In vista della settimana di mobilitazione dei lavoratori all’interno dell’accademia italiana, proponiamo qui un resoconto delle linee d’intervento del movimento negli ultimi mesi, mettendo al centro i punti politici principali che stanno caratterizzando le proteste dei lavoratori e delle lavoratrici dell’università di concerto con i movimenti studenteschi. Si tratta di una riflessione che vuole essere un punto di partenza che ci porti allo sciopero del 9 aprile di tutto il mondo universitario, una data che deve essere un punto di partenza per estendere la lotta a tutta la classe lavoratrice.
Le azioni militari contro la Striscia di Gaza, così come l’intensità dell’occupazione dei Territori Occupati palestinesi in Cisgiordania e della repressione dei cittadini palestinesi all’interno di Israele aumentano ogni giorno di più. Le cifre dei morti ammazzati sono sotto gli occhi di tutt*; allo stesso tempo, non è passato in sordina il più grande furto di territorio da parte dei coloni israeliani, spalleggiati dallo stato sionista, buono per 800 ettari della Cisgiordania occupata. Di fronte a tutto a ciò, al di là della retorica della cosiddetta comunità internazionale, sembra non esserci alternativa se non quella della mobilitazione internazionale che non si limiti alla mera denuncia, ma che prenda azioni concrete che colpiscano gli interessi economici e politici che sottostanno al genocidio del popolo palestinese.
Nel quadro di un dibattito sull’importanza del settore accademico nel sorreggere e sviluppare ulteriormente l’apparato repressivo e securitativo israeliano, la mobilitazione dell’università, che va avanti dall’inizio dell’aggressione israeliana contro Gaza, sta raggiungendo un buon grado di partecipazione e convergenza tra i suoi diversi settori. In diversi atenei italiani, docenti, ricercatori/trici, student* e dottorand* si sono unit* per portare avanti tutta una serie di iniziative che vertono sull’interruzione totale di tutti quegli accordi di ricerca con le università dello stato sionista che funzionalizzano la ricerca e la conoscenza alla repressione dell* palestinesi e al mantenimento dell’apartheid e del capitalismo di guerra di Israele: gran parte di questi, attualmente, passa da quel bando MAECI che sembra essere uno dei tanti volti alla promozione scambi e cooperazione sullo sviluppo di tecnologia dual use, ovvero ricerche realizzate in ambito civile, ma utili anche a scopi militari. In questo senso, ha fatto discutere la collaborazione di molti atenei italiani con l’università di Ariel, che si trova in un insediamento illegale all’interno della Cisgiordania occupata. Non meno gravi sono poi le collaborazioni con l’industria bellica e istituzioni israeliane oggi direttamente implicate nelle azioni militari in tutti i territori palestinesi. Questo, ad esempio, è il caso di Technion istituzione israeliana direttamente implicata nello sviluppo del complesso militare e di sorveglianza e sicurezza. Un’istituzione universitaria che vanta negli anni collaborazioni con diversi atenei italiani e che promuove ogni anno borse di studio per student* italian* al fine di conseguire esperienze di apprendimento e formazione in Israele.
Non è tutto ovviamente, poiché va chiarito che il bando MAECI è solo una goccia dell’oceano della cooperazione tra università italiane e israeliane. Infatti, come fanno notare alcuni, il bando è relativamente piccolo, in termini di investimenti (1 milione di euro), rispetto alle numerose collaborazioni tra atenei italiani e israeliani costruite nel corso degli anni dalle rispettive comunità accademiche con il placet (o meglio, l’incoraggiamento ideologico e materiale effettivo) di istituzioni ed industria. I numerosi appelli e petizioni redatti in queste settimane, proprio a ridosso della scadenza del bando del Ministero (16 aprile data ultima) hanno tutti l’obiettivo di bloccare la partecipazione delle università italiane ed evitare che esse, seppur in minima parte, concorrano al genocidio in atto.
Alcuni atenei, tramite i verbali dei Senati Accademici hanno iniziato a prendere misure diverse nei confronti di tale collaborazione, ma nessuno, per ora, sembra aver assunto una posizione netta rispetto all’interruzione delle relazioni con gli atenei israeliani.
Il primo ateneo italiano a prendere posizione è stato Torino, che ha votato, durante la seduta del Senato Accademico, la non partecipazione al bando MAECI, specificando, tuttavia, che tutti gli altri accordi intrapresi tra UniTo e gli atenei (e le aziende) di Israele non verranno messi minimamente in discussione.
Una decisione simile, anche se meno netta, è stata quello della Scuola Normale Superiore di Pisa, la quale, in seguito alle mobilitazioni dell* student*, ha redatto un verbale finale del Senato nel quale afferma, tra le altre cose, che: “ chiede al MAECI e al MIUR di assicurare alla comunità scientifica che tutti i bandi e i progetti da essi promossi per favorire la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con altri stati rispettino rigorosamente i principi costituzionali, con particolare riferimento all’art. 11”. Nei fatti tale posizione non interrompe tout court la collaborazione con le università israeliane, ma tende a scaricare la responsabilità al Ministero che, dal suo canto, non ha alcun interesse nel cambiare il suo approccio verso il bando. Infatti, a leggere il bando non vi sono chiari riferimenti all’uso militare, ovvero il nodo più critico della questione. Secondo il bando, tre sono i settori di interesse: Tecnologie per la salute del suolo (ad esempio, nuovi fertilizzanti, impianti per il suolo, microbioma del suolo, ecc.) 2. Tecnologie per l’acqua, tra cui: trattamento dell’acqua potabile, trattamento dell’acqua industriale e delle acque reflue e desalinizzazione dell’acqua 3. Ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche, per applicazioni di frontiera, come i rivelatori di onde gravitazionali di prossima generazione.
