Si è tenuto fra il 17 e il 20 giugno il congresso del PTS (Partido de los Trabajadores Socialistas), partito argentino appartenente come la FIR alla corrente rivoluzionaria internazionale della Frazione Trotskista. In questa intervista a cura di Daniel Matos, dirigente del MRT brasiliano (Movimento Revolucionário de Trabalhadores), Emilio Albamonte e Matías Maiello, dirigenti del PTS, affrontano una serie di temi attorno alle elaborazioni teoriche di Gramsci e Trotsky, in relazione ai temi all’ordine del giorno nel congresso del PTS.


Daniel Matos (DM): La prossima settimana [nella versione originale dell’intervista, ndr] si terrà il XIX Congresso del PTS. In questo quadro volevo chiedervi quali sono le discussioni teoriche che accompagnano le discussioni politiche centrali del Congresso? In particolare, come le inquadrate?

Emilio Albamonte (EA): La scorsa settimana abbiamo pubblicato su Ideas de Izquierda (rivista online del PTS, ndr) un documento per il Congresso scritto da Claudia Cinatti sulla situazione internazionale che, in questo ultimo periodo, è segnata dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze. Nelle prossime settimane pubblicheremo i documenti che caratterizzano la situazione nazionale, l’orientamento del partito e le risoluzioni del Congresso stesso. Per quanto riguarda la relazione tra le questioni che stiamo studiando più teoricamente e le risoluzioni del congresso; nel mio caso mi sono occupato di come l’organizzazione debba portare avanti un discorso politico socialista più pedagogico e popolare, che affronti alcuni nodi politici come quello, che stiamo proponendo dal 2017, intorno alla riduzione della giornata lavorativa a 6 ore e alla redistribuzione dell’attività lavorativa.

Da questo punto di vista, per il Congresso e oltre il Congresso, sono tornato allo studio di Gramsci per cercare di approfondire il nostro discorso pubblico socialista. Sebbene il PTS non sia ancora un partito in senso stretto con un’influenza di massa, esso è attivo all’interno di diversi sindacati, università e altre organizzazioni di massa. Ciò ci ha portato a conquistare oltre un milione di voti [alle recenti elezioni di metà mandato, ndr] grazie anche all’unità con parte del Frente de Izquierda – Unidad (FIT-U) alle ultime elezioni. Quindi, il discorso e la pratica socialista della nostra organizzazione non possono limitarsi ad una scuola estiva o a una scuola di quadri come fanno i piccoli gruppi. 

Anche se non siamo un partito di massa, siamo un’organizzazione in transizione verso un partito di quel tipo. Non si tratta di parlare genericamente di socialismo, come fanno alcune organizzazioni, ma di formulare un discorso che, pur avendo una base teorica marxista, sia comprensibile dal maggior numero di compagni  e compagne.

Vale a dire, non solo per coloro che militano nella nostra organizzazione, ma per strati più ampi di lavoratori che simpatizzano per il PTS o che sono d’accordo con noi su varie questioni. Questo ha l’obiettivo più in generale, di cercare di raggiungere le centinaia di migliaia di persone a cui ci rivolgiamo durante le elezioni.

DM: Che rapporto ha questo lavoro con la situazione attuale?

EA: Il lavoro di elaborazione è molto importante per stabilire la base su cui partire e su quali fondamenta possiamo andare avanti. Perché il XX secolo, visto dal XXI secolo, è un secolo in cui il progetto socialista è stato sconfitto. Anche perché negli ultimi decenni il discorso marxista è stato confinato all’interno dell’accademia ed è stato sottoposto a ogni tipo di revisionismo. Il prefisso “post” è stato generalizzato, non solo post-marxismo, post-modernismo, ma ora anche post-egemonia, post-politica, ecc., gettando a mare molti concetti teorici centrali, compresi quelli elaborati dal movimento marxista.

DM: E comunque il pensiero politico socialista ha una varietà di nemici…

EA: Sì, da coloro che trasformano le pratiche politiche in puro discorso, da Laclau fino ai teorici più socialdemocratici. Nell’arena politica, poi, ci sono due nemici fondamentali, oltre al mainstream del pensiero borghese. Da un lato, i populisti di destra che proclamano il loro odio per il comunismo, come Bolsonaro, Trump o i cosiddetti libertari [così è chiamato il liberismo di destra in Argentina, oggi capeggiato da Javier Milei, ndr]. E dall’altra parte, i neo-riformisti, come Podemos in Spagna; o le correnti nazionaliste piccolo-borghesi come il chavismo, che non è mai stato altro che nazionalismo borghese, nonostante si sia autodefinito il “socialismo del XXI secolo”; o il kirchnerismo, che cerca di regolare i mali del capitalismo attraverso lo Stato. In altre parole, ci sono avversari di destra, di sinistra e di centro-sinistra.

DM: Cosa apporta nel suo tentativo di sviluppare questo discorso politico?

EA: Gramsci è molto importante perché lui e Trotsky, dopo la furiosa reazione staliniana che liquidò altri teorici marxisti come Bucharin, Preobrazhensky, Ryazanov, ecc., sono state le due grandi figure rimaste negli anni Venti e Trenta che hanno cercato di rielaborare il marxismo durante una situazione in evoluzione come quella tra le due guerre. Con la reazione neoliberista si sono addirittura liquidati i grandi partiti “comunisti” riformisti, come quello italiano e quello francese, che perlomeno discutevano di marxismo.

Anche se ora il quadro sta cambiando e c’è una certa rinascita, in generale il marxismo si restringe all’ambito delle università, a centri accademici e singole personalità. Mentre i rimanenti gruppi marxisti di sinistra o di estrema sinistra dedicano ben poco della loro attività allo sviluppo del pensiero marxista. Da questo punto di vista, se vogliamo diventare un partito leninista, dobbiamo seguire la tradizione del partito bolscevico con tutta quella serie di intellettuali che esso era in grado di coinvolgere, come del resto la Seconda e la Terza Internazionale. Dobbiamo lavorare molto sul terreno teorico. Tutta la pratica rivoluzionaria deve essere collegata a questo lavoro teorico.

DM: Volevo chiederti, Matías, del libro di dibattiti sul programma socialista che stai per pubblicare, delle relazioni tra questo lavoro e le discussioni che si stanno avendo in vista del congresso del PTS.

Matías Maiello (MM): Questo libro cerca di continuare, dal punto di vista del programma, alcune delle riflessioni contenute in Estrategia socialista y arte militar [di prossima pubblicazione in Italia in versione ridotta, ndr], alcune delle quali sono più direttamente collegate alle discussioni del Congresso, mentre altre no. Emilio stava solo riassumendo un po’ la situazione del PTS e come sia fondamentale sviluppare un discorso e una pratica socialista che sia in grado di andare al di là degli stretti giri militanti. 

Questa preoccupazione è riportata anche nel libro, soprattutto a partire dall’approccio transitorio con cui la Terza Internazionale e poi Trotsky affrontarono il problema del programma socialista.

Una questione centrale è come presentare alcune questioni fondamentali del progetto della società socialista in modo popolare e semplice e in dialogo con i problemi posti dal capitalismo in un determinato momento storico, con le sue crisi, le sue guerre e i processi di lotta di classe.

E proprio su questo c’è una discussione molto ampia che ha segnato il movimento socialista tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando si è stabilita una netta separazione tra un programma minimo e democratico limitato al quadro del capitalismo, a cui la pratica quotidiana finiva per essere circoscritta, e il programma socialista, che veniva relegato ai giorni di festa, come dicevano la Luxemburg o Trotsky.

Si tratta allora di capire come il programma socialista, anche in momenti che non sono di scontro acuto nella lotta di classe, possa essere operativo dal punto di vista di un discorso e di una pratica socialista, seminando alcune idee, come stiamo cercando di fare con l’agitazione per la riduzione della giornata lavorativa a 6 ore, collegandola alla distribuzione dell’orario di lavoro, e istituendo alcune tradizioni di lotta, come la gestione operaia della produzione come quelle di Zanon e Madygraf [fabbriche occupate e gestite da lavoratori, ndr], eccetera. Collaborando così a quel processo che coinvolge molti altri aspetti di costituzione della classe operaia come attore politico indipendente ed egemone.

Una manifestazione storica dei lavoratori della fabbrica occupata e recuperata Zanon, a Neuquen, in Argentina.

DM: Come si inseriscono questi temi negli attuali dibattiti politico-teorici?

MM: Il libro affronta tutta una serie di dibattiti sul programma socialista in polemica con alcuni degli avversari citati da Emilio, come la teoria del populismo di Laclau su cui si basano molte correnti nazionaliste o neo-riformiste piccoloborghesi europee; oppure quelle visioni socialdemocratiche che hanno avuto un nuovo boom tra i settori della sinistra, soprattutto negli Stati Uniti, intorno alla figura di Karl Kautsky; così come con gli approcci “autonomi” sorti intorno ai recenti cicli di rivolte che hanno avuto luogo in vari paesi negli ultimi anni. Dal mio punto di vista, si tratta di dibattiti di prim’ordine in relazione alle prospettive del progetto socialista nel XXI secolo.

DM: Emilio, qual è il contributo specifico di Gramsci in termini di riflessione sul discorso e sulla pratica socialista?

EA: Innanzitutto, è molto importante per ogni marxista osservare che Gramsci è uno studioso non solo delle forme di dominio esercitate dallo Stato sulla società, ma anche delle forme di organizzazione della classe operaia.

Egli inizia la sua riflessione sui consigli di fabbrica, che è molto importante durante la sua partecipazione nel processo dei consigli di fabbrica di Torino nel biennio rosso del 1919-20, fino al 1926 quando viene imprigionato, continuando, in parte, la sua riflessione nei Quaderni del carcere.

Uno dei suoi principali contributi, a cui fa riferimento con una metafora molto plastica, è stato quello di spiegare l’ingresso sulla scena politica di coloro che prima non avevano “voce in capitolo”. Chi erano costoro? Era la classe operaia che, dopo la sconfitta della Comune di Parigi nel 1871, iniziò a riprendersi, con la nascita della politica di massa, aderendo alle organizzazioni sindacali, costruendo partiti per legiferare negli interessi dei lavoratori.

Questo è il periodo della nascita dei grandi partiti socialdemocratici in Germania e nell’Europa del nord, nei quali il marxismo aveva un forte peso, mentre, nell’Europa meridionale e in America Latina, tale processo avverrà con un peso molto maggiore dell’anarchismo.

Secondo Gramsci, l’ingresso massiccio dei lavoratori nella vita politica attraverso queste organizzazioni costringe lo Stato a reagire finendo per cambiare alcune delle sue stesse caratteristiche. 

In precedenza, per il liberalismo, lo Stato doveva essere un “guardiano notturno” che manteneva i rapporti di proprietà e garantiva l’ordine. Fino alla Comune di Parigi, fatta eccezione per le rivoluzioni del 1848 e le loro conseguenze, le masse rimasero quasi al di fuori dello Stato. Tuttavia, negli anni successivi, iniziò un periodo relativamente pacifico di sviluppo delle tendenze imperialiste, in cui le masse iniziarono gradualmente a partecipare a grandi sindacati e partiti.

In questo senso, la borghesia non poteva più governare come prima, doveva invece ottenere il consenso di quelle grandi masse che entrano in politica. 

Non poteva governare più solo con la frusta e il bastone, né limitarsi ad aspettare il consenso, doveva organizzarlo attivamente. 

Questo è ciò che Gramsci chiama “Stato integrale”. La questione che si poneva era come controllare le organizzazioni create dai lavoratori che portavano la classe operaia e le grandi masse sul terreno della politica Statale, senza che andassero oltre i suoi limiti, e non diventassero un fattore di sviluppo di situazioni rivoluzionarie. 

Lo “Stato integrale” cercherà poi di intervenire nel terreno della società politica sulle organizzazioni di massa come i sindacati e i partiti, cercando di impedire qualsiasi mobilitazione indipendente che potesse portare alla rivoluzione proletaria. 

Discutiamo di questo problema dello Stato integrale da quando Juan Dal Maso lo ha introdotto nei suoi libri su Gramsci, che consiglio a chi vuole approfondire .

DM: Matías, come affronta Trotsky la questione dell’emergere della politica di massa, che Gramsci descrive nel suo concetto di “Stato integrale”?

MM: Questo fenomeno dell’emergere della politica di massa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sarà analizzato da Trotsky soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione delle organizzazioni operaie.

Egli sottolinea che, essendosi trattato di un processo avvenuto nel quadro del prolungato periodo di prosperità capitalistica che seguì la sconfitta della Comune e l’unificazione tedesca, non produsse l’educazione dell’avanguardia rivoluzionaria, ma piuttosto la degenerazione borghese dell’aristocrazia operaia, che divenne il principale freno alla rivoluzione. In altre parole, i grandi partiti come la socialdemocrazia tedesca non erano caduti dal cielo, ma erano stati creati dagli sforzi della classe operaia nel corso di decenni in cui si erano adattati alle condizioni di uno sviluppo pacifico e graduale. Il risultato fu che, nel momento chiave dello scoppio della Prima guerra mondiale, non agirono come organizzazioni di lotta del proletariato, ma come organi ausiliari dello Stato borghese.

EA: Sì, in effetti già nel 1906 Trotsky segnala la possibilità che le organizzazioni create dagli sforzi e dai sacrifici della classe operaia si trasformino, con suo rammarico, in un freno alla rivoluzione proletaria, in previsione di ciò che accadrà nel 1914.

MM: Naturalmente. D’altra parte, c’è un’importante confluenza tra il pensiero di Gramsci e quello di Trotsky sui cambiamenti nel dominio dello Stato, rispetto al precedente Stato liberale e con l’irruzione della politica di massa. Da approcci diversi, entrambi hanno sottolineato che le burocrazie, sia sindacali che politiche, divenute agenti dello Stato all’interno delle organizzazioni di massa, avrebbero svolto le funzioni di “polizia politica”. Vale a dire, di prevenzione nei confronti del possibile sviluppo di un movimento operaio rivoluzionario.

DM: Quali conclusioni programmatiche e strategiche trae Gramsci da questa analisi?

EA: Questo processo di degenerazione dell’aristocrazia del lavoro colse Gramsci, che era più giovane di Trotsky, nel pieno dello sviluppo della sua formazione marxista. Ciò non gli impedirà di partecipare a modo suo al dibattito sul revisionismo iniziato nel 1895 con le proposte di Bernstein. Come spiega Nicola Badaloni in “Gramsci e il problema della rivoluzione”1, Gramsci lo farà influenzato dalla resistenza al revisionismo del teorico anarcosindacalista francese Georges Sorel, e dal punto di vista filosofico da Antonio Labriola, che fu anche uno dei maestri di Trotsky. 

Non dimentichiamo che questo periodo di sviluppo pacifico, come dice Lenin, fu segnato da 30 anni senza rivoluzioni, che significarono 30 anni di avanzata del revisionismo nelle file del movimento operaio. Bernstein sosteneva che lo sviluppo del capitale finanziario riduceva le crisi, rendeva il capitalismo più pacifico e integrava le masse nello Stato, mentre le crisi periodiche previste da Marx nel Capitale non si erano verificate nei due decenni precedenti la sua elaborazione. Egli traeva quindi la conclusione che non ci sarebbero necessariamente crisi che provocherebbero la rivoluzione, ma che un avanzamento graduale verso il socialismo sarebbe potuto emergere nel quadro dello Stato capitalista. In questa prospettiva, egli sosteneva si dovesse insistere sul fatto che il movimento è tutto e i fini socialisti sono niente. Ma a quale movimento si riferiva? Partecipazione al movimento sindacale e al processo elettorale. Bernstein trasformò in teoria un orientamento che avrebbe permeato i partiti socialdemocratici nel XX secolo, dove l’attività si svolgeva esclusivamente nella lotta sindacale ed elettorale. Dando per scontata la visione evolutiva del marxismo che nel 1917 aveva completamente permeato la Seconda Internazionale, Gramsci, per sostenere la Rivoluzione russa, si convinse che si sarebbe trattato di una rivoluzione che non rientrava nella teoria marxista, di una rivoluzione contro il Capitale, cioè contro il libro di Marx. 

Cosa intendeva dire? Era convinto che in paesi come la Russia sarebbe stata possibile la rivoluzione socialista senza passare attraverso la fase borghese-democratica. In questo senso, sarebbe stato corretto dire che si trattava di una rivoluzione contro la lettura evolutiva del Capitale e del marxismo, la quale non teneva conto della fase catastrofica di crisi e guerre che si era aperta nel XX secolo. Nel 1905 c’era già stata la guerra russo-giapponese e un processo rivoluzionario in Russia, erano stati creati i primi soviet, ma c’erano stati anche grandi movimenti come la rivoluzione messicana, la lotta anglo-boera in Sudafrica e, prima della Guerra Mondiale, c’erano state le guerre balcaniche. 

In altre parole, inizia un secolo violento in cui la rivoluzione non emergeva dalle crisi periodiche di cui parla Marx nel Capitale, ma dal contesto politico catastrofico nel suo complesso.

Questo scenario, ovviamente, è quello che dà origine al marxismo rivoluzionario e inizia a liquidare l’ala revisionista. Il pensiero di Bernstein era quello di una classe operaia integrata nello Stato, che, secondo la sua concezione, doveva essere visto come un fatto positivo. 

Per evitare questa cooptazione, Sorel, che era un anarco-sindacalista, affermava fosse necessario avere un mito che unisse la classe operaia al di fuori dello Stato borghese, e questo mito era lo sciopero generale. Sorel si opponeva alla lotta parlamentare e odiava gli intellettuali poiché, secondo lui, portavano l’ideologia borghese nel movimento di massa. Il mito dello sciopero generale era il modo per mantenere la classe operaia unita e indipendente dallo Stato borghese.

Il contesto di quei dibattiti e soprattutto il pensiero di Sorel, considerato una resistenza al revisionismo, influenzarono molto Gramsci. Labriola invece ebbe influenza su di lui sul piano filosofico, anche se, come ha sostenuto il teorico marxista italiano Sebastiano Timpanaro, si tratta del lato più debole di Gramsci. Labriola sosteneva che il marxismo fosse un sistema autonomo, indipendente dal sistema borghese, in grado – con la critica di Marx al socialismo utopico e a tutto il socialismo francese, alla filosofia classica tedesca e all’economia politica inglese – di reggersi da solo dal punto di vista filosofico per sostenere le proprie proposizioni politiche.

Questa unità sarà il leitmotiv dell’opera di Gramsci, che si stacca dalle concezioni confuse dell’inizio della sua formazione marxista e si avvicina al leninismo, il quale si era armato della teoria dell’imperialismo e vedeva quell’epoca densa di catastrofi, in opposizione all’evoluzionismo, e che poté individuare nella Russia l’anello debole della catena imperialista.

DM: La rottura teorica di Gramsci con il meccanismo della Seconda Internazionale, come avviene in Trotsky?

MM: Trotsky svilupperà l’idea di “sviluppo ineguale e combinato”. In altre parole, egli intendeva rompere con la visione di una storia lineare e di uno sviluppo omogeneo, in cui tutti i processi devono passare attraverso una fase prolungata di sviluppo capitalistico, mentre solo in una fase successiva sarebbe stato possibile affrontare la lotta per il socialismo. Contro questa tesi, egli proporrà l’argomento secondo cui il capitalismo, diventato un sistema globale, si sviluppa a partire da formazioni sociali preesistenti con culture e caratteristiche proprie le quali, sotto la spinta dei bisogni materiali, permettono uno sviluppo a balzi da gigante, dando vita a particolari combinazioni nazionali che mescolano forme arcaiche e moderne.

EA: In questo senso non c’è bisogno di seguire la lettura positivista della Seconda Internazionale, dove ogni classe aveva un compito rivoluzionario determinato rigidamente. I compiti democratici che la borghesia dei paesi arretrati non aveva assolto, potevano essere svolti dal proletariato avviando un processo rivoluzionario in grado di travalicare la rivoluzione democratica per passare a quella socialista, senza aspettare che il paese avesse, come diceva il pensiero maggioritario della Seconda Internazionale, un avanzato sviluppo capitalistico.

Questa è la base della teoria della rivoluzione permanente. Il proletariato, andando al potere, avrebbe potuto risolvere i compiti democratici.

MM: Naturalmente. E per quanto riguarda l’idea di Bernstein, citata da Emilio, secondo cui il movimento è tutto e i fini sono niente, Trotsky la vedrebbe come la negazione di tutto ciò che ha a che fare con la strategia e il programma socialista per fondare una pratica nel quadro dello Stato borghese. Questo sarà un dibattito chiave più tardi nella Terza Internazionale e anche nelle successive elaborazioni di Trotsky, compreso il Programma di transizione. In Estrategia socialista y arte militar abbiamo ripreso queste discussioni dal punto di vista della strategia e nel libro che sta per uscire, di cui abbiamo parlato prima, saranno sviluppate soprattutto dal punto di vista del programma.

DM: E qual è il contributo di Gramsci in questo campo?

EA: Gramsci trae conclusioni che in seguito sono state profondamente distorte dal Partito Comunista Italiano e dall’accademia, ma la conclusione principale è legata al problema dell’intervento dello Stato nelle organizzazioni di massa, tramite elementi che al loro interno rappresentano gli interessi della borghesia. Stiamo parlando, ad esempio, delle posizioni colonialiste dei sindacati in Germania, o del fatto che dopo la Rivoluzione russa del 1905, quando Rosa Luxemburg sosteneva la necessità di uno sciopero generale per riformare il regime politico antidemocratico in Germania, le burocrazie dei sindacati si opposero e sostennero di avere il diritto bloccare qualsiasi iniziativa del genere.

Per Gramsci, la società civile è il terreno di ciò che è “volontario”, ad esempio di sindacati, partiti e così via. Queste non sono come il parlamento, per il quale si deve votare e che è un’istituzione pubblica dello Stato, ma sono organizzazioni private. Ad un sindacato o a un partito ci si iscrive volontariamente, sono istituzioni della società civile. Così lo Stato integrale entra in queste istituzioni e si apre una lotta tra i rivoluzionari e lo Stato borghese che Gramsci chiama “guerra di posizione”.

Da questa discussione sulla “guerra di posizione” parte un’ampia elaborazione dei diversi tipi di società sulla base del loro ritardo o sviluppo, e dei loro diversi modi di agire sulle organizzazioni politiche e sociali. Da un lato, le formazioni socio-politiche “orientali”, dove la società civile è quasi inesistente, “gelatinosa”, come la Russia zarista dove i sindacati erano quasi inesistenti e lo Stato era tutto. Dall’altro, le società più avanzate come l’Inghilterra, la Francia e alcune società più arretrate, ma “occidentali”, come l’Italia. 

A loro volta, sia Trotsky che Gramsci si accorsero subito dell’ascesa della potenza americana. Gramsci sottolinea che, a causa delle particolarità dello sviluppo storico negli Stati Uniti, è stato relativamente più facile razionalizzare la produzione e il lavoro. Si tratta di una particolare combinazione di “forza” e “persuasione”, in cui gli alti salari basati su un forte aumento della produttività e dei consumi erano fondamentali. 

Per questo Gramsci sottolinea che negli Stati Uniti “l’egemonia nasce dalla fabbrica” e ha bisogno di meno intermediari professionali della politica e dell’ideologia per essere esercitata. Questo è quello che fu poi definito nei Quaderni “americanismo”.

Nel complesso, nelle formazioni “occidentali” lo Stato ha quello che Gramsci chiama un sistema di trincee e casematte in cui la borghesia entra per cercare di influenzare il movimento di massa e dare vita a un processo che lui chiama trasformismo. Cos’è il trasformismo? Conquistare i leader delle organizzazioni dei lavoratori per il mantenimento dell’ordine borghese, il che può essere fatto “convincendo” e/o direttamente attraverso la corruzione.

In questo quadro, uno dei grandi compiti dei rivoluzionari è quello di garantire che le istituzioni che hanno influenza sulla classe operaia siano indipendenti e autonome dallo Stato borghese, e allo stesso tempo creare le condizioni per un’egemonia a favore del proletariato. In questo contesto il partito rivoluzionario svolge un ruolo fondamentale per far sì che ciò avvenga. Se Lenin nella Rivoluzione russa aveva già insistito con la dittatura democratica degli operai e dei contadini e Trotsky con la teoria della rivoluzione permanente sulla necessità di realizzare un’alleanza con i contadini, Gramsci qui tocca la stessa corda. Egli la porrà in termini di “blocco storico”, che non era una fusione tra proletariato e contadini (o oggi diremmo tra proletariato e poveri). Tale “fusione”, così intesa, era considerata da Gramsci una sorta di populismo poiché operai e contadini non avevano gli stessi interessi. 

Il piccoloborghese, urbano o rurale, che vuole mantenere la sua proprietà privata non può avere lo stesso interesse per il socialismo di un operaio che ha solo la sua forza-lavoro. Ma senza egemonia, cioè senza che il proletariato sia in grado di guidare e non solo di dominare queste classi subalterne, come le chiamava Gramsci, la rivoluzione è impossibile.

Così la differenziazione tra Oriente e Occidente e l’affermazione che le classi nemiche sono dominate e le classi alleate sono guidate, iniziano a essere temi distintivi del pensiero di Gramsci. In questo quadro, egli sottolinea l’importanza del momento della preparazione sia per mantenere il partito e le altre istituzioni indipendenti dal trasformismo borghese, sia per raggiungere un’egemonia che gli permetta, quando si svilupperà la situazione rivoluzionaria, di guidare grandi masse nel processo rivoluzionario per rovesciare lo Stato borghese. O, per usare le parole di Gramsci, quando verrà il momento delle relazioni politico-militari. 

In questo senso, è importante notare che Gramsci non nega il passaggio dalla “guerra di posizione” alla “guerra di manovra”, né che durante la “guerra di posizione” ci siano movimenti propri della “guerra di manovra”, nonostante sia vero che nel suo pensiero i termini del passaggio dall’una all’altra non sono sufficientemente sviluppati. Questo è un punto che discutiamo a lungo in Estrategia socialista y arte militar.

DM: Come affronta Trotsky il problema delle diverse tipologie di Stato?

MM: Se Gramsci mostra l’evoluzione di cui si è parlato, nel caso di Trotsky abbiamo analisi profonde delle forme che assume lo Stato, e in particolare del bonapartismo, un fenomeno in cui il potere esecutivo cerca di elevarsi al di sopra dei campi contendenti per preservare la proprietà capitalistica e imporre l’ordine per evitare la guerra civile o per superarla e impedire che scoppi di nuovo. Trotsky analizza diversi tipi di bonapartismo giocando su questa definizione e su diversi fenomeni storici.

Distingue i bonapartismi in base alle diverse fasi storiche e analizza soprattutto quelli emersi a partire dal secondo decennio del XX secolo, tipici della fase di dominio del capitale finanziario. Sviluppa la categoria di “pre-bonapartismo” per indicare quello che riflette l’equilibrio estremamente instabile e breve dei campi di classe contrapposti. Prende in esempio Giolitti in Italia, o Doumergue in Francia, Brüning e Schleicher in Germania, differenziando questi fenomeni di transizione, con cui la borghesia cerca di imporsi evitando la guerra civile, dal fascismo propriamente detto, che ha il fine di schiacciare apertamente il proletariato con metodi di guerra civile e di trasformarlo in “polvere sociale”, e che quindi è molto più stabile una volta affermatosi. 

Trotsky sviluppa poi la nozione di “bonapartismo sui generis” per spiegare i nazionalismi borghesi come quello di Lázaro Cárdenas in Messico negli anni Trenta. Un tipo particolare di bonapartismo, tipico del mondo semicoloniale dove la debolezza della borghesia locale pone la classe operaia e gli imperialisti come le due classi fondamentali. 

Tale bonapartismo, risulterà – a fasi alterne – uno strumento dell’imperialismo per stringere le catene del proletariato e un tentativo di appoggiarsi alla classe operaia, facendole anche concessioni, per ottenere una certa indipendenza dall’imperialismo e insieme governare il movimento di massa. Fenomeni simili a Cardenas furono espressi da Perón in Argentina e da Vargas in Brasile.

Tutto questo fa parte di un’elaborazione molto più ampia sui regimi politici, che comprende gli sviluppi dei governi del “fronte popolare” in Francia e nella Rivoluzione spagnola. Queste concezioni sono poi spiegate con quello che Trotsky definisce “kerenskismo”, o di “bonapartismo sovietico”, con cui spiegava il fenomeno dello stalinismo in URSS.

Su questo punto, per molti versi c’è una preoccupazione simile in Trotsky e Gramsci, anche se con approcci diversi. Con la sua analisi delle diverse configurazioni dello Stato in Oriente e in Occidente, Gramsci cerca di riflettere sulle particolarità dei meccanismi egemonici e sulle loro combinazioni con quelli coercitivi con cui la borghesia cerca di neutralizzare o integrare la classe operaia. Anche in Trotsky questi problemi sono molto presenti soprattutto nei suoi sviluppi intorno al bonapartismo e ai diversi modi in cui esso cerca di sostenere un certo equilibrio tra le classi, così come nelle sue analisi dei “fronti popolari”2.

DM: L’idea di socialismo è stata imbastardita dallo stalinismo, molti si basano sulla deformazione burocratica del movimento operaio sotto la guida dello stalinismo per sostenere la democrazia borghese come valore universale e che qualsiasi tipo di pianificazione dell’economia deve necessariamente essere burocratizzata. Partendo dalle concezioni teoriche di Trotsky e Gramsci, come affrontare oggi questo problema?

EA: Sì, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e la trasformazione della Cina in un capitalismo selvaggio (anche se piace ad alcuni settori riformisti del mondo, come Cristina Kirchner che lo propone come alternativa) oggi non c’è nulla di più screditato dell’idea di un piano, di una pianificazione dell’economia.

Questo non solo a causa delle sconfitte, ma è anche uno strumento per la borghesia per combattere la prospettiva socialista. Tuttavia, per capire meglio tutto ciò dobbiamo tornare un po’ indietro e vedere qual è il ruolo del proletariato.

Per i teorici postmoderni associare un ruolo egemonico a una classe ben precisa sarebbe un essenzialismo sintomo di un approccio “ontologico” alla realtà3, incapace dunque di fornire spiegazioni convincenti. Crediamo che non serva essere così eruditi per capire che le persone che gestiscono gli aeroporti, i treni, i porti, la produzione di beni materiali, l’istruzione, ecc., se organizzate, hanno un potere superiore a quello di un piccolo commerciante o di un contadino per prendere le redini di un paese, verso una strategia di sciopero generale e insurrezione, cioè la strategia del marxismo.

L’intera ideologia postmoderna, per mantenere la polarizzazione politica sul terreno discorsivo e non su quello del cambiamento delle realtà pratiche nel senso più ampio del termine, ha attaccato brutalmente, da Laclau in poi, la politica di quello che chiamano “essenzialismo di classe”. Per noi non si tratta di un problema ontologico, ma del ruolo occupato nella classe operaia, di quelle che sono definite “posizioni strategiche” che dominano la classe operaia. È il capitale che deve considerare la forza-lavoro come una qualsiasi altra merce per pagare al lavoratore un salario che, a sua volta, è una parte di ciò che la sua forza-lavoro produce e tenere per sé un’altra parte. È così che i capitalisti si arricchiscono e accumulano capitale.

Da questo punto di vista, il capitale deve considerare la forza-lavoro come un’altra merce, proprio come le materie prime, gli edifici, le macchine utensili. Questo implica la trasformazione dell’operaio, per usare le parole di Taylor, il quale fu uno dei tecnici che studiò come sfruttare anche i più piccoli movimenti di ogni lavoratore per produrre di più in meno tempo, in una sorta di scimmia ammaestrata. 

È l’operaio presentato nel film di Chaplin “Tempi moderni” che gira le viti in un processo incessante e folle, come un altro strumento del sistema di macchine utensili. Cioè come essere macchina e non creatore di ricchezza all’interno della società.

La forza-lavoro non è una merce come le altre e questo nei secoli non è cambiato, né potrebbe cambiare, solo grazie allo sviluppo tecnologico e scientifico che si è verificato fino ad oggi. Nonostante oggi il tipo di mansioni svolte dall’uomo e dalla donna siano diverse, la funzione è sempre quella di “vivificare”, di mettere in moto tutto quel “lavoro morto” che si trova nelle macchine e nel sistema tecno-scientifico.

Gli sviluppi di Gramsci, in questo senso, sono molto interessanti perché pongono l’accento sull’operaio, non solo come salariato, cioè non solo come lavoratore, ma anche come produttore. Ciò è molto importante perché forma il potenziale creativo dei lavoratori, sia economicamente che politicamente. Senza di esso, sarebbe impensabile l’intero problema del controllo operaio e della possibilità per i lavoratori di assumere il controllo della produzione, senza il quale il socialismo sarebbe impossibile. 

Quando parliamo di socialismo, di comunismo, parliamo sia del movimento reale che, come dicevano Marx ed Engels, rovescia e supera lo stato presente di cose e in cui i lavoratori lottano per riconquistare il loro tempo libero, sia dell’obiettivo di una nuova società in cui i produttori si associano liberamente, lavorano con mezzi di produzione collettivi e uniscono le loro forze individuali come una grande forza-lavoro sociale.

I liberisti reazionari [“libertarios”] cercano di basarsi su un’antropologia che dice che l’uomo è nemico dell’uomo, per dire che non ci possono essere né democrazia né socialismo, perché tutta la democrazia e tutto il socialismo implicano una stretta cooperazione umana e questo è impossibile perché ogni individuo lotta per i propri interessi.

Al contrario, Marx osserva che la cooperazione invece è centrale, dalla più elementare a quella più ampia che si fa vivificando il “lavoro morto”.

In maniera semplice, possiamo fare degli esempi che, anche se piccoli, sono importanti punti di appoggio. Negli ultimi decenni, lo sviluppo di processi cooperativi guidati da marxisti non è stato comune, ma era, nonostante tutto, un passaggio necessario. 

L’aspetto negativo delle cooperative è che, soggette alla concorrenza del mercato capitalista, portano all’autosfruttamento della classe operaia. Il lato positivo è che esse mostrano la capacità produttiva dei lavoratori. 

Sia Madygraf che Zanon sono diventate dei simboli perché i lavoratori hanno inventato nuovi metodi produttivi e nuove relazioni sociali, come ad esempio il rapporto con i Mapuche di Neuquen che ha permesso loro di sopravvivere in situazioni terribili sotto il regime capitalista [da qualche anno le comunità indigene forniscono alle fabbriche occupate di cui sopra le materie prime in cambio di prodotti finiti, in base a logiche non di mercato, ndr] . 

Per esempio, gli operai di Madygraf oggi stanno innovando l’impianto elettrico insieme ai tecnici delle università per risparmiare energia. Il modo in cui questi lavoratori cercano di sopravvivere significa che, oltre a impedire al capitalista di fare profitti, che è la parte del leone, hanno un’enorme capacità produttiva. E questo non avviene per un problema di “essenzialismo di classe”, ma perché il lavoratore non è una scimmia ammaestrata, come sosteneva Taylor, ma un creatore di ricchezza sociale.

MM: Anche da questo punto di vista, dal 2017 abbiamo sollevato la necessità di ridurre la giornata lavorativa a 6 ore e di distribuire le ore di lavoro tra tutte le persone disponibili, come modo per porre fine all’irrazionalità di milioni di disoccupati e di altrettanti lavoratori che lasciano la loro vita sul posto di lavoro con orari strazianti. 

Come ha dimostrato il nostro compagno Pablo Anino4, riducendo l’orario di lavoro a 30 ore settimanali nelle 12.000 aziende più grandi della sola Argentina, si potrebbero creare quasi un milione di nuovi posti di lavoro.

Il problema della divisione dell’orario di lavoro tra occupati e disoccupati, a cui Trotsky dà un posto di rilievo nel Programma di transizione, insieme all’aggiornamento automatico dei salari in base all’inflazione e all’idea di “controllo operaio”, nasce proprio da questa idea del lavoratore come produttore. Sullo sfondo c’è la prospettiva socialista che propone di mettere i progressi della scienza, della tecnologia e della cooperazione lavorativa non al servizio del profitto capitalistico, ma di ridurre al minimo l’orario di lavoro come imposizione, in modo che il lavoratore, in quanto produttore, possa davvero dispiegare la sua creatività e tutte le sue capacità umane.

In Gran Bretagna, oggi, stanno facendo un test pilota per 6 mesi in circa 70 aziende per ridurre la giornata lavorativa da 5 a 4 giorni, ma pretendendo che in questo tempo più breve sia garantita la stessa produzione. La borghesia può arrivare a tanto, ma quello che non farà mai è dividere il tempo di lavoro tra tutte le mani disponibili come parte di un piano razionale per organizzare la produzione e bandire la disoccupazione. Di questo ha bisogno la borghesia, ovvero un “esercito di riserva” con il chiaro obiettivo di abbassare i salari nel loro complesso.

Non c’è nulla di inevitabile nell’appropriazione da parte del capitale del tempo disponibile sotto forma di “plusvalore”. Non c’è nulla di “naturale” nemmeno nella produzione e nell’uso dell’ozio da parte del capitale come mezzo per assicurare una domanda e un’offerta redditizia di forza-lavoro. L’alternativa, come diceva Marx, è che i lavoratori/produttori si approprino del proprio surplus di lavoro e lo trasformino in “tempo libero”, in tempo di svago. Una parola maledetta per i capitalisti che cercano sempre di spremere fino all’ultima goccia di sudore da ogni lavoratore per diventare sempre più ricchi.

EA: Va sottolineato, inoltre, che considerare il lavoratore come produttore va contro due pratiche che erano e sono comuni tra i marxisti. Da un lato, si considera il lavoratore solo come salariato e la chiave sarebbe solo la lotta per il prezzo della forza-lavoro, cioè le lotte sindacali limitate agli aumenti salariali. E, dall’altro, limitarsi alle lotte elettorali, dove l’operaio va, come diceva Trotsky in Rivoluzione tradita, in forma polverizzata, individualmente, a votare per il politico di sua scelta ogni pochi anni. In queste due forme, il lavoratore appare o come un altro venditore di merci o come un cittadino atomizzato e non come un produttore sociale.

DM: E allo stesso tempo sia Gramsci che Trotsky hanno sottolineato l’importanza dell’intervento nei sindacati e della partecipazione alle lotte elettorali…

EA: Sì, infatti. La questione è come intervenire nei sindacati e nell’arena elettorale. Nel Programma di transizione Trotsky è categorico sull’importanza del lavoro nei sindacati e della lotta contro la loro sottomissione allo Stato borghese e contro la burocrazia. Allo stesso tempo, egli avverte che i sindacati raggruppano solo una parte della classe operaia, e in generale i più qualificati e meglio retribuiti, lasciando fuori gli operai precari, i disoccupati, ecc. Vale a dire, intervenire con ogni mezzo nei sindacati, ma non solo per le lotte salariali, ma anche per lottare per l’unità dei diversi settori che la burocrazia divide. Tutti i raggruppamenti che il PTS promuove nel movimento operaio, nel settore alimentare, telefonico, ferroviario, ecc. sono stati caratterizzati, tra l’altro, da grandi battaglie proprio per i lavoratori a contratto e contro la burocrazia che li considera lavoratori di seconda classe. Lo stesso vale per l’arena elettorale e parlamentare. Si tratta di andare oltre la routine imposta dal regime, di collegare i seggi conquistati alla lotta di classe, di sfruttare il terreno elettorale per dimostrare le menzogne dei politici borghesi e di presentare un programma operaio e socialista di transizione. 

In questo senso agiamo come PTS e come parte del FIT-U. Tutto ciò va contro l’idea che i lavoratori, quando intervengono nelle lotte sindacali, sono solo venditori di una merce e quando votano sono solo cittadini atomizzati. E in questo senso, l’enfasi di Gramsci sull’operaio come produttore, ispirata dai consigli di fabbrica di Torino, è molto importante. L’operaio come produttore era già esploso in tutta la sua grandezza nella Rivoluzione russa con i soviet, che furono un’invenzione del proletariato russo nel 1905, che si ripeté su larga scala nel 1917 e che dovevano essere la base dello Stato operaio di transizione al socialismo che emerse dal trionfo della rivoluzione. 

Questa visione del lavoratore, non come semplice salariato ma come produttore, è ciò che ci permette di discutere perché il socialismo possa emergere dal basso dalle stesse unità produttive.

Ora, questo socialismo dal basso non è in tensione con un piano realizzato dall’alto: bisogna chiedersi il motivo per cui è importante osservare quali siano tutti i bisogni sociali e come siano suddivisi in ore di lavoro, eccetera. Essi, relativamente, sono due poli, ovvero, quello del piano centralizzato e quello della costruzione del piano dal basso. Ma in un’epoca come quella attuale, con i progressi tecnologici, è sempre più facile avere piani alternativi, in cui i lavoratori possono scegliere quale adottare. 

Non come avviene nel parlamento borghese dove le decisioni vengono prese alle spalle delle maggioranze, come è successo con il pagamento del debito, ma una deliberazione veramente democratica dove si definisce in cosa e quanto si investe, in che tipo di industrie, se pagare o meno il debito, ecc. Decisioni che vengono votate nelle stesse unità produttive con deputati revocabili e non solo ogni 2 o 3 anni quando si va a votare per qualcuno riponendo in lui una fiducia assoluta come propone il regime rappresentativo democratico borghese.

Ciò significa che non solo i lavoratori creano la forma del lavoro nelle loro unità produttive, ma che sono loro ad approvare collettivamente gli obiettivi per uno, tre o cinque anni, che uno Stato operaio di transizione al socialismo. Uno Stato operaio che avrà sempre meno funzioni e in cui un modo per vedere se sta avanzando o meno verso il socialismo è che la società civile decida sempre di più quali sono i piani economici e la direzione della società. Vale a dire, decidere non solo ciò che accade nell’unità di produzione, ma anche quale sia il piano, attraverso il dibattito sulle alternative che i diversi gruppi di lavoratori possono presentare in un consiglio generale di soviet o in qualsiasi altro organismo.

Questo, ovviamente, non è un processo nazionale, ma internazionale. Se la rivoluzione avanza nei paesi avanzati, questo processo è più rapido. Se avanza nei paesi arretrati, c’è sempre il pericolo del burocratismo e, in una certa misura, anche dello stalinismo. Ecco perché la teoria della rivoluzione permanente è una teoria della rivoluzione socialista internazionale, non solo della rivoluzione nazionale. Non solo è necessario avanzare a livello nazionale risolvendo i compiti democratici, attraverso rivoluzioni permanenti nella cultura, con l’obiettivo che i lavoratori innalzino il loro livello culturale e raggiungano un rapporto più armonioso con la natura. La chiave dello Stato operaio è anche affidarsi a un centro, come fu la Terza Internazionale, per lo sviluppo della rivoluzione internazionale.

Traduzione da Ideas de Izquierda

Questo articolo fa parte del numero 3, estate 2022, della rivista Egemonia.

Note

1. Disponibile in inglese e spagnolo. Cfr. Badaloni N & C Buci-Glucksmann (1975) Gramsci: el Estado y la revolución. Barcelona: Cuadernos Anagrama.

2. Cfr., ad esempio, Dove la Francia? in Trotsky L (1970)[1934] Scritti 1926-1936. Milano: Mondadori, pp. 485-523; Fronte popolare e comitati d’azione e La lezione della Spagna in Trotsky L (1970)[1935-37] Per conoscere Trotskij. Milano: Mondadori, pp. 284-314.

3. Cioè basato sull’idea che possa esserci qualcosa in grado di andare oltre alla realtà stessa e al contempo di racchiuderla completamente, finendo per semplificarla.

4. Cfr. Anino P (2022) El tiempo de trabajo, divino tesoro. Ideas de Izquierda, 24-4-2002. Disponibile a: https://www.laizquierdadiario.com/El-tiempo-de-trabajo-divino-tesoro.

Dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) argentino, co-autore con Matias Maiello di "Estrategia Socialista y Arte Militar" (Ediciones IPS, 2017).

Nato a Buenos Aires nel 1979. Laureato in Sociologia, docente di Sociologia dei Processi Rivoluzionari (Università di Buenos Aires - UBA) dal 2004. Militante del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) e membro della redazione della rivista Estrategia Internacional. Autore, insieme a Emilio Albamonte, del libro "Estrategia Socialista y Arte Militar" (2017).