In questi giorni, gli studenti di diverse università si stanno unendo all’ondata di accampamenti contro il genocidio a Gaza, seguendo l’esempio dirompente degli atenei in altri paesi, in particolare USA e Gran Bretagna. È necessario discutere come fare di questo passaggio un momento per rafforzare insieme la democrazia e l’estensione del movimento, anche costruendo l’unità tra studenti e lavoratori. Sviluppiamo un contributo in questo senso, fornendo elementi di bilancio e di prospettiva della mobilitazione in corso in Italia tenendo conto delle esperienze internazionali .
Con la mobilitazione degli studenti nelle università anglosassoni, il movimento internazionale in appoggio alla resistenza palestinese e per il boicottaggio accademico ha fatto un salto di qualità. Oltre 50 università si sono mobilitate nei soli Stati Uniti, mentre sono a decine anche gli “accampamenti per la Palestina” in Gran Bretagna. Le immagini degli studenti statunitensi che resistono alla polizia, o alle squadracce sioniste, e gli appelli a un’ “intifada degli studenti” in tutti i paesi chiamata dalle università palestinesi, hanno spinto a mobilitarsi anche in Francia, Spagna e infine Italia. Qui, per il 15 maggio, anniversario della Nakba, i Giovani Palestinesi Italia (GPI) e il Movimento Studenti Palestinesi hanno invitato ad accamparsi contro il genocidio a Gaza, per l’interruzione delle partnership con le università israeliane e le aziende militari, appello già raccolto con tende in piazza a Bologna, Roma (La Sapienza) e presto anche a Firenze (ma l’elenco è necessariamente in aggiornamento proprio mentre scriviamo).
Nel solco della preparazione della protesta, il 5 maggio, sempre i GPI hanno organizzato un’interessante conferenza online con ospiti internazionali, da Stati Uniti, Gran Bretagna, Palestina e Spagna, i quali hanno condiviso la loro esperienza di lotta a oltre 600 persone connesse su Twitch. Anche prendendo spunto da alcuni interessanti interventi che hanno animato l’iniziativa virtuale, in questo articolo non ci limitiamo a celebrare gli esempi che arrivano dal mondo anglosassone e oltralpe, ma cerchiamo di trarre un bilancio del movimento in corso in Italia nell’ottica di poter applicare al meglio, non meccanicamente, gli insegnamenti dalle esperienze internazionali.
Portata e limiti del movimento pro-Palestina nelle università in Italia
Sebbene non si siano ancora visti fenomeni con la stessa radicalità ed estensione degli “encampments” nelle università USA, dobbiamo riconoscere che l’Italia non ha sfigurato rispetto agli altri paesi occidentali per quanto riguarda la battaglia pro-Palestina nelle università. Da novembre ad oggi, praticamente tutte le istituzioni accademiche più importanti sono state coinvolte da occupazioni e presidi, che complessivamente hanno attivato alcune migliaia di studenti. La relativa importanza della mobilitazione ha trovato espressione nella grande manifestazione del 23 febbraio, in cui decine di migliaia di persone, soprattutto giovani e lavoratori, hanno sfilato per il centro di Milano. In marzo, la tensione non si è abbassata, con assemblee, sit-in e\o occupazioni dei rettorati, in grado di coinvolgere diverse centinaia di studenti ciascuna, a Torino, Pisa, Bologna, Napoli e Roma, contro il ruolo delle imprese belliche nelle università e il ritiro del bando MAECI, volto a favorire la cooperazione in progetti dual use tra accademici italiani e israeliani.
Questa seconda fase della lotta ha visto una relativa crescita della partecipazione dei lavoratori, in particolare quelli dell’università. Oltre un centinaio di ricercatori e amministrativi si sono infatti coordinati per lanciare uno sciopero dell’università, appoggiato da USB lo scorso 9 aprile. Tale dinamica ha infine condotto a parziali – ma chiaramente insufficienti – cedimenti nel muro pro-sionista opposto dalle dirigenze universitarie: alcuni rettori come quello di Bari e Napoli si sono dimessi, o hanno annunciato di volerlo fare, dalla fondazione Med-Or, il think tank di ENI e Leonardo diretto dall’ex-piddino Minniti; i vertici dell’università di Torino hanno preso le distanze dal bando MAECI, mentre il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa ha firmato una dichiarazione in cui “invita il ministero degli esteri a riconsiderare” le partnership con Israele nel caso “siano in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione [quello che dice che l’Italia ripudia la guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali]”.
Il limite principale del movimento è stata però l’incapacità di uscire dal perimetro di settori studenteschi di avanguardia: il tipo di rapporti di forza che sono necessari per vincere può emergere solo da un movimento più largo, con caratteri di massa. In alcuni casi si è cercato di rispondere a questo limite circoscrivendo le rivendicazioni nella speranza che sia più facile ottenere risultati, magari badando bene a sottolineare che non si vogliono colpire le istituzioni accademiche israeliane nel complesso, ma solo ed esclusivamente accordi specifici.
Una strategia del genere va però nella direzione contraria rispetto all’allargamento della lotta, rischiando anzi di smobilitare, laddove è discutibile la possibilità di perseguire anche solo piccole vittorie senza che si dia un grande movimento, in un contesto in cui l’establishment economico, politico, mediatico e accademico è compattamente pro-Israele. In altri termini, così facendo si aggira il motivo per cui, oltre a settori militanti già organizzati e la loro periferia, il movimento non riesca realmente a fare presa; ovvero la scarsa comprensione a livello di massa della natura coloniale dello Stato di Israele e della posta in gioco in atto quando si parla di boicottaggio accademico: la necessità di esercitare una pressione efficace sull’economia dell’entità sionista, fortemente dipendente dagli accordi tecnologici e la legittimazione ideologica dei ‘centri del sapere’ occidentali.
Quali insegnamenti dalle esperienze internazionali?
Per fortuna la dimensione internazionale che sta sempre più chiaramente assumendo l'”intifada degli studenti” continua a fornire boccate di ossigeno al movimento. L’organizzazione di accampamenti fuori dalle università anche in Italia rappresenta quindi un risvolto importante. Come hanno però segnalato alcuni studenti anglosassoni e palestinesi invitati alla conferenza online lanciata domenica scorsa dai Giovani Palestinesi Italia, gli Encampments for Palestine non devono essere intesi come l’espediente che sbloccherà da sé la situazione. Al contrario, essi rappresentano “una tattica” funzionale a “un’escalation della mobilitazione”. Dal nostro punto di vista, però, la chiave di volta non sta tanto nell’alzare la posta della radicalità delle azioni, per quanto strumenti come occupazioni e forzature della legalità, fatta su misura per reprimere i movimenti sociali, siano aspetti inaggirabili di una mobilitazione efficace.
Ciò che è findamentale, invece, è impostare una riflessione su come estendere la lotta. Un primo passo in questa direzione è la chiarezza politica: non è abbassando l’asticella dellerivendicazioni che si possono coinvolgere attivamente settori più larghi ma, al contrario, collegando la battaglia specifica a questioni generali. Va spiegato come la lotta contro l’ingerenza delle aziende belliche e di Israele nelle università sia il risultato della crescente subordinazione delle istituzioni accademiche ai privati e alla logica del profitto, portato dello smantellamento dell’istruzione pubblica. Lo stesso processo che provoca aumenti delle tasse per gli studenti, intensificazione della selezione di classe e dei ritmi di studio, ma anche precarizzazione della ricerca e del lavoro in università nel suo complesso. In parallelo, è necessario sottolineare come la propaganda sionista e la repressione del dissenso che la accompagna siano inseparabili da un più ampio processo repressivo e di compattamento del fronte interno: le borghesie imperialiste dei paesi NATO e UE si interrogano rispetto a come preparare le proprie società civili all’eventualità di un confronto militare con le potenze revisioniste dell’attuale equilibrio capitalista mondiale,Russia e Cina.
A sua volta, tutto ciò è funzionale ad aumentare i ritmi di lavoro e contenere le pressioni salariali, in un contesto in cui le tensioni geopolitiche si intrecciano a tendenze alla crisi economica (espresse dall’inflazione), mentre i prestiti UE post-pandemia e i bassi tassi d’interesse non sono più una garanzia. Lo sanno bene i lavoratori delle ferrovie, per i quali l’esigenza di terminare i lavori associati ai fondi PNRR agli sgoccioli e la minaccia di un’ulteriore privatizzazione delle ferrovie, hanno segnato un peggioramento dell’orario di lavoro; contro cui però si sta in questi mesi lottando.
Coordinare gli sforzi di studenti e lavoratori per un grande movimento di convergenza contro il sionismo, l’imperialismo e l’economia di guerra
Mettere al centro il carattere di classe, antimperialista e antimilitarista della battaglia pro-Palestina nelle università è quindi necessario nell’ottica di fornire una prospettiva a fasce sempre più larghe di studenti e, soprattutto, di lavoratori affinché si uniscano alla lotta. Come ha sottolineato ancora una volta un’ospite della conferenza dei GPI del 5 maggio, la ricercatrice e presidentessa del sindacato universitario del King College di Londra Lucia Pradella: “un aspetto importante della mobilitazione in Gran Bretagna è il crescente coinvolgimento della classe lavoratrice: sono loro, in grado di bloccare la produzione, il settore sociale decisivo per vincere”. Il problema, ha continuato la compagna “è però il ruolo della burocrazia sindacale che cerca di frenare la partecipazione dei lavoratori alla lotta”.
Un problema che conosciamo bene in Italia, dove la dirigenza della CGIL, oltre a fare appelli astratti in nome della pace, rifiuta di schierarsi apertamente in favore della Palestina, in barba al sentimento di rilevanti settori della base, alcuni dei quali – soprattutto nel settore metalmeccanico – hanno aderito alla manifestazione del 24 febbraio a Milano. Come mostra la lotta dei manutentori delle ferrovie in questi mesi – alla pari di esperienze più di lunga data come la GKN – la creazione di coordinamenti tra lavoratori, a prescindere dalla sigla sindacale, è uno strumento decisivo per rompere la passività dei burocrati e condurre i lavoratori alla lotta.
Coordinamenti su basi analoghe, che si sono direttamente mobilitati per la Palestina, sono inoltre emersi da ottobre in poi: oltre ai già citati lavoratori dell’università contro il bando MAECI, si pensi a Sanitari per Gaza, ma anche a esperienze più limitare come i Docenti per la Palestina di Firenze. Un compito centrale del movimento studentesco deve essere quindi muoversi attivamente per rafforzare questo tipo di esperienze, fino a creare coordinamenti lavoratori-studenti per la Palestina, di modo tale da coinvolgere settori di classe lavoratrice che si stanno mettendo in moto su altri punti specifici, ma tuttavia collegati all’ ‘economia di guerra’, fatta di erosione del potere d’acquisto e peggioramento dei ritmi, ma anche della repressione contro gli scioperi; è il caso ancora dei ferrovieri, le cui proteste sono soggette alla dura disciplina della “commissione di garanzia”, la cui attività volta a bloccare l’azione conflittuale si è inasprita con il ministero dei trasporti in mano a Matteo Salvini.
Il rapporto con i lavoratori è tanto più importante per rafforzare la lotta quanto più si avvicina l’estate e le università rischiano di spopolarsi. Inoltre spesso in Italia i dipartimenti sono dispersi a livello geografico nel tessuto urbano, diversamente dagli USA in cui i “College” sono organizzati in “Campus” centralizzati. Soprattutto nelle istituzioni accademiche più grandi, e dove il movimento è più avanzato, va allora fatto un tentativo per estendere la capillarità della protesta, a partire da percorsi assembleari facoltà per facoltà, di modo tale da andare nella direzione di massificare la partecipazione agli “accampamenti” e la condivisione degli obiettivi più radicali. Non esistono scorciatoie, per vincere, alla costruzione di una mobilitazione realmente di massa. L’idea, spesso avanzata da alcuni settori militanti, per cui provare ad allargare il movimento rischi di spostarlo a destra, o rallentarlo, significa solo evitare di fare i conti con la propria debolezza politica e cominciare ad affrontarla seriamente.
L’avvicinarsi dell’estate può dare l’occasione per espandere la democrazia di movimento – e quindi la stessa attrattività di quest’ultimo – promuovendo una grande assemblea nazionale delle varie organizzazioni studentesche, ma più in generale militanti, e dei coordinamenti universitari e di lavoratori che hanno animato le proteste da ottobre a oggi per discutere come rilanciare la lotta.
Questo può essere il primo passo per sviluppare forme di coordinamento più strutturate, con referenti dai posti di studio e di lavoro dai vari territori scelti democraticamente in assemblea.
Se con i bombardamenti e l’ingresso delle Israeli Defence Force a Rafah verrà siglato un cessate il fuoco provvisorio, infatti, questo non vorrà dire che anche noi dovremo abbassare le armi, ma al contrario che è necessario intensificare ancora di più la lotta contro sionismo, imperialismo ed economia di guerra.
Lorenzo Lodi
Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.