate, a rilanciare la produzione d’acciaio e dunque a creare posti di lavoro. Un monito, a questo punto, sia fatto di passata ai proletari americani: il settore dell’acciaio USA è fortemente indebitato e vive una crisi pluridecennale di profittabilità, che si aggiunge ai problemi legati alla sovrapproduzione attuale [12]: se U.S. Steel, Nucor etc. vedessero ridursi la concorrenza, si limiterebbero ad alzare i prezzi, non avendo risorse per investimenti significativi; pensare poi di convincere i grandi monopoli multinazionali e transnazionali USA che controllano grosso dell’economia nazionale a “riportare in patria la produzione”, rimanendo nel quadro della proprietà privata capitalistica, è pura utopia. Ecco che se si guarda bene ai dazi – N.B. non ancora operativi – impostati la settimana scorsa dal presidente si rileva come siano esentate proprio quelle merci maggiormente integrate nelle catene del valore dominate dalle transnazionali USA, e in particolare prodotti tessili, elettronica e informatica [13].

Poiché però essi costituiscono la componente principale delle esportazioni cinesi negli States, una politica protezionistica che non li colpisce rappresenta più che “una asso di coppe” calato da Trump (il significato italiano del cognome è “briscola”!), una vera e propria tigre di carta; peraltro, come rileva il Financial Times, le tariffe imposte da Reagan – entrato nella storia come alfiere del libero commercio – contro il Giappone negli anni 80 ammontavano al quadruplo di quelle fino ad ora messe solo in programma da Trump! Colgono invece nel segno dal punto di vista degli interessi strategici del capitale USA le tariffe contro alcuni prodotti ad elevatissimo contenuto tecnologico come i pannelli solari e le auto elettriche, che tuttavia rappresentano, almeno per ora, una percentuale poco importante degli interessi commerciali cinesi in Nord-America. Più rilevante – tanto nell’ottica di compattare un fronte contro la Cina – sarebbe la leva della minaccia protezionistica rivolta agli altri centri imperialisti e in particolare europei con i quali, nonostante la rilevanza assoluta degli scambi di beni intermedi, maggiore è il commercio intersettoriale e sarebbe più facile colpire importanti interessi commerciali non intrinsecamente legati con quelli USA: ad esempio, come riporta il Sole24Ore, le prime 30 società quotate a Francoforte, tra le quali vi sono le case automobilistiche che competono con quelle statunitensi, vendono più negli Stati Uniti che in Germania [14]! Tuttavia, proprio per l’entità degli scambi bilaterali tra UE e USA e per via degli intrecci proprietari che collegano il capitale europeo con quello nordamericano [15], anche qui le resistenze del grosso della borghesia USA – ad eccezione dell’acciaio – a un aumento delle tensioni sono molto forti; significativo un grafico riportato tre settimane fa dall’Economist inerente il supporto delle associazioni padronali yankee alle politiche protezioniste di Trump.

 

Inoltre, come rilevano alcuni osservatori accorti della borghesia internazionale (i.e. Financial Times), puntare su questa “briscola” – come in effetti il presidente ha tentato di fare – rischia al contrario di spaccare il fronte rappresentato dal “capitalismo occidentale” contro quello cinese; i paesi europei, come gli USA, hanno infatti un interesse strategico a frenare lo sviluppo ineguale e combinato della RPC, con la quale tuttavia i rapporti sono complessi: si pensi – anche se non c’è qui spazio per approfondire – alle divisioni tra l’imperialismo tedesco e francese (ma anche italiano) rispetto alla concessione dello Status di Economia di Mercato alla Cina. C’è poi da considerare la strana contraddizione in virtù della quale, mentre il populismo di Trump urla “prima l’America!”, i nostri Salvini, Lepen etc. strizzano un occhio all’omologo Yankee e l’altro alla Russia di Putin, i cui interessi strategici – pur se in maniera estremamente ambigua – convergono più con la Cina che con “l’Occidente”.

 

Quali prospettive?

