Con questo piccolo contributo voglio chiarire la definizione storica che Marx dà del termine alienazione, utilizzato in primo luogo da Hegel per indicare l’atto per cui lo Spirito, per realizzarsi, si trasferisce in una realtà non spirituale nel suo procedere dalla coscienza all’autocoscienza. È alla base della dialettica, ancora idealista, del pensatore prussiano. “Anche l’idea, uscendo fuori di sé, si aliena nella natura”. Successivamente, il termine ha assunto accezioni diverse entrando nel vocabolario del materialismo moderno. Ludwig Feuerbach, capovolgendo la forma della filosofia hegeliana, definisce alienazione come l’atto attraverso il quale l’uomo trasferisce la propria essenza in un essere trascendente. Nell’opera “L’essenza del Cristianesimo” egli chiarisce che l’idea di un dio è frutto dell’alienazione dell’uomo, in quanto l’uomo proietta tutte le qualità positive che ha in sé in una persona divina e ne fa una realtà sussistente di fronte alla quale si sente schiacciato come un nulla, o almeno come un miserabile peccatore. Così, per esempio, l’idea di un dio come padre nasce dal bisogno di sicurezza degli uomini; l’idea di un essere perfettissimo nasce per rappresentare all’uomo ciò che egli vorrebbe essere ma non riesce mai a diventare. L’idea di un’esistenza subalterna non è altro che la fede nella vita terrestre, non come essa è attualmente, ma come dovrebbe essere. Anche la trinità adombra le tre facoltà supreme dell’uomo: volontà, ragione e amore. Quindi la religione, l’idea di un dio, di un mondo di felicità, di perfezione e di giustizia, prese nella loro unità e proiettate al di sopra dell’uomo, nascono dalla coscienza del profondo senso di alienazione prodotto storicamente nell’uomo antico di fronte alla profonda distanza tra la sua esistenza reale e questo mondo “utopico”, che immagina in un mondo di là da divenire.

L’autore che ha infine elaborato una definizione scientifica del concetto di alienazione è Marx. Egli indica la radice dell’alienazione nel capitalismo nel lavoro salariato, in quanto l’uomo si riduce ad un componente tra altri del processo lavorativo, si reifica in un lavoro non libero, ma forzato per la sua dipendenza dal datore di lavoro, a cagione di prevalere delle funzioni di scambio e di possesso su quelle di uso.

Feuerbach non ha dato risposta alla domanda sull’origine dell’alienazione, invece Marx già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 si dedica a studiare questo tema in stretta correlazione con l’analisi delle condizioni economiche e sociali del lavoro degli operai dell’industria. Questa connessione tra alienazione e condizione operaia è imprescindibile. La produzione rende socialmente l’uomo non soltanto una merce, la merce umana, ma lo plasma, in corrispondenza a questa funzione, come un essere disumanizzato sia spiritualmente che fisicamente. Marx, a differenza di Feuerbach, nell’esaminare questo problema, non si confronta unicamente col fenomeno della religione, ma col mondo della produzione capitalistica e la conseguente condizione degli operai dell’industria. L’alienazione, dunque, per lui non è un fenomeno “spirituale”-clericale, in virtù del quale l’uomo si lega ad una religione o si sottomette ad una chiesa in particolare. Essa è sinonimo di “espropriazione” e affonda le proprie radici nei rapporti lavorativi che si stabiliscono nella società capitalistica fra operai e padrone. Marx non ha, al contrario di Feuerbach, come bersaglio diretto polemico la religione o il clero: per lui questi non sono i veri “alienatori” del popolo. Nelle religioni, infatti, si riflette il bisogno di consolazione dell’uomo sofferente e oppresso nella vita sociale. Dalla critica della religione, dunque, si deve passare alla critica dell’economia politica: è in tale dimensione che si origina l’alienazione umana, o meglio, la scissione tra l’uomo e la sua profonda essenza; nel lavoro e nei rapporti di produzione si registra la vera alienazione dell’uomo. In questo senso, possiamo dire che Marx attribuisce al lavoro un grande significato filosofico.

Da sempre, l’uomo interagisce e trasforma la natura, lavora in senso lato, allo scopo di creare oggetti e utensili utili alla sopravvivenza. Nel processo lavorativo, l’uomo interviene plasmando la natura secondo un proprio scopo prefissato; viceversa la natura “alimenta” l’uomo dandogli i mezzi per estendere i confini della propria conoscenza, e soddisfacendone i bisogni. Il lavoro (in senso generale, fisico, non questa o quella forma determinata di lavoro alienato della società divisa in classi) permette all’umanità di evolversi e civilizza la natura, la modifica e la plasma riflettendo lo sviluppo storico del lavoro umano, dei rapporti sociali e dalla cultura che a partire da esso si sviluppano. In questo senso, per Marx è il lavoro a distinguere l’uomo dagli animali. Ciò che fa assumere a Marx i toni più fortemente critici è la constatazione del fatto che il lavoro, da fattore di realizzazione dell’essenza stessa dell’uomo sulla quale aveva concentrato la sua riflessione filosofica, si sia trasformato, nella società capitalistica, in causa di abbruttimento generale. Tale risultato non è ricondotto da Marx soltanto alla triste situazione materiale in cui versa la classe operaia nella società capitalista, ma ha un motivo più profondo e radicale, cioè l’alienazione che proprio nella condizione di lavoro assoggettato trova la sua più completa realizzazione. Innanzi tutto, l’operaio è estraniato dal prodotto del suo stesso lavoro, in quanto egli produce dei beni che non gli appartengono e che si pongono contro di lui come oggetti estranei ed indipendenti. Inoltre, l’operaio è estraniato rispetto alla sua stessa attività lavorativa: nell’industria capitalistica l’alienazione non riguarda soltanto l’oggetto del lavoro, ossia i beni prodotti, ma coinvolge il lavoro umano e dunque la stessa persona dell’operaio. Marx poi stabilisce una correlazione tra l’infelicità delle condizioni lavorative e l’infelicità stessa dell’uomo. Infatti, egli osserva che questo lavoro forzato, a cui l’operaio è costretto per sopravvivere, lo fa sentire come uno strumento, come una bestia nelle mani di altri per il solo scopo dell’arricchimento del padrone. In definitiva, Marx conclude osservando che non soltanto il processo lavorativo per l’operaio, ma anche il complesso dei rapporti umani, risultano reificati. In altri termini, la società divisa in classi non si cura dell’uomo e dei suo bisogni ma, in ultima istanza, solo degli interessi economici della classe dominante.
Già Hegel aveva individuato come in tale società anche il padrone sia in un certo senso alienato, perché, cancellando la sua essenza umana, istituisce con il prossimo rapporti basati esclusivamente sull’utile e sul guadagno.

Marx non si arresta alla constatazione dell’alienazione dell’uomo: ne ricerca anche la causa e la ritrova, come abbiamo accennato parlando del suo superamento di Feuerbach, nella proprietà privata dei mezzi di produzione, per cui tutto ciò che produce l’operaio col suo lavoro diviene proprietà del capitalista. L’organizzazione capitalistica dell’economia è impostata in modo che la proprietà privata del macchinario, delle materie prime e del denaro per fare nuovi investimenti siano del capitalista, il quale è proprietario di tutto ciò che i lavoratori producono e, in un certo senso, anche di questi ultimi. Una condizione, questa, che Marx considera aberrante. Per porvi rimedio non c’è che un’unica soluzione: il superamento dei rapporti di produzione all’origine della logica di sfruttamento e il passaggio ad una società in cui la proprietà privata venga abolita, cioè il comunismo. Nel comunismo l’uomo pone le basi materiali, sociali, per ritrovare se stesso; si riappacifica con il lavoro e con il mondo fisico e vive in un clima di felice collaborazione con gli altri uomini. L’uomo salva ed espande la propria umanità grazie al comunismo, vale a dire all’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e alla soppressione della divisione in classi della società. Se la proprietà privata ci rende così ottusi ed unilaterali da farci considerare un oggetto nostro solo se lo possediamo in maniera esclusiva, allora la soppressione della proprietà privata ci permetterà di godere dei beni in modo non egoistico: tutto potrà essere così più “bello”, anche il patire.

Per Marx, dalla divisione del lavoro deriva il dominio, non solo materiale ma anche spirituale di una classe sulle altra, che si concretizza nel dominio di un sistema di norme e credenze compatibili e adatte alla conservazione dell’ordine sociale, promosse come verità assolute, che Marx chiama ideologia. Per tali ragioni, Marx rileva che il difetto principale dell’idealismo consiste proprio nell’averci dato una rappresentazione capovolta del mondo e nell’aver voluto spiegare la realtà a partire dalle idee, mentre bisogna fare il contrario, ossia spiegare le idee a partire dalla realtà.

All’epoca del dominio della scuola hegeliana in Germania, la filosofia tedesca è divenuta per Marx ideologia, cioè una mera giustificazione della realtà, una rappresentazione mistificante del reale; un processo possibile a causa dell’impostazione stessa della filosofia di Hegel il quale, ad esempio, aveva sostenuto l’identità tra la ragione e la realtà, dando così basi anche filosofiche alla legittimazione dello Stato prussiano allora esistente.

L’idealismo si traduce praticamente, quindi, come ideologia della conservazione dello stato presente delle cose, che viene giustificato come attuazione della razionalità del mondo. L’idealismo, dunque, presenta un doppio difetto: sul piano teorico mistifica la storia, mentre sul piano politico giustifica la realtà.

Marx supera tale impostazione ponendo al centro della storia come processo il lavoro: la prima, necessaria azione storica consiste nella creazione dei mezzi per far fronte agli elementari bisogni della specie: mangiare, bere, vestirsi, avere un tetto sotto il quale ripararsi. Il lavoro dell’uomo è la base della civiltà e del pensiero: è il fondamento della storia. I rapporti di produzione, economici, sociali al cui interno l’uomo vive e lavora, Marx li definì col termine “struttura”, mentre definì col termine “sovrastruttura” il modo di pensare degli uomini, le istituzioni giuridiche e religiose, le leggi, la morale, la cultura, la politica, l’arte e la scienza della società.

Così, possiamo individuare tre livelli generali su cui si sviluppa la struttura:

– le condizioni della produzione o le risorse naturali rappresentate dal clima, dalla vegetazione e dalle materie prime;

– le forze produttive rappresentate innanzitutto dagli uomini che lavorano, dalle macchine e dagli utensili, che vengono impiegati dalla produzione e dalle conoscenze tecnico-scientifiche che fanno progredire il modo di produrre;

– i rapporti di produzione, cioè l’organizzazione del lavoro e le relazioni che si stabiliscono tra i soggetti coinvolti nel processo produttivo, in particolare tra il capitalista e i suoi dipendenti salariati nel modo di produzione capitalista. La struttura, così concepita nella sua complessa articolazione, incardina la cultura generale di una determinata società. Le costruzioni teoriche, del diritto e della morale, della religione e della politica dipendono dal complesso dei rapporti produttivi che si stabiliscono in una determinata epoca storica. Se confrontiamo le idee sulla morale, o sulla funzione della famiglia che gli uomini hanno avuto nel corso dei secoli, ci accorgiamo che quest’analisi marxista presenta elementi di verità indiscutibili.

Giuseppe Perozziello

Nato a Salerno nel 1994, vive Mercato San Severino, dove ha partecipato al movimento dell'Onda ed è stato rappresentante degli studenti del liceo Virgilio. In seguito, partecipa alle lotte e alle esperienze di autorganizzazione operaia in Campania.
Lavoratore precario e studente di filosofia all'Università di Salerno (Fisciano), è tra i fondatori de La Voce delle Lotte e della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria. Attivista sindacale tra le fila del SI Cobas.