Da metà dicembre il popolo sudanese si sta ribellando contro la feroce dittatura di Omar Bashir e il piano di austerità concordato dal “rais” con il Fondo Monetario Internazionale. Le proteste sono cominciate nella città di Atbara, storicamente la principale concentrazione operaia sudanese, per poi estendersi alle “capitali gemelle” Karthoum e Omdurman, dove i manifestanti hanno chiesto le dimissioni di Bashir. Quest’ultimo – incalzato anche dallo sciopero dei medici della settimana scorsa – tuttavia non ha ceduto, e sta mettendo in campo una pesante repressione: sono centinaia i morti dall’inizio delle proteste e più di 800 gli arresti, almeno secondo il regime (che senza dubbio arrotonda per difetto). Torneremo in maniera più approfondita sulla dinamica delle mobilitazioni (per aggiornamenti in tempo reale: QUI – sito in inglese; per un resoconto di qualche settimana fa, in italiano: QUI). Vogliamo ora invece concentrarci sulle radici politico-economiche dell’esplosione di modo tale da mostrare come non si tratti di qualcosa di “lontano” da noi, bensì di un processo collegato con il dominio dell’Africa da parte delle potenze occidentali – Italia compresa – e la lotta per la sua spartizione tra queste ultime e le potenze emergenti. Cercheremo di analizzare, insomma, un altro caso pratico di “aiutiamoli a casa loro”, che impone ai giovani e ai lavoratori italiani la massima solidarietà con i loro fratelli sudanesi in lotta, oltre che con chi scappa ogni giorno dall’Africa per cercare di raggiungere la “fortezza Europa”.

Potrebbe interessarti anche: “aiutiamoli a casa loro”: imperialismo, proletarizzazione ed emigrazioni in Nigeria

Non sono proteste pagate da Soros: chi è Bashir?

Bashir è noto in occidente per i contrasti avuti in passato con gli USA: il dittatore prende infatti il potere nel 1989, cavalcando un moto popolare grazie all’appoggio dei Fratelli Musulmani – all’epoca in rotta con le petro-monarchie sulla questione dell’aggressione statunitense all’Irak – prima di dare ospitalità a Bin Laden (da cui le sanzioni USA e ONU comminate a partire dal 1997) e di intrattenere rapporti amichevoli con Libia e Cina. Tutti questi elementi – intrecciandosi con ragioni strettamente economiche: vedi alla voce petrolio [1] – avrebbero inoltre giustificato pesanti ingerenze degli USA e di altre potenze imperialiste nella guerra civile che ha insanguinato il sud del paese tra la fine degli anni 90 e la prima metà dei 2000. Le frizioni geopolitiche non impedirono tuttavia a Bashir di promuovere, sempre tra gli anni 90 e 2000, una serie di “piani di aggiustamento strutturale” concordati con l’FMI, mentre da quando nel 2011 Karthoum ha accettato l’indipendenza del Sud Sudan, il dittatore è diventato amico di tutti: le truppe sudanesi sono impegnate a fianco di quelle saudite in Yemen, fatto che non ha imbarazzato Bashir quando qualche mese fa è stato il primo leader arabo a fare visita ad Assad dai tempi della sua espulsione dalla Lega Araba. Faremo cenno in seguito ai rapporti economici con Cina, Turchia, Russia, ma anche USA (i quali nel 2017 hanno fortemente ridotto le sanzioni); limitiamoci qui a ricordare che nel 2017 Minniti coinvolse il Presidente sudanese in una serie di trattative volte a farne un pilastro nelle politiche di contenimento esterno dei flussi migratori, intenzioni alle quali non ha certo rinunciato Salvini. Non è dunque un caso se le proteste in Sudan siano passate sotto silenzio nel nostro paese, questo anche nella misura in cui rivitalizzano lo spettro delle rivolte arabe del 2011, in uno Stato che è molto legato geograficamente, politicamente e culturalmente all’Egitto del feld-maresciallo al-Sisi, bastione della contro-rivoluzione e perno delle strategie imperialiste della “nostra” classe dominante in Medio-Oriente.

Le radici economiche delle proteste: “landgrabbing”, dipendenza dal capitale internazionale e indebitamento estero.

Dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011 il governo di Kartoum ha perso il controllo del 75% delle risorse petrolifere. In realtà il Sudan mantiene il monopolio delle principali pipelines e degli scali portuali necessari all’esportazione del greggio, ma i proventi derivanti dalla gestione delle infrastrutture non sono riusciti a compensare la significativa riduzione delle entrate fiscali associata al controllo della produzione. Nell’ultimo decennio, perciò, la strategia adottata dall’élite politico-economica sudanese è stata quella di accentuare il processo di privatizzazione della terra cominciato negli anni 70 [2]. Fu all’epoca che lo Stato avviò delle politiche volte ad affermare la proprietà privata – storicamente appannaggio delle comunità rurali – prima avocando a sé la titolarità dei diritti giuridici sul suolo nazionale, poi favorendo l’accaparramento dei migliori terreni da parte degli uomini d’affari meglio connessi con i vari regimi post-coloniali. Il più zelante di questi ultimi è stato proprio quello di Bashir, il quale ha avuto a che fare con la ribellione del Sud anche in relazione ai fenomeni di spossessamento di pastori e contadini associati alla privatizzazione della terra; un fenomeno che nella parte meridionale del paese assumeva una connotazione sub-coloniale essendo la frazione più potente della classe dominante sudanese storicamente radicata nel nord e compattata dietro l’identità araba (il sud invece è abitato da etnie sub-sahariane, mentre la religione maggioritaria è il cristianesimo).

Dal “landgrabbing” cominciato dopo la separazione tra nord e sud del paese, invece, hanno beneficiato soprattutto investitori e governi stranieri, in particolare Sauditi, Turchi e Cinesi: secondo un recente studio, infatti, solo tra il 2005 e il 2014 sono stati acquistati dal capitale internazionale 40 milioni di ettari di terra, la cifra più elevata riscontrata in Africa nel periodo considerato, e pari alla maggior parte della terra irrigata [3]. Tutto ciò, da un lato ha attutito gli effetti del calo della produzione di petrolio, grazie all’aumento delle esportazioni di materie prime agricole e in particolare di biocarburanti; dall’altro ha dettato l’intensificazione dell’impoverimento delle campagne e dei fenomeni di urbanizzazione, come attesta il raddoppio della popolazione di Omdurman avvenuto negli ultimi dieci anni; un’urbanizzazione analoga a quella di molti paesi africani, ovvero senza industrializzazione, anche a causa della privatizzazione delle imprese pubbliche avvenuta negli ultimi trentanni in nome del pagamento del debito estero, con annessi fenomeni di centralizzazione del capitale nella mani di una ristretta elite, quindi di aumento della marginalità e della disoccupazione, mascherata nelle statistiche dall’informalizzazione del mercato del lavoro [4] (l’80% dei lavoratori urbani sudanesi è impiegato “in nero” in piccolissime attività artigianali o di commercio al minuto a carattere famigliare) [5].

importazioni di grano in Sudan. Fonte: indexmundi.com

A sua volta, l’espansione dei principali centri abitati è associata a un peggioramento della bilancia commerciale, dato che un’agricoltura come quella sudanese, distorta dall’agribusiness, non è in grado di soddisfare la crescente domanda di cibo proveniente dalle città in rapida crescita; di conseguenza la maggior parte delle materie prime alimentari, come il grano e i cerali, devono essere importati, in particolare dalla Russia, dalla Germania e dal Canada.  I progetti in infrastrutture agricole ed energetiche che hanno favorito il landgrabbing, inoltre, sono stati supportati dal debito estero contratto con il capitale internazionale, e non solo con quello associato alle potenze emergenti: come mostra un report dell’FMI, infatti, i prestiti contratti dal Sudan sono equamente divisi tra “Non-Paris Club Countries” – Cina, Turchia, Arabia Saudita etc. – e “Paris Club Countries” – i centri imperialisti tradizionali, tra i quali l’Italia [6]. Il progressivo abbandono delle politiche di Quantitative Easing della FED e della BCE – che mettendo a disposizione dei mercati finanziari migliaia di miliardi a costo zero hanno spinto un ingente afflusso di capitali dal “Nord” al “Sud” del mondo – ha però reso negli ultimi mesi sempre meno sostenibile il debito estero del Sudan, come quello di molti altri paesi in via di sviluppo. Di conseguenza, in parallelo alla riduzione delle sanzioni concretizzatosi nel 2017, Bashir ha avviato negoziati con il Fondo Monetario Internazionale, il quale come prerequisito per il suo sostegno ha chiesto la liberalizzazione del cambio e politiche di austerità; in primis il taglio dei sussidi all’energia e ai generi di prima necessità, fattore che ha scatenato le proteste.