Fatte tutte queste premesse, non bisogna tuttavia concludere che le difficoltà obiettive di fronte alla quale si trova una politica protezionistica allo stato attuale, significhino una perdita di rilevanza delle tensioni geopolitiche e militari [16]. Più esplicitamente, se è vero che la seconda (ma anche la prima) guerra mondiale furono spinte in ultima analisi dall’esigenza della Germania – la Cina dell’epoca – di aprire i mercati protetti controllati dagli imperialismi più maturi, e quindi dalla necessità di Francia e Inghilterra di difendere il proprio monopolio coloniale, ciò non vuol dire che la globalizzazione rappresenti la garanzia della “pace perpetua” (c’è arrivato perfino il Papa a notare che è in corso una “guerra mondiale a pezzi”). Le forme attraverso le quali si concretizza quel processo di disallineamento tra rapporti politici e rapporti economici mondiali associato allo sviluppo ineguale e combinato identificato da Lenin [17] come motore dei conflitti interimperialistici, sono differenti rispetto a 100 anni fa; tuttavia la “lotta per una nuova spartizione della terra”, che attualmente significa in ultima analisi quella per il monopolio della tecnologia che permette di accaparrarsi le fette maggiori del plusvalore estratto globalmente ai lavoratori, è in atto oggi come allora. Al contrario, l’incapacità della minaccia protezionistica di rappresentare una carta efficace per trattare sulle questioni essenziali, potrebbe spingere a cercare mezzi di pressione, immediatamente politici più efficaci e non bisogna dimenticare che quello principale in mano agli USA è rappresentato dalla sua ancora incontrastata preminenza militare. Il tema è molto articolato, ma è chiaro che quanto detto può gettare luce sui motivi per cui, ad esempio, la questione Nord-coreana – a sua volta impossibile qui da approfondire – continua ad assumere un’importanza centrale, con radici profondamente economiche. Forse, nel contesto dell’attuale “guerra commerciale”, è allora più rilevante la recentissima visita di Kim Jong Un a Pechino – la prima da quando il dittatore è al potere – della contro-minaccia di dazi alle esportazioni statunitensi lanciata dalla Cina agli Usa…

 

Note

[1] Si veda: R. E. Baldwin, P. Martin, Two Waves of Globalisation: Superficial Similarities, Fundamental Differences, NBER Working Paper No. 6904, January 1999. Disponibile su nber.org.

[2] Ibid.

[3] Per transnazionale non intendiamo “senza patria”, bensì imprese a capo di filiere produttive, appunto, transnazionali. Da distinguere – almeno concettualmente, poiché nei fatti la distinzione è sfumata – dalle multinazionali le cui sussidiarie internazionali sono volte più che altro a presidiare i mercati esteri.

[4] Per uno studio articolato si veda: J. Smith, Imperialism in the Twenty-first Century, Monthly Review Press, 2015. Il limite principale del lavoro in questione è quello di sottovalutare le implicazioni nelle gerarchie imperialistiche dello sviluppo ineguale e combinato cinese. Si veda per un’analisi più attenta ai conflitti interimperialistici: T. Ten Brink, Global Political Economy and the Modern State System, Brill, Leiden, 2014, pp. 220-230.

[5] Si veda: L. Trotsky, Storia della Rivoluzione Russa, Capitolo 1.

[6] Si veda: T. Ten Brink, op. cit., Brill, Leiden, 2014, pp. 220-230.

[7] M. Robert, Trump Trade and the Global Tech War, 05\04\18. Disponibile sul blog di Michael Roberts.

[8] Si veda per capire i termini della questione questo interessante rapporto: Farms and Farmland, U. S. agricultural Census, 2012 (disponibile su agcensus.usda.gov), dove emerge che il 4% dei proprietari terrieri USA detiene il 50% delle terre. Sul peso elettorale degli agricoltori USA – esaltato dal sistema elettorale federale che avvantaggia gli Stati agricoli, pur essendo poco popolosi – si veda questo articolo del New York Times.

[9] Metalbulletin, US steel industry cautious on TPP trade impact, 06\10\2015, disponibile su metalbulletin.com.

[10] China’s soaring steel exports may presage a trade war, The Economist, 09\12\15. Disponibile a:

[11] UNCTAD, Trade and Developmet Report, 2016, p. 20. Disponibile su unctad.org.

[12] J. Tivey, R. Campbell, S. Greissman, Losing Strenght: US Steel Industry Analysis, Whitecase, 19\04\2016. Disponibile su whitecase.com.

[13] V. Romei, US-China trade tariffs in charts, Financial Times, 05\04\18. Disponibile su ft.com.

[14] Sole24Ore, 09\03\18, p. 2

[15] T. Ten Brink, op. cit., pp. 214-219.

[16] Questa è la tesi di fondo di E. Screpanti, L’Imperialismo Globale e la Grande Crisi, Dipartimento di Economia dell’Università di Siena, Siena, 2013.

[17] V. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Disponibile su Marxists Internet Archive. Al netto delle profonde trasformazioni dell’imperialismo mondiale, questo è a nostro avviso il succo dell’insegnamento del capolavoro di  Lenin.

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.