Negli ultimi mesi i lavoratori delle ferrovie sono in fibrillazione. In seguito a un accordo capestro firmato dalle dirigenze CGIL,CISL,UIL in cui si peggiorano i turni e si toglie tempo di vita ai manutentori, questi ultimi si sono organizzati in assemblea nazionale e hanno scioperato gli scorsi 12 febbraio e 13 marzo. Nell’articolo riflettiamo sui motivi per cui l’importanza della lotta dei manutentori va oltre quella della categoria, in un contesto nel quale anche i capitreno e i macchinisti scioperano, mentre questioni come i ritmi, la sicurezza sul lavoro e la difesa del diritto di sciopero interessano tutti i lavoratori.
Mercoledì 13 marzo, centinaia di caschetti gialli hanno invaso le strade del centro di Roma. Il chiassoso corteo ha visto protagonisti gli addetti alla manutenzione infrastrutturale della rete ferroviaria italiana, che si trovano in un vero e proprio stato di agitazione dopo l’accordo capestro firmato ad inizio gennaio dai tre sindacati confederali – Cgil, Cisl e Uil – e dal sindacato di base Orsa. La mobilitazione dei manutentori è stata certamente un grande successo. Oltre al corteo, si deve infatti segnalare un’adesione allo sciopero che ha fatto registrare una media del 73% a livello nazionale, con veri e propri picchi in alcune regioni. Una tale partecipazione non era affatto scontata e testimonia il profondo malcontento operaio verso i confederali e la loro politica. In una dinamica abbastanza classica, dove l’aperta compiacenza della “triade” con le aziende viene sfidata da “sinistra” dai sindacati di base, lo sciopero del 13 marzo è stato chiamato da alcuni di questi – Usb e Cobas nello specifico. Tuttavia, il segreto del successo della mobilitazione risiede altrove. Il vero e proprio motore della protesta è stato infatti l’Assemblea Nazionale Ferrovieri Manutentori. In una precedente intervista su questo giornale con alcuni dei promotori di questa avevamo già avuto modo di chiarire le ragioni e la genesi dell’Assemblea. Adesso vogliamo invece sviluppare alcune considerazioni di carattere più generale e provare a delineare come la lotta dei manutentori possa diventare il baricentro gravitazionale per settori più larghi di classe lavoratrice.
La centralità dell’auto-organizzazione dei lavoratori
Il primo aspetto da evidenziare riguarda un’importante analogia tra la lotta dei manutentori delle ferrovie e la più importante vertenza operaia degli ultimi anni in Italia: quella degli operai della GKN. In entrambi i casi è infatti emersa la capacità dei lavoratori di coordinarsi attraverso strutture democratiche di base come collettivi di fabbrica e/o assemblee dei lavoratori. Queste strutture si caratterizzano per tre aspetti principali: a) la partecipazione diretta dei lavoratori alle decisioni che determinano la propria vita in termini di salario, turnazione e salute. Tali fattori investono poi una serie ben più ampia di ambiti, come quelli relazionali, familiari, la gestione e godimento del tempo libero e la possibilità di coltivare passioni; b) l’unità di tutti i lavoratori al di là delle differenti appartenenze sindacali, quando presenti. In altri termini, queste strutture di base hanno la capacità di accogliere tutti in egual misura, superando quindi le divisioni che si possono creare tra lavoratori sindacalizzati e non, e tra lavoratori appartenenti a sigle sindacali diverse; ed infine c) la piena uguaglianza di tutti i lavoratori. Questa non trova però espressione nell’uguaglianza meramente formale del “una testa un voto” (dove settori silenziosi e passivi di lavoratori, magari co-optati dalle burocrazie sindacali, possono nel segreto dell’urna torcere “a destra” le votazioni), ma nell’esplicita assunzione di responsabilità da parte di ogni lavoratore in assemblee aperte e manifeste. Chi pensa cosa e in quali termini diventa quindi noto e messo a verifica.