Il ruolo di classe del Fondo Monetario Internazionale

La logica delle istituzioni finanziarie internazionali è la seguente: il debito può essere sostenibile solo lasciando fluttuare e deprezzare la moneta, così da eliminare la necessità di chiedere costantemente in prestito dollari, euro etc. per mantenere il cambio fisso ed evitare gli shock monetari che scoraggiano gli investimenti esteri. Sempre nell’ottica di attirare questi ultimi, di favorire la crescita e di ridurre il rapporto debito-PIL, è inoltre necessario – secondo l’FMI – recuperare risorse tagliando la “spesa pubblica improduttiva”, ovvero la spesa in sanità e istruzione, insieme ai sussidi sul cibo e sull’energia. Il contenuto imperialista e di classe dei diktat dell’FMI è però evidente: liberalizzare il cambio e lasciar deprezzare la moneta equivale infatti a rendere più costose le importazioni, sulle quali, come abbiamo visto, in Sudan incidono molto le materie prime alimentari, ma anche il farmaceutico, dopo il bombardamento della principale fabbrica chimica di Kartoum nel 1998 da parte di Clinton, il quale con questa aggressione mandò in rovina la sanità locale e decine di migliaia di allevatori e agricoltori, fortemente dipendenti dalla produzione di fertilizzanti che avveniva nel sito [7]. Il risultato degli ultimi due interventi sul cambio operati dalla banca centrale di Karthoum del febbraio scorso e di questo ottobre è stato dunque un’impennata incredibile dell’inflazione, ai danni evidentemente degli strati sociali più poveri. Se inoltre in generale è vero che una calo del valore della moneta nazionale favorisce le esportazioni, nel caso di un’economia come il Sudan, dipendente dai centri imperialisti tradizionali e dalle potenze emergenti per l’importazione di beni capitali e semilavorati (macchinari, auto-veicoli e lo stesso petrolio esportato dal Mar Rosso, ma raffinato altrove!) un deprezzamento ha soprattutto l’effetto di aumentare i costi di produzione, fattore che ha senza dubbio inciso nel rallentamento dell’economia sudanese dell’ultimo anno e mezzo.

inflazione sui beni di consumo. Fonte: globaleconomy.com

Certo – risponderebbero i tecnocrati dell’FMI – tutto ciò sarà compensato dall’aumento degli investimenti esteri! Come è stato già rilevato, tuttavia, in Sudan gli afflussi di capitale straniero trainati dall’agribusiness sono stati alla radice di fenomeni di spossessamento e impoverimento, di squilibri nella bilancia dei pagamenti, quindi dello stesso aumento del debito estero, anche nella misura in cui – come ai tempi di Rosa Luxemburg e Lenin – i progetti infrastrutturali che hanno calamitato il capitale internazionale sono avvenuti tramite prestiti erogati allo Stato dalla finanza imperialista e dei paesi emergenti. Se tutto questo è vero, allora, il dissesto delle casse statali centra ben poco con la spesa sociale, peraltro stagnante da decenni (dopo la crisi del debito di inizio anni 90 il Sudan aveva già subito due piani di “aggiustamento strutturale” firmati FMI), mentre lungi dall’essere la causa della debolezza dell’economia, i sussidi rappresentano un inevitabile palliativo agli squilibri di un’economia dipendente. Così, tagliare le sovvenzioni statali a pane, benzina etc. equivale esclusivamente a un trasferimento di reddito dai lavoratori e dai poveri al capitale internazionale e alla ristretta elites di militari e borghesia compradora, che domina il paese operando come intermediaria del capitale multinazionale. Per evitare di risultare astratti utilizzando una categoria del genere è utile chiamare in causa la figura di Osama Daoud, il più grosso capitalista sudanese, che ha il quasi monopolio della commercializzazione e della macinazione del grano importato da Canada, Germania e Russia, nonché il monopolio dell’imbottigliamento e della vendita di Pepsi e Coca Cola realizzate in occidente con la gomma arabica della quale il Sudan è il primo esportatore mondiale.

Potrebbe interessarti anche: TUNISIA: giornalista si dà fuoco e partono le proteste.

 

Lorenzo Lodi

NOTE:

[1] http://www.sudantribune.com/IMG/pdf/Oil_industry_in_Sudan.pdf

[2]http://www.democracyfirstgroup.org/wp-content/uploads/2016/10/Land-Use-Ownership-and-Allocation-in-Sudan.pdf

[3] Ibid.

[4] https://thejournalofbusiness.org/index.php/site/article/view/692

[5] http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/@africa/@ro-addis_ababa/@sro-cairo/documents/publication/wcms_334878.pdf

[6]https://www.imf.org/external/pubs/ft/dsa/pdf/2017/dsacr17364.pdf

[7]http://eprints.lse.ac.uk/85046/1/Mann%202013_Final.pdf

[8] Ibid.

Lorenzo Lodi

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.