Apparentemente tutti settori volti allo sviluppo territoriale del paese, ma che di fatto nascondono decenni di tattiche di occupazione e strategie di oppressione del popolo palestinese. La gestione idrica come forma di controllo della popolazione palestinese, così come la riforestazione come tattica di occupazione e lo sviluppo di tecnologie ottiche come il riconoscimento dei sistemi facciali (la città di al-Khalil -Hebron- ne è tristemente famosa) sono soltanto alcuni dei casi più eclatanti.
Questo ci deve spingere a non arrestare per un momento la mobilitazione, come a non cedere davanti a semplici dichiarazioni di facciata da parte degli Atenei italiani. Mai come in questo momento c’è bisogno di alzare il livello delle rivendicazioni, ambendo in primo luogo a spingere le università italiane a non concedere alcuno spazio a tutte quelle componenti che partecipano a bandi e progetti congiunti con le università israeliane. Non solo all’interno del bando ministeriale, ma di tutte quelle forme di cooperazione in atto e sviluppate nel corso di decenni. Inoltre, è quanto mai necessario sfatare il mito dell’efficacia di una mobilitazione volta a fermare le collaborazioni “esclusivamente militari”. Se quelle collaborazioni volte allo sviluppo di tecnologia dual use sono le più visibili, alla luce della contingenza storica che ci troviamo a confrontare, ciò su cui bisogna insistere è il riconoscimento dell’organicità dell’accademia israeliana nell’interezza del suo agire, dal reclutamento alla ricerca in ogni campo, all’occupazione dei territori palestinesi. In tal senso, non è esente dal diventare bersaglio tutto il sistema universitario israeliano. Questo è in parte dimostrato dalla repressione che gli accademic* israelian* e soprattutto palestines* stanno subendo proprio all’interno dei vari atenei, al benchè minimo segno di opposizione all’azione militare portata avanti dalle Forze di Occupazione e ai dispositivi securitari e bellici messi in campo dallo stato segregazionista. Arresti e licenziamenti sono all’ordine del giorno, così come veri e propri raid contro tutt* coloro che si stanno opponendo alla guerra genocida contro Gaza.
Non meno gravi sono poi le collaborazioni e il supporto scientifico di diversi docenti, rettori/trici e ricercatori/trici alle aziende e agli istituti legati all’industria bellica di casa nostra. Le dimissioni del rettore dell’università di Bari dal comitato scientifico della fondazione MED-OR di Leonardo, così come la partecipazione alla medesima fondazione da parte di Antonella Polimeni, rettrice alla Sapienza di Roma, dimostrano quanto ramificato sia il connubio tra industria bellica e università. Oggi Leonardo è uno dei principali partner dello stato sionista, a cui fornisce mezzi da guerra che stanno sterminando la popolazione palestinese. La stessa industria italiana oggi è una delle principali finanziatrici di svariati progetti, master e corsi di studio all’interno degli atenei italiani. Tale ingresso è stato solo possibile sulla scorta di anni e anni di tagli strutturali alla ricerca che stanno alimentando l’ingresso di sempre più colossi industriali all’interno delle nostre università.
In questo contesto, per intraprendere una mobilitazione che non porti avanti rivendicazioni al ribasso, con il mero obiettivo di far arrivare appelli -nei fatti spuntati- all’interno dei vari senati accademici, c’è bisogno di far convergere tutte le lotte che la classe lavoratrice sta portando avanti.
In contrapposizione all’abbraccio ipocrita della rivendicazione del “cessate il fuoco” da parte di partiti borghesi e realtà internazionali, messe in imbarazzo dalla propria soggezione verso lo stato sionista di fronte ai propri elettorati e alle proprie popolazioni, le quali hanno visto con grande chiarezza tutta la brutalità che è disposta a mettere in campo “l’unica democrazia del Medio Oriente”, le mobilitazioni dal basso a cui stiamo assistendo in questa fase del genocidio del popolo palestinese hanno cominciato a portare avanti toni e posizioni sempre più radicali e volte allo smantellamento dell’infrastruttura internazionale dell’imperialismo, in cui Israele gioca un ruolo di primo piano. Legare oggi il boicottaggio accademico all’interruzione delle collaborazioni con l’industria bellica -sempre più presente all’interno delle università- così come appoggiare le rivendicazioni di quei settori di classe lavoratrice che, occupando spazi strategici nella catena industriale che conduce direttamente all’apparato bellico sionista, come ad esempio quelle portate avanti dai lavoratori e dalle lavoratrici dei porti di Genova e di Salerno, che si rifiutano di caricare le navi che dovrebbero trasportare armi in Israele. Unire il campo di queste lotte, attraverso la costruzione di un programma esplicitamente antimperialista e anticapitalista, per sottolineare come ogni soldo speso in armamenti equivale sia ad un palestinese che muore, sia ad investimenti critici tolti ai nostri servizi pubblici sempre più dilapidati, il tutto in nome del profitto di pochi sulle spalle, il sangue e le lacrime dei moltissimi, è essenziale per fermare il genocidio ma soprattutto per costruire un’alternativa alla società che tale genocidio abilita e sostiene.
In questo senso, la giornata del 9 aprile non deve essere il punto di arrivo della lotta, ma un punto di partenza per un percorso che, muovendo dall’esperienza dei coordinamenti di lavoratori che si sono attivati in questi mesi per la Palestina (che vanno ancora sostenuti, rafforzati ed incoraggiati più che mai), miri ad una contestazione di tutto l’assetto delle politiche governative, imperialiste ed anti-operaie, per costruire un vero sciopero generale!
Mattia Giampaolo
Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.