La giornata mondiale contro la violenza sulle donne offre l’occasione per chiarire come il “femminismo istituzionale” sia un inganno e un vicolo cieco per la causa dell’emancipazione delle donne.


Il 25 novembre si è celebrata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e le istituzioni hanno adempiuto anche quest’anno, nonostante il lockdown, alle formalità di rito.
Si sono dati tutti molto da fare per arginare questo fenomeno:è stato prodotto il video racconto trasmesso in streaming sulla webtv della Camera dei deputati “Non chiedermelo. Non è importante”, dedicato all’installazione “Com’eri vestita”, seguito da un incontro a cui hanno partecipato il presidente della Camera, Roberto Fico, la ministra per le pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti e la vicepresidente della Camera, Maria Edera Spadoni. E ancora i cento video-appelli per dire no alla violenza contro le donne dal titolo “Tanti fili, Una Rete”, campagna di sensibilizzazione del Consiglio nazionale forense (Cnf) trasmessa sul canale YouTube; tra le altre iniziative si annovera l’istallazione di panchine rosse in alcune città itliane come Milano o Palermo; tutte iniziative che evitano accuratamente di prendere misure serie e concrete per quella che ormai è un’emergenza nell’emergenza.

Nello stesso momento centinaia di donne e soggettività LGBTQIA+ riempivano le piazza di moltissime città italiane per rifiutare a gran voce la gestione misogina e classista della pandemia portata avanti da quegli stessi colletti bianchi che si proponevano come paladini dei diritti delle donne (ma solo per un giorno e solo a parole) nelle aule del parlamento.

Le piazze sono tornate a riempirsi nella giornata di sabato. Nemmeno la pandemia è riuscita ad arginare la marea transfemminsta che solo a Roma ha riempito Piazza del Popolo con migliaia di giovan* e attivist* che hanno dato voce alla loro rabbia contro un sistema in cui le donne sono protagoniste indiscusse dello sfruttamento e dell’oppressione.

 

Chiuse in casa con il proprio carnefice: violenza domestica e covid-19

Il lockdown seguito alla pandemia di Covid-19, ha lasciato senza via di scampo tutte quelle donne maltrattate in famiglia, luogo in cui avvengono la maggior parte delle violenze di genere, e ha determinato un aumento delle violenze dalle quali è stato materialmente impossibile sottrarsi non potendo uscire di casa. Nei primi 10 mesi del 2020 i femminicidi sono stati 91. Uno ogni tre giorni. Senza contare le richieste di aiuto alle associazioni, che sono cresciute del 73% (Istat). I vari lockdown hanno esacerbato un fenomeno che già prima era parte integrate della nostra società. La violenza di genere è un fenomeno trasversale, che colpisce le donne di ogni classe sociale questo è innegabile ma altrettanto innegabile è il fatto che colpisce molto più duramente lì dove regna la povertà, lì dove mogli e compagne, figlie e sorelle, non hanno alcuna via di uscita perché questa società le lascia prive di qualsiasi risorsa. E questa non è una casualità, non è qualcosa che, nella nostra democrazia, è andato storto.
La povertà che affligge le donne e le rende vittime della violenza degli uomini è uno dei pilastri su cui la nostra società si fonda: il capitalismo si serve di quell’ordine sociale, che prende il nome di patriarcato, che vuole la donna sottomessa all’uomo e lo fa per garantire a pochi miliardari i loro incessanti profitti.

Prova ne sono i fatti; la ricchezza dei più ricchi è cresciuta anche in tempo di covid mentre, durante la pandemia, la povertà si è fatta definitivamente e inequivocabilmente donna: “La pandemia ha definito il nuovo volto della povertà: giovane, precaria, donna e madre” titola significativamente un articolo di The Vision.

L’ordinamento familistico e patriarcale della nostra società sottopone le donne al ricatto della povertà nei termini di una vera e propria mancanza di sostentamento, di una casa dove vivere.
L’ovvia conseguenza è quella di
dover dipendere economicamente da un’altra persona, essere costrette in una relazione malsana o addirittura violenta per avere un tetto sulla testa per sé o per i propri figli.

È un dato di fatto che le donne, all’interno della società patriarcal-capitalista, subiscono da sempre una vera è propria segregazione che rende loro difficile l’accesso al mondo del lavoro o le vuole impiegate in lavori meno pagati e privi di garanzie, per lo più precari; diventa quasi impossibile uscire da situazioni di abuso e violenza tenendo anche conto dell’insufficienza delle reti di supporto e dei centri anti-violenza, a cui vengono destinate risorse irrisorie, nel gestire questa problematica.

La gravità di questo fenomeno è inoltre occultata perché la stessa ricchezza viene calcolata sulla base del nucleo familiare e non della persona: i dati sulle condizioni economiche si ricavano facendo riferimento al reddito dell’intero nucleo familiare, in cui idealmente le risorse sono distribuite equamente tra tutti i membri della famiglia, cosa che però spesso non accade. Per cui ad esempio in una famiglia in cui il marito lavora e la moglie no, il reddito familiare può essere dignitoso, lo standard di vita accettabile, ma la donna non può gestire soldi propri, non ha possibilità di autodeterminazione ed è esclusa dalla vita attiva. È, di fatto, povera.

Ma anche lì dove la donna lavora, alla carenza dei servizi pubblici del welfare familistico italiano, si è sopperisce con il lavoro domestico non retribuito che ricade sulle spalle donne. Per di più questa è una delle ragioni per cui la crisi economica ha colpito maggiormente il mondo femminile: le donne spesso abbandonano il proprio lavoro per “dedicarsi” al lavoro di cura.

La gestione della pandemia che ha visto un incremento quasi totalizzante dello smart working e lo scarico totale della cura dei figli sulle madri con la chiusura delle scuole, ha nettamente aggravato queste condizioni portando non solo le donne lavoratrici a precarizzare ancora di più le condizioni del proprio lavoro (spesso con variazioni di contratto e di salario) ma soprattutto ad aumentare esponenzialmente il tempo dedicato al lavoro domestico e alla cura dei figli. Senza considerare che, durante il periodo del lockdown, il collasso del sistema sanitario e le misure di contenimento del contagio hanno privato le donne del diritto fondamentale all’aborto e alla salute, già sotto continua minaccia a prescindere dalla crisi pandemica. Anche in questo caso a pagarne doppiamente le spese sono state le donne più povere, le immigrate, le precarie che, non potendosi permettere le parcelle salatissime degli studi privati, hanno dovuto rassegnarsi alle porte chiuse dei consultori e degli ambulatori.


Contro il femminismo delle istituzioni rispondiamo con la lotta!

Le istituzioni in Italia stanno bene attente ad associare il problema della violenza di genere al problema della povertà in generale e a quello della povertà femminile in particolare che infatti viene affrontato di rado e male; quello che spesso non viene riconosciuto è proprio il fatto che la condizione di indigenza e di sfruttamento che vivono milioni di donne, spesso prive di un reddito proprio, e in generale la violenza di cui sono vittime è un problema strutturale .

Rivoluzionare questa società è per le donne e per le soggettività LGBTQIA+ una questione imminente di vita o di morte e non ci facciamo buttare fumo negli occhi dai “balletti in maschera” che le istituzioni mettono su ogni anno per nascondere la loro connivenza con un ordine sociale che ci vuole sfruttate e vittime.

Non intendiamo delegare la lotta contro il patriarcato e, alle ipocrite manifestazioni di chi prova a convincerci che la nostra oppressione e il nostro sfruttamento sono solo “questioni di cultura” rispondiamo con l’autodifesa transfemminista anticapitalista. Così come rifiutiamo la militarizzazione delle strade, rifiutiamo la finta sicurezza che le istituzioni ci propinano. Le nostre vite sono esposte quotidianamente al rischio della violenza, dello sfruttamento, dell’oppressione e della morte anche se qualche panchina viene tinta di rosso.

Pretendiamo l’ esproprio degli immobili inutilizzati per trasformarli in case-rifugio per le donne e i loro figli vittime di violenza e per tutt* quell* che vivono violenza patriarcale tra le mura domestiche. Vogliamo che i percorsi di fuoriuscita dalla violenza siano garantiti dallo Stato e sotto l’autogestione delle organizzazioni di donne e lavoratrici, con assistenza professionale garantita e senza l’intervento di polizia e magistratura.

Promuoviamo la creazione di commissioni di donne e persone LGBTQIA+ nei luoghi di lavoro, nelle università e nelle scuole, all’interno dei sindacati, indipendenti dai datori di lavoro e dagli organi direttivi, per affrontare i casi di molestie sessuali e di discriminazione e per esigere i sussidi necessari per le lavoratrici in situazioni di violenza.

Vogliamo piani di educazione sessuale inclusiva e non moralista per decidere della nostra sessualità liberamente, contraccettivi gratuiti per proteggerci e per poter scegliere, e aborto sicuro e gratuito per tutte le donne e i corpi gestanti!

Lottiamo contro la patologizzazione delle identità trans*, affinché l’identità delle persone trans* sia rispettata nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro.

Diciamo basta alla criminalizzazione e la stigmatizzazione delle sex workers e difendiamo il loro diritto all’auto-organizzazione.
Esigiamo che a* prostitut* che cercano un’occupazione alternativa lo Stato fornisca un alloggio ed un impiego.

Non ci servono le targhe e gli spot pubblicitari. Non ci serve un capitalismo tinto di rosa.

Siamo consapevoli che nulla sarà ottenuto senza lottare, ed è per questo che continueremo a rivendicare instancabilmente il nostro diritto al pane e alle rose.

Il pane e le rose

"Il pane e le rose" nasce nel 2019 e riunisce militanti della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) e indipendenti che aderiscono alla corrente femminista socialista internazionale "Pan y Rosas", presente in molti paesi in Europa e nelle Americhe