I Giovani Palestinesi Italia (GPI) hanno chiamato allo sciopero generale per la Palestina nella giornata del 23 febbraio e una manifestazione nazionale il giorno successivo a Milano contro le stragi sioniste a Gaza. Un appello che condividiamo in pieno considerando l’importanza di questa data in un contesto internazionale caratterizzato da repressione e censura dei principali media della borghesia e dalle azioni violente delle forze dell’ordine contro i manifestanti che chiedevano le dimissioni dell’AD RAI dopo aver costretto la conduttrice Mara Venier a leggere un vero e proprio bollettino israeliano contro gli artisti che esprimevano solidarietà e lo stop del genocidio israeliano contro Gaza. Non da meno sono le azioni repressive che studenti e studentesse stanno subendo. Dalla presenza della DIGOS nelle iniziative sulla Palestina, fino alle pressioni su docenti e ricercatori/trici affinché non parlino di ciò che sta succedendo a Gaza. Lo sciopero unitario di lavoratori e lavoratrici del 23 febbraio deve essere un momento di solidarietà tra tutt* i lavoratori/trici affinché si metta in campo un’azione unitaria contro il genocidio e contro la complicità di istituzioni universitarie con Israele. Lo sciopero del 23 febbraio deve essere un primo passo per porre il tema dell’allargamento della mobilitazione, estendendo le forme di coordinamento dei lavoratori emerse in solidarietà alla Palestina (come i Sanitari per Gaza), e arrivare realmente a sfidare le burocrazie dei grandi sindacati (il principale freno alla massificazione della lotta).  In questo quadro, anche il movimento studentesco potrà giocare un ruolo importante, se saprà creare una dinamica tanto radicale, quanto democratica, volta a coinvolgere la massa degli studenti in alleanza con i lavoratori. 


La guerra israeliana a Gaza continua e infuria contro la parte meridionale di Rafah, al confine con l’Egitto dove circa un milione di palestinesi si sono rifugiati e dove fine a qualche settimana sembrava essere safe zone (zona sicura). Di fronte ai 30.000 morti ammazzati Israele non intende fermarsi con la complicità europea, americana e degli Stati arabi. Proprio in questi giorni al centro della scena vi è l’Egitto che sembra aver delimitato una zona all’interno del proprio confine atta a ospitare, si dice, le centinaia di migliaia di profughi in caso di attacco via terra a Rafah. Il governo egiziano seppur oggi nega, sembra stia contrattando con l’Unione Europea per varare una soluzione come è stato con la Turchia di Erdogan per i siriani. Miliardi di Euro nelle casse egiziane in cambio di silenzio sull’ennesimo tentativo di pulizia etnica. 

La complicità dell’imperialismo verso il progetto coloniale israeliano non si palesa di certo oggi e tale complicità oggi si è mostrata agli occhi di tutt* attraverso la repressione del movimento di solidarietà. Una repressione che si sta palesando in diversi contesti e modalità, dalla censura nei media, alle minacce di daspo agli artisti che parlano di fermare il genocidio, fino alla presenza delle forze di polizia negli eventi dedicati alla Palestina nelle università. 

Proprio l’università, e con essa i movimenti studenteschi, (a cui oggi si aggiunge anche la mobilitazione di ricercatori/trici e docenti) sembra essere diventato il luogo dove censura e repressione siano pratiche quotidiane ed è dimostrato dall’ampia adesione allo sciopero del 23 febbraio chiamato in Italia dai Giovani Palestinesi. 

Ma oltre la repressione, il controllo e la censura, vi è il ruolo dell’università come istituzione a legittimare lo stato sionista attraverso collaborazioni e che hanno contribuito (e continuano a contribuire) allo sviluppo dei sistemi militari, tecnologici e anche culturali. Una collaborazione che vede in prima fila le principali multinazionali e aziende italiane come ENI, Leonardo, Enel e così via. Le navi da guerra israeliane che oggi bombardano e che ieri sparavano sui pescatori di Gaza sono armate tutte con cannoni ‘made in Italy’, così come le tecnologie estrattive del gas nel mare di fronte a Gaza sono tutte italiane (non ultimo l’accordo, per ora da confermare, che ENI ha firmato con Israele per lo sfruttamento dei giacimenti di gas nel mare di Gaza). Non di minor importanza le collaborazioni culturali con gli atenei umanistici, volti a scambi ‘interculturali’ che nei fatti non sono nient’altro che un modo di legittimare l’entità sionista e la loro versione della ‘Storia’, dell’arte e della ‘letteratura’ in generale. 

In questo contesto, nonostante l’ampia mobilitazione, la questione del boicottaggio accademico è ancora un nervo scoperto anche per quei presidi e rettori che sembrano essere solidali con la causa palestinese. Uno degli esempi è Tommaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, il quale a una domanda esplicita rispetto all’interruzione degli accordi di collaborazione con università israeliane ha risposto affermando che: “Le università non si possono ridurre né ai governi dei loro Paesi, né ai loro stessi governi accademici. Sono comunità plurali, per definizione aperte e perfino ribelli, se fedeli alla loro missione”. Peccato però che quelle collaborazioni abbiano un effetto diretto sulla popolazione civile di Gaza che mai come questa volta sta sperimentando tutto la tecnologia bellica di cui Israele dispone. La criminalizzazione delle azioni di boicottaggio non si arrestano e vanno avanti anche nei principali media borghesi per bocca di rettori e direttori di riviste come nel caso del neo-direttore della rivista Il Mulino il quale, intervistato dal giornale filosionista Il Foglio, rincara la dose affermando che il boicottaggio è figlio di ‘un clima giacobino’. 