Queste strutture democratiche di base hanno grande importanza perché rappresentano lo strumento più forte che i lavoratori dispongono contro la tendenza alla burocratizzazione che qualsiasi sindacato mostra. Ciò non significa, ovviamente, sostenere che tutti i sindacati siano uguali. Tantomeno la nostra affermazione deve essere intesa come un generico invito all’abbandono in massa dei sindacati (pratica che, in ogni caso, quando promossa collettivamente rimane un’arma potente nelle mani dei lavoratori per premere sui sindacati e indurli a rivedere alcune loro decisioni). È importante, tuttavia, riconoscere come una lettura che dipinga i sindacati come semplicemente corrotti o interamente anti-operai sia fuorviante. La loro natura non è infatti univoca, ma bensì bicefala. Da un lato, sono strumento collettivo creato dai lavoratori per difendersi contro lo strapotere delle aziende: la forza dei numeri tenta qui di riequilibrare (parzialmente) la forza delle risorse (materiali, ma non solo). Dall’altro lato, qualsiasi sindacato minimamente numeroso deve necessariamente creare un’organizzazione stabile, sorretta da un numero variabile di funzionari. In alcuni casi, questi provengono dalle file dei lavoratori. In molti altri, no. Il fattore determinante non è comunque la loro biografia, ma il ruolo che ricoprono. La loro riproduzione sociale dipende infatti dalla stabilità del sindacato al quale appartengono. Questa, a sua volta, è determinata dalla capacità del sindacato di risultare utile a due attori molto diversi. Le aziende sono interessate ai sindacati in quanto, e fino a quando, questi possono garantire la pace sociale e relazioni capitale-lavoro istituzionalizzate. I lavoratori sono invece interessati ai sindacati in quanto capaci di fornire loro una qualche forma di protezione, che può andare dal miglioramento delle condizioni salariali ad aspetti molto più minuti, come la compilazione del 730 e aspetti simili legati ai servizi erogati dai sindacati ai loro membri. Le due funzioni, per quanto contradditorie, non sono in opposizione diretta. Un sindacato non rappresentativo in alcun modo dei lavoratori è inutile ad un’azienda, così come lo sarebbe un sindacato apertamente conflittuale. È in questo grado di oscillazione – diventare completamente irrilevante per i lavoratori e confliggere direttamente con le aziende – che si situa l’azione dei funzionari sindacali. Tale perimetro di gioco non è rigido. Il grado di oscillazione dei vari sindacati può essere ampio e molti fattori – il grado di avanzamento della lotta di classe, la posizione ideologica del sindacato, la sua dinamica interna, le caratteristiche specifiche dei vari funzionari, e così via – entrano all’interno di questa equazione complessa. A nostro avviso, comunque, l’elemento determinante da cogliere resta il riconoscimento di come per qualsiasi sindacato esista una tendenza di fondo alla burocratizzazione interna e all’avversione nei confronti delle strutture di base create dai lavoratori, dato che queste rappresentano una minaccia diretta alla loro funzione principale. Il secondo elemento contrasta qui il primo. E per questo la nostra politica è quella di incoraggiare l’emersione di strutture come collettivi e assemblee di lavoratori.
“Chi controlla il rubinetto del tempo controlla i rapporti di forza”. Riprendersi il tempo di vita contro le strategie delle imprese.
Un altro elemento interessante della lotta dei manutentori è da ritrovare nel principale fattore che ne ha determinato l’emersione: ovvero, il tentativo dell’azienda di introdurre la possibilità che un lavoratore possa anche giungere a lavorare 7 giorni di fila. Non entriamo nei dettagli. Vogliamo però provare a cogliere l’elemento generale, dato che questo riguarda certamente molti altri lavoratori in settori diversi: la contrapposizione tra la volontà delle aziende di disporre della manodopera a proprio piacimento e il desiderio dei lavoratori di non vivere esclusivamente in funzione della mansione svolta. Questa dinamica non emerge casualmente. All’opposto, riguarda una delle caratteristiche principali del capitalismo: la costante accelerazione dei ritmi di lavoro e, più in generale, di quelli di vita. Come sistema fondato sulla competizione, la dinamica interna spinge a produrre sempre di più in sempre minor tempo. Questo non avviene solamente grazie ad un costante avanzamento tecnologico, ma anche attraverso l’intensificazione delle prestazioni della forza-lavoro. Le due dinamiche possono suonare contradditorie di primo acchito. Se grazie ad un miglioramento della tecnologica posso produrre la stessa quantità di merce in minor tempo, dovrebbe seguire logicamente una diminuzione della giornata lavorativa o quantomeno un rallentamento dei ritmi di lavoro. Come sappiamo però, la prima tende ad essere formalmente stabile attorno alle 8 ore da circa un secolo (probabilmente in lieve aumento dato il grande ricorso agli straordinari nell’attuale fase neoliberista) e i secondi in vertiginosa crescita. È vero che possediamo mediamente molti più oggetti (la gran parte inutili) di quanto i lavoratori potevano permettersi un secolo fa, ma tale incremento è risibile rispetto agli sviluppi tecnologici intervenuti. Il segreto, per così dire, di questa contraddizione si trova, come già accennato, nella natura profonda del capitalismo: un sistema basato sulla necessaria e infinita competizione tra produttori.
Questa dinamica generale si riverbera ovviamente anche su ogni singola azienda, imponendole un costante miglioramento tecnologico e un comando sempre più serrato sulla manodopera per rispondere in tempo rapidissimi alle mutevoli esigenze del mercato. Per far ciò serve una forza-lavoro a completa disposizione delle aziende. Tale dinamica è molto forte in alcuni settori, come ad esempio la logistica, meno in altri. In gradi diversi è però sempre presente. In ogni caso, una turnazione che si spalmi su un numero di giorni maggiori di quanto previsto precedentemente non risponde solamente ad un’esigenza di potenziale disposizione fisica dei lavoratori, ma anche di indebolimento delle posizioni dei lavoratori nei confronti dell’azienda. Se una turnazione più lunga viene imposta di fronte ad aumentate esigenze produttive, i lavoratori devono battersi per un piano di assunzioni – perché altrimenti finiranno per lavorare di più e/o più intensamente. Se invece le esigenze produttive sono stabili, una potenziale turnazione allungata rende le eventuali proteste dei lavoratori, a partire dagli scioperi, molto meno efficaci. Ci spieghiamo con un esempio semplice. Assumiamo che una fabbrica produca 500 pezzi in 5 giorni lavorativi, ad una media di 100 pezzi giornalieri. Nonostante una stabilità di quanto l’azienda intende produrre, questa riesce ad imporre ad una forza-lavoro costante nei numeri una turnazione su 6 giorni. La media dei pezzi prodotti scende quindi ad 80. In tale situazione, un eventuale sciopero rischia di essere molto meno efficace perché rimodulando i turni l’azienda può recuperare una buona parte di quanto non prodotto nella giornata di sciopero nelle restanti 5 giornate lavorative. Chi controlla il rubinetto del tempo controlla quindi anche i rapporti di forza nelle fabbriche o nelle aziende.
Contro la criminalizzazione del diritto di sciopero nel comparto ferroviario
La possibilità per i lavoratori di chiamare scioperi che siano realmente dannosi per le aziende è determinante. Questa si situa infatti in un contesto di decennale attacco al diritto di sciopero. Come ogni lavoratore sa bene, la possibilità di convocare uno sciopero è strettamente regolamentata e irreggimentata. Non si tratta di un fatto nuovo, anzi. Il passaggio decisivo al riguardo è stato certamente il varo della legge 146 del 1990 che disciplinava in senso fortemente restrittivo il diritto di sciopero nei servizi pubblici. Interpretazioni sempre più stringenti della legge hanno finito poi per impedire quasi del tutto la possibilità di scioperare in alcuni settori e/o di mettere in campo strategie sindacali realmente conflittuali. Gli effetti sono stati pesantissimi non solamente sul fronte del livello di democrazia sui luoghi di lavoro, ma anche per quanto riguarda la dinamica salariale. Come ogni lavoratore sa bene, i contratti collettivi nazionali non vengono mai rinnovati alla scadenza e i successivi adeguamenti, quando presenti, sono limitatissimi e risibili sia in confronto al costo della vita sia in relazione agli aumenti dei profitti delle aziende. Esiste quindi un nesso diretto tra la caduta dei salari dei lavoratori in Italia – la più forte nei paesi Ocse negli ultimi 30 anni – e la limitazione del diritto di sciopero. Questa è tornata sulle prime pagine dei giornali con la precettazione dei lavoratori del trasporto pubblico da parte del ministro Matteo Salvini lo scorso novembre. Rimane però un fattore di grande importanza per qualsiasi lavoratore e che travalica il colore politico del governo di turno. Questo ci conduce all’ultimo aspetto che questo articolo affronta: la necessità per i manutentori di allargare la loro lotta.
Spunti per estendere la lotta dei manutentori
Qualsiasi mobilitazione operaia per quanto avanzata e radicale non può vincere da sola. Necessita quindi di abbracciare altri lavoratori. Questo allargamento è improbabile che avvenga a settori che non intrattengono una qualche relazione con i mobilitati. Come un sasso che si infrange nelle acque di uno stagno, il suo collegarsi ad altri lavoratori deve procedere per cerchi concentrici. Cosa questo significhi concretamente è ovviamente aperto alla discussione. Nel caso della GKN, ad esempio, abbiamo sostenuto che l’allargamento della lotta avrebbe potuto seguire due strade, non in antitesi tra di loro, ma complementari: quella della filiera dell’automotive e quella territoriale (a scanso di equivoci, questa seconda non riguardava una generica cittadinanza, ma i lavoratori della densamente industrializzata piana fiorentina). Qualora questo allargamento ad altri settori operai non avvenga, la lotta è necessariamente destinata a ripiegare su sé stessa. Nel caso dei manutentori, gli altri lavoratori delle ferrovie e, più in generale, quelli del trasporto pubblico rappresentano i cerchi concentrici più vicini al sasso che hanno lanciato con la loro mobilitazione. Per raggiungerli e spingerli a lottare serve un’articolazione delle proprie domande attorno a 5 linee di conflitto
1. Riduzione dell’orario di lavoro. Battaglia per le 32 ore settimanali
2. Cospicui aumenti salariali che vadano a recuperare quanto è stato perso dai lavoratori negli ultimi 30 anni. Battaglia per l’adeguamento immediato dei salari all’inflazione e per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali entro il termine della loro scadenza
3. Piena e completa re-internalizzazione di tutti i lavoratori che operano in un determinato settore. Battaglia per l’uguaglianza delle condizioni di tutti i lavoratori in ogni settore
4. Revisione delle modalità con le quali si lavora al fine di garantire la sicurezza agli operai. Battaglia contro le morti sui luoghi di lavoro
5. Recupero del pieno e reale diritto di sciopero. Battaglia per l’abrogazione della legge anti-sciopero 146 del 1990 (e delle successive modifiche) e creazione di casse di resistenza operaie che possano essere utilizzate dai lavoratori in sciopero
In questo solco, è molto importante la mobilitazione messa in campo, sempre in ferrovie, dai macchinisti e dai capitreno, anch’essi organizzati in assemblea nazionale e protagonisti di un partecipato sciopero appoggiato da SGB e USB. L’azione, volta porre il problema del rinnovo contrattuale nel comparto ferroviario, ha paralizzato la circolazione dei treni nel weekend tra il 23 e il 24 marzo.
Gianni Del Panta
Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).