Lanciato dal successo nel CineFest di Roma, “Berlinguer. La grande ambizione” riscopre la figura e l’eredità storica di Enrico Berlinguer come segretario del PCI negli anni del compromesso storico. Una storia da recuperare criticamente a partire dal suo esito disastroso, senza cedere alla nostalgia agiografica come fa l’opera di Segre.


È stato lanciato il 31 ottobre nelle sale italiane, dopo l’anteprima al Festival del Cinema di Roma, “Berlinguer. La grande ambizione”, diretto da Andrea Segre, con Elio Germano come protagonista nei panni del segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer. Il periodo storico preso in considerazione dalla pellicola, narrato dal punto di vista di Berlinguer stesso, è quello che va dalla sua visita in Bulgaria nel 1973 (con il golpe in Cile sullo sfondo) all’assassinio di Aldo Moro del 1978, ovvero gli anni in cui Berlinguer sviluppa e prova ad applicare il compromesso storico. Questi sono stati anche gli anni più difficili per il leader del PCI, dato che si tratta del periodo in cui più ha subito contestazioni e più sono emerse le sue contraddizioni politiche, rispetto agli anni successivi che lo hanno poi alla fine consacrato acriticamente come “il più amato” tra i leader del PCI.

La pellicola di Segre ha il merito di proporre in una forma fruibile un ritorno o, per il pubblico più giovane, una scoperta di un passato recente, caratterizzato da un movimento operaio e da una sinistra di richiamo socialista fortissimi, che si fa fatica a riconnettere al presente caratterizzato dalla lunga scia dell’epoca neoliberista e dall’ascesa internazionale delle destre nazionaliste. Un’ottima occasione per recuperare criticamente i temi di quell’epoca e capire le ragioni del disastro del movimento comunista ufficiale, avvenuto anni dopo la scomparsa dello stesso Berlinguer.

Il film si distingue per l’ottima interpretazione di Germano e per l’accuratezza nella ricerca d’archivio, con l’inserimento di numerose citazioni precise, risultando nel complesso un’opera di buona qualità cinematografica, scorrevole per tutta la sua durata. 

L’impronta documentaristica del regista si nota molto nell’utilizzo di materiale storico di repertorio, grazie al quale lo spettatore viene immerso nell’atmosfera dell’epoca, generando però anche un’atmosfera nostalgica. In questo contribuisce abbondantemente anche la colonna sonora del compositore Jacopo Incani, che trasmette una sensazione di malinconia per una “epoca d’oro” ormai distante, ovvero l’epoca in cui esisteva in Italia un grande partito comunista da 1,7 milioni di iscritti che condividevano la “grande ambizione” del cambiamento della società, con un richiamo al passaggio dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, citato in apertura: 

Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo) [Quaderno 6, § 97].

Infatti, proprio la nostalgia di cui è impregnato il film è strettamente legata al suo principale limite, ovvero la tensione verso l’agiografia dello stesso Enrico Berlinguer e del PCI, risultando in una sostanziale mitizzazione. 

I punti di forza dati dalla ricerca d’archivio contribuiscono a far emergere parzialmente le contraddizioni, ma la critica politica risultante è superficiale e non riesce a cogliere la natura del Partito Comunista Italiano berlingueriano e gli aspetti cruciali dell’inizio del processo di liquidazione di quest’ultimo.


Quale “grande ambizione” nell’Eurocomunismo?

In tutto il film emerge prepotentemente il contrasto tra la visione di Berlinguer e la dottrina ufficiale dei regimi burocratici “comunisti” dell’est Europa, facendo risaltare una rappresentazione della figura del leader del PCI come di un riformatore idealista che si scontra con le difficoltà di un’epoca segnata dalla guerra fredda. 

Da una parte ci sono le rigide ritualità militariste e l’autoritarismo brutale di un tardo-stalinismo ormai agli sgoccioli, rappresentato da leader che non si fanno problemi nel rivendicare l’uso dei carri armati del Patto di Varsavia contro le repubbliche del blocco orientale. Dall’altra parte, invece, ci sono le riflessioni e i grandi discorsi di Berlinguer alle manifestazioni del partito e i confronti con i militanti, durante i quali il leader del PCI rivendica il bisogno del superamento del barbaro sfruttamento capitalista tramite un progetto che però si distanzi dall’Unione Sovietica, che sempre meno esercitava un fascino come modello alternativo di società, anche fra le stesse masse che avevano il PCI come riferimento quanto meno elettorale. Dunque, Berlinguer giustamente rivendica il programma di un socialismo che realizzi la completa liberazione dell’umanità sia al livello collettivo che individuale, connettendosi implicitamente proprio a quel socialismo dal volto umano duramente represso dai carri armati sovietici nella Cecoslovacchia del 1968 e nell’Ungheria del 1956. Per questo il confronto con i leader del blocco orientale è aspro e c’è disprezzo reciproco: questi ultimi, addirittura, tentano di assassinare Berlinguer in occasione della sua visita ai dirigenti comunisti bulgari.

Ma – come conseguenza di una narrazione estremamente superficiale verso quelli che sono i limiti della proposta politica del leader comunista – in questo contrasto il Berlinguer di Elio Germano spesso mostra anche una ingenuità che non può essere credibile se si pensa al Berlinguer storico. Se da una parte l’idealismo espresso tramite le scene dei grandi discorsi di piazza ne esaltano la mitizzazione, dall’altra, quando si affronta la sua idea di una via puramente parlamentare ed elettorale al socialismo – il cosiddetto eurocomunismo – emerge un leader debole che si illude di imprimere un cambiamento di enorme portata senza scossoni e senza “sgambetti” da parte della classe dominante. 

Da questo punto di vista fanno una migliore figura persino i “banditeschi” leader “comunisti” dell’est che appaiono nel film, i quali mettono sul piatto l’imprescindibile questione della dimensione repressiva ed ostile dello Stato capitalista verso le organizzazioni operaie. Difatti, sono le uniche voci che facciano emergere in modo chiaro gli enormi limiti democratici dei regimi liberali, ostacolo fondamentale anche nel contesto della più democratica repubblica parlamentare possibile. 

La totale scomparsa delle critiche da sinistra alla politica di Berlinguer – se non come distanti echi dei movimenti tra ‘68 e ‘77, o bonarie, minime osservazioni della base operaia del partito e dei figli bambini – fa sì che lo stesso PCI risulti allo spettatore come un blocco filo-riformista ancora più monolitico di quanto non fosse al tempo.

Quello che fu un calcolo opportunista – figlio della quasi quarantennale burocratizzazione del partito – viene quindi rappresentato come il sogno idealizzato di un leader a volte un po’ ingenuo che non aveva molte altre scelte. Alla base, in realtà, c’era un progetto cosciente di conciliazione di classe che andava solamente ad approfondire la deriva istituzionale e gradualista della precedente fase togliattiana del partito.

Nel 1981 Berlinguer disse che “era esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, giustificando così definitivamente l’abbandono di qualsiasi proposito rivoluzionario. Che quella spinta propulsiva si fosse esaurita era evidente – vista la grave situazione nel blocco orientale e nel movimento comunista internazionale – però dal dopoguerra in poi e in particolare sulla scia del “‘68 globale” (tra grandi movimenti di liberazione nazionale e di genere e cicli radicali di lotta di classe) si erano presentate nuove occasioni storiche di rinnovamento radicale, tutte ignorate dall’ormai ingessato PCI post-togliattiano. 

Un “nuovo corso”, quello di Berlinguer, che esplicitamente ha abbandonato la “grande ambizione” della trasformazione rivoluzionaria del capitalismo, che era ciò che rivendicava Antonio Gramsci come grande causa attorno alla quale riunire le ambizioni e istanze parziali di tutti i settori subalterni della società.

 

Il compromesso storico: la “grande ambizione” diventa “grande liquidazione”

In varie scene in cui i dirigenti del partito analizzano ossessivamente le percentuali raggiunte emerge prepotentemente l’entità della deriva elettoralista del PCI di quegli anni, con tutto l’apparato concentrato soprattutto nell’aumentare il più possibile voti e consenso. Un investimento di energie che è tutto a discapito di qualsiasi sforzo organizzativo serio che rafforzasse il potere e la combattività della classe lavoratrice, nonostante la fase politica degli anni ‘70 fosse ancora favorevole alla lotta di classe. Erano proprio gli anni della crescita esplosiva del fenomeno dei consigli di fabbrica, ma ormai il PCI non era più in grado di cogliere la fondamentale differenza e discontinuità tra la democrazia della classe lavoratrice che questi realizzavano nel concreto e la “democrazia” del regime liberale rappresentata dal parlamento. Tutto ciò può saltare all’occhio dello spettatore attento politicizzato, ma nel film non vi è alcuna analisi critica a riguardo al di là di qualche incontro di Berlinguer con la base operaia.

Molto più spazio è invece occupato dallo sviluppo della strategia del compromesso storico con la Democrazia Cristiana, risultando la parte più consistente e centrale del film. L’impegno di Berlinguer e del PCI nell’imboccare la “via italiana al socialismo” si riduce tutto in manovre ultra-burocratiche e incontri segreti tra vertici per cercare l’intesa con l’ala “sinistra” della DC rappresentata da Aldo Moro, vaneggiando di allargamento del coinvolgimento delle masse popolari cattoliche nel progetto socialista, nel quadro di un “rafforzamento della democrazia” al fine di evitare la possibilità di un golpe alla cilena. 

In questo ragionamento vi è una clamorosa sottovalutazione della mediazione clientelare passivizzante portata avanti dalla DC con la sua base, del doppio filo con l’imperialismo americano, e quindi della natura mortale dell’abbraccio con i democristiani, i quali chiaramente finiscono per ingabbiare e addomesticare sempre più i comunisti. Berlinguer e gli altri dirigenti del PCI non considerano minimamente la possibilità di provare a spaccare la DC, anzi, nel film sembrano quasi voler chiedere il permesso per governare. Il PCI storico, va riconosciuto, aveva una maggiore profondità strategica sulla questione dell’approccio alla DC come partito che controllava le “masse popolari cattoliche”, senza percepirla come un’espressione diretta, monolitica e intoccabile di quei settori subalterni che effettivamente non erano inquadrati negli organismi diretti dalle sinistre, centrati sulla classe lavoratrice organizzata.

La frattura con la nuova sinistra degli anni ‘70 appare per quasi tutto il film come molto lontana, ridotta caricaturalmente a banale ribellione giovanile o fiammata di estremismo, quando in realtà il PCI in quegli anni si stava alienando le simpatie delle nuove avanguardie combattive della classe operaia, e dovette dedicare sforzi importanti a recuperare terreno, facendo da sponda di sinistra della complessiva opera di repressione dei settori della sinistra radicale, soprattutto quelli che adottarono la strategia della lotta armata avanguardista per catalizzare la rivoluzione sociale in Italia.

Salta molto all’occhio come non venga minimamente citato l’emblematico episodio della cacciata dalla Sapienza del segretario della CGIL Luciano Lama nel 1977, che segnò proprio il punto di non ritorno tra la nuova sinistra e il PCI di Berlinguer. In generale i quasi dodici anni del “lungo Sessantotto” italiano sono incredibilmente quasi assenti. Anche lo stesso sostegno del PCI all’austerità dei democristiani – al centro proprio delle contestazioni del movimento del ‘77 – non è affrontato esplicitamente, se non molto indirettamente dando spazio al sostegno indiretto di Berlinguer (la “non-sfiducia”) al terzo governo Andreotti. Ci si concentra di più, ma solo verso la fine del film, sull’opposizione alle Brigate Rosse, in quanto artefici del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, e quindi responsabili di aver sabotato il tentativo di larghe intese PCI-DC – cosa che avvenne, evidentemente, per ragioni e dinamiche molto più complesse della mera azione del lottarmatismo italiano. In questo senso, il film lascia nell’ombra la questione fondamentale, sollevata inizialmente dalla figura del burocrate bulgaro, del cedimento di Berlinguer verso “l’ombrello” protettivo della NATO e in generale dell’ingerenza degli USA nella politica italiana: era l’imperialismo americano la grande potenza che aveva qualcosa da perdere nella rottura dell’equilibrio politico italiano post-seconda guerra mondiale, e che da un trentennio alimentava trame reazionarie, potenzialmente golpiste nel paese. 

Discostarsi dalla burocratizzazione brutale del blocco socialista centrato sull’URSS, al contrario, avrebbe dovuto rinnovare e dare slancio al protagonismo dei comunisti nella lotta antimperialista sia nel mondo “coloniale” sia all’interno delle potenze occidentali.

Sebbene con grandi limiti, riesce in parte ad emergere come il PCI ormai si fosse disabituato alle lotte, sempre più scollato da una base che diventava sempre più puramente elettorale e passivizzata, mentre l’occasione delle lotte degli anni ‘60 e ‘70 avrebbe potuto offrire un’occasione di rinnovamento radicale. Lo stesso Berlinguer in molteplici scene appare come un grigio burocrate che però ogni tanto si concede momenti pubblici di gioviale utopismo. La nascita della nuova sinistra rappresentava proprio il campanello di allarme del fallimento del PCI, qualcosa che Berlinguer non riusciva minimamente a comprendere. Non a caso in modo molto scomposto bollava come “estremisti” o, peggio, “fascisti di sinistra” e “untorelli” tutto ciò che sfuggiva alla morsa burocratica del partito. In questo senso la “grande ambizione” si impantana nel burocratismo, rendendo gli anni ‘70 una grande occasione persa per il movimento operaio italiano.

L’ossessione di Berlinguer di voler evitare a tutti i costi di “spaccare il paese”, il dover essere “responsabili”, l’aver ceduto all’austerità, le larghe intese con la DC: è evidente come questi elementi abbiano spianato la strada alla liquidazione di fatto del PCI ben prima della Svolta della Bolognina di Achille Occhetto, in prospettiva gettando le basi disastrose per i Democratici di Sinistra e, quindi, il Partito Democratico. Il fatto che il film di Andrea Segre non abbia affrontato a fondo questi aspetti è senza dubbio un’occasione mancata, figlia dell’incapacità della sinistra italiana di fare i conti con la propria travagliata storia e quindi di liberarsi dei propri santini.

 

Giuseppe Lingetti, Giacomo Turci

Nato a Roma nel 1993. Dottore di Ricerca in Fisica, ha militato nel Coordinamento dei Collettivi della Sapienza fino al 2018 e in Fridays For Future Roma fino a fine 2019. Attualmente lavora come programmatore software per un'azienda privata dell'industria ferroviaria.

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.