In questo quadro in cui l’establishment, anche di centro-sinistra, è particolarmente avverso al movimento di solidarietà del popolo palestinese, rispondere all’appello dello sciopero generale è quanto mai importante. Proprio in questi giorni, grazie alle mobilitazioni di attivisti e lavoratori, l’azienda italiana Iren ha interrotto gli accordi con l’israeliana Mekorot per gestione dei servizi idrici. Un piccolo risultato che si aggrega a quello delle azioni dei portuali di Genova.  

Proprio per queste ragioni lo sciopero del 23 febbraio e la manifestazione a Milano del 24 debbono rappresentare un percorso di lotta comune a tutti i settori del mondo del lavoro. Che a un serio percorso di lotta contro il genocidio sionista si dimostri ancora reticente a partecipare la CGIL – nonostante tutto, il più grande sindacato sul territorio nazionale – è una grave responsabilità in capo alla dirigenza di questa organizzazione. Tale atteggiamento, oggettivamente, limita il dispiegamento della forza che potrebbe esprimere una mobilitazione operaia per la Palestina. La chiamata dei Giovani Palestinesi Italiani agli iscritti alla CGIL ha colto nel segno, col voler coinvolgere i lavoratori oltre gli steccati dei sindacati di base. Dobbiamo approfondire questa impostazione e promuovere una sfida alle burocrazie nazionali del sindacato, che non può però limitarsi a un appello che ne denunci i vertici, ma al contrario deve inserirsi in una strategia articolata, volta a contendere la massa dei lavoratori alle dirigenze riformiste. Questo tipo di lavoro necessita anche che l’opposizione interna alla CGIL si attivi, promuovendo insieme alle forze sindacali combattive una campagna che unisca la lotta al sionismo e all’imperialismo a quella per la difesa delle condizioni materiali della classe lavoratrice in Italia, favorendo forme di autorganizzazione dei lavoratori al di là degli steccati sindacali. In questo solco, le stesse mobilitazioni dei lavoratori in lotta per la Palestina ci indicano la via: pensiamo ai Sanitari per Gaza che con la creazione di un coordinamento nazionale aperto a tutti i lavoratori a prescindere dall’organizzazione sindacale, sono riusciti a portare avanti un percorso radicale, in grado sia di rompere con la passività delle burocrazie confederali, sia di coinvolgere attivamente lavoratori al di là di quelli iscritti alle sigle più combattive. 

Moltiplicare e favorire queste esperienze potrebbe davvero aiutare ad arrivare a un reale sciopero generale, in grado di spingere avanti un programma di lotta contro il riarmo imperialista, con lo sguardo rivolto ai popoli oppressi del mondo che ne subiscono le più atroci conseguenze, ed alla contestuale erosione dei salari, dei diritti sociali e dei servizi pubblici legata all’effetto sui prezzi delle guerre e in almeno in parte al finanziamento delle spese belliche. Lottare contro il sionismo è inoltre necessario per compattare la classe lavoratrice in occidente: la canea politico-mediatica pro-Israele è infatti funzionale alla propaganda islamofoba, quindi al sostegno alle politiche reazionarie sull’immigrazione che rendono i lavoratori stranieri arabi, nordafricani, musulmani ecc. particolarmente ricattabili. Se allora la lotta al sionismo è intesa in questo modo è allora chiaro come la lotta contro le morti a Gaza è la stessa contro quelle nei mediterraneo, o nei cantieri, dove – come hanno mostrato i 4 omicidi sul lavoro della settimana all’Esselunga di Firenze – i più a rischio sono proprio gli immigrati, a causa della condizione di ricatto in cui li tiene la legislazione sui permessi di soggiorno. 


Non possiamo permetterci, tuttavia, di pensare che lo sciopero di per sé basti al movimento per fare un salto in avanti qualitativo: il movimento studentesco, che è stato in prima fila in termini di iniziative contro l’imperialismo ed il sionismo, dall’inizio dell’offensiva terrestre israeliana su Gaza, ha bisogno di estendere la portata della propria lotta, non solo in questa giornata di sciopero, unendosi alla mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche entro il terreno sociale che già occupa: le occupazioni delle aule e delle università sono state un segnale incoraggiante per tutt* coloro ambiscano muovere un’opposizione collettiva al governo Meloni e alle sue politiche di supporto alla guerra e di oppressione sociale – non fermiamoci qui! Perché queste occupazioni si riempiano ancora di più, riuscendo a sostenersi in maniera continuativa, abbiamo bisogno della regolarizzazione delle nostre rivendicazioni e di una strategia politica per vincere questa battaglia: affinché questo sia possibile, e che possa avvenire in maniera democratica, dobbiamo lottare per conquistare assemblee pubbliche, aperte anche all* giovani che dentro l’università non si trovano (spesso e volentieri giovani razzializzat*, che hanno dato un apporto decisivo alla lotta in questo momento storico, e che giustamente devono avere voce in capitolo , entro gli spazi universitari, per costruire la mobilitazione dal basso, così come un programma che sfidi davvero le radici dei progetti che oggi stanno alla base dell’oppressione di milioni in Italia e centinaia di milioni nel mondo. Una lotta che vada contro le divisioni interne alla classe operaia e che ponga al centro del proprio discorso collettivo il contrasto all’islamofobia e al razzismo messe in campo ