Sulla scia dei precedenti incontri di lettura e discussione sul marxismo, allo spazio sociale di via del Leone a Firenze, quattro incontri per leggere e discutere insieme i temi dell’opera di Antonio Gramsci. Vi aspettiamo!


Per quattro venerdì consecutivi, nel mese di maggio a Firenze allo spazio sociale Via del Leone (via del Leone 60/62) dalle 17.30 alle 19.30, si terrà un gruppo di lettura su Antonio Gramsci, che riprende i cicli di incontri dedicati al Capitale di Karl Marx e ad alcuni testi fondamentali di altri grandi marxisti.

Verrebbe da dire che il protagonista non necessita di alcuna presentazione. O forse, proprio perché così dominante è stata quell’interpretazione di Gramsci come comunista eterodosso e pensatore democratico-radicale, è necessario chiarire che le letture verteranno sul “marxismo di Gramsci”. Ovvero, su come e in che misura la sua opera possa essere utile per pensare la rivoluzione oggi. Ne discuteremo insieme proprio a partire dal prossimo venerdì, 5 maggio, al Centro Sociale il Leone.  

Antonio Gramsci è di gran lunga il marxista “occidentale” più noto e studiato. A partire dagli anni Settanta, soprattutto nel mondo anglosassone, ma non solamente lì, è scoppiata quella che potrebbe essere definita come una vera e propria Gramsci-mania. Per comprendere la portata del fenomeno è sufficiente dare un rapido sguardo a quanto succede nelle scienze sociali, dove sono numerosissimi i corsi che si prefiggono di studiare i più disparati eventi e soggetti attraverso un approccio gramsciano o, come più spesso esplicitato, neo-gramsciano. Chi frequentasse questi corsi alla ricerca di una lettura marxista della società rimarrebbe però alquanto deluso. Il Gramsci discusso nelle aule dell’accademia britannica non è infatti uno degli alfieri del marxismo rivoluzionario. Al contrario, i suoi scritti suonano assimilabili a quelli di un riformista radicale. Sembra quindi naturale chiedersi come mai uno dei massimi dirigenti della Terza Internazionale sia diventato così popolare nelle innocue tesi dottorali scritte nelle biblioteche che affacciano sugli splendidi pratini all’inglese delle università di Oxford e Cambridge. Si tratta di un logico sviluppo per un pensiero che tendeva “per sua natura” al riformismo, oppure siamo di fronte ad un altro esempio di un grande rivoluzionario che è stato calunniato e ucciso dalla borghesia mentre era in vita e poi canonizzato in un’icona inoffensiva al fine di consolare le classi oppresse e mistificare il contenuto della sua dottrina rivoluzionaria?

Uno dei punti di svolta nel favorire non solamente la diffusione del pensiero di Gramsci, ma anche una sua specifica interpretazione in senso riformista, è stato certamente il “famoso” articolo che Perry Anderson ha dedicato ad alcune categorie fondamentali elaborate dal marxista italiano su New Left Review nel 1976. The Antinomies of Antonio Gramsci. Il terreno per questo tipo di ricezione di Gramsci era stato però già adeguatamente preparato dal Partito Comunista Italiano (PCI) e dal suo segretario, Palmiro Togliatti, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Tra il 1948 e il 1951, esce infatti una prima, alquanto parziale, versione dei Quaderni del Carcere. La volontà della leadership del PCI era quella di legittimare, con le parole e gli scritti di una delle figure intellettuali più note uccise dal regime fascista, la nuova strategia del partito post-svolta di Salerno – che si fondava, per dirla in breve, su una graduale crescita dei comunisti in ogni ambito della società fino al punto di raggiungere una maggioranza, in alleanza con le forze “progressive” (quindi il PSI ma anche la DC!), in parlamento e, in conseguenza di ciò, la guida del paese. A tal fine, venivano sottolineati tre principali caratteri nel pensiero di Gramsci.

Per prima cosa, si rimarcava una sua alterità rispetto agli altri dirigenti della Terza Internazionale e ai principali intellettuali marxisti del suo tempo. Invece di presentare Gramsci in dialogo con Lenin, Trotsky, Luxemburg, Lukács, Korsch e Benjamin, il PCI ne faceva una figura strettamente nazionale, favorendo l’idea divenuta poi diffusissima di un Gramsci eterodosso, democratico-radicale e fautore di una via elettorale al comunismo. In secondo luogo, attraverso una stretta dicotomizzazione di alcune delle categorie gramsciane, l’immagine che emergeva era quella di una figura “gradualista”. Niente rende meglio l’idea della famosa coppia guerra-di-posizione e guerra-di-movimento. Nel momento in cui i due concetti vengono rigidamente separati l’uno dall’altro e non si coglie come il secondo sia sempre presente nel primo, dove in realtà nasce e si sviluppa fino a diventare preponderante, è facile legittimare una strategia di lento e graduale avanzamento, rimandando l’assalto al potere per un imprecisato domani che poi non giungerà mai. Così facendo, la lotta viene relegata ad una guerra di posizione permanente, intesa come sola lotta culturale o quasi, dove lo scontro è condotto tra apparati mantenendo sostanzialmente passive le masse sotto di loro, per un’egemonia svuotata della sua reale portata rivoluzionaria. Infine, godendo del carattere frammentario delle note che compongono i Quaderni, tutta una serie di concetti gramsciani non sono stati interpretati all’interno di determinati rapporti di produzione – quelli capitalistici – ma hanno, per così dire, preso vita propria. Questo fenomeno ha per altro tracimato anche gli argini che il PCI aveva inizialmente imposto e il concetto di egemonia, ad esempio, è diventato di uso comune anche dalle parti del Front National in Francia e utilizzato da alcuni studiosi per comprendere la crescita dei partiti salafiti nel mondo arabo. Più in generale, per molti il concetto di egemonia è oggi da intendersi meramente in senso cultural-riformista, svuotando così di senso quanto Gramsci intendeva: ovvero, la capacità della classe lavoratrice di farsi egemone e attrarre a sé le altre classi subalterne nella lotta contro la borghesia.

In maniera non sorprendente, il massiccio utilizzo del pensiero di Gramsci da parte del PCI per legittimare una strategia riformista ha inevitabilmente spinto la pressoché totalità dei gruppi politici che si sono posti come fine ultimo il superamento del sistema vigente ad approcciarsi con un certo scetticismo, per usare un eufemismo, verso Gramsci stesso. Ad oltre 30 anni dalla sparizione del PCI, questa “lunga” eredità permane: le dirigenti scolastiche che combattono il ritorno del fascismo davanti alle scuole citano Gramsci e lo presentano come un “grande italiano”, mentre la sinistra radicale lo studia e utilizza con il contagocce, quando lo fa.

Scopo principale di questo ciclo di incontri è comprendere se e in quale misura alcune categorie proposte da Gramsci siano utili non solamente per comprendere il presente, ma per trasformarlo. E questo non può che avvenire attraverso il prisma della rivoluzione. Dopo il primo appuntamento che tratterà dell’unico testo di Gramsci in formato di saggio, per quanto non completo, La questione meridionale, gli altri tre incontri si concentreranno sui Quaderni, l’opera sulla quale il riformismo ha più battuto. Così facendo, proveremo a comprendere se esiste, per usare il titolo del saggio dello studioso argentino Juan Dal Maso, un “marxismo di Gramsci”.

Tutti gli incontri si svolgeranno a Firenze al Leone – Via del Leone 60/62 – dalle ore 17.30 alle 19.30.

Venerdì 5 maggio: La questione meridionale

Venerdì 12 maggio: Stato integrale ed egemonia

Venerdì 19 maggio: Rivoluzione passiva e rivoluzione permanente

Venerdì 26 maggio: Classi subalterne e moderno principe

Gianni Del Panta

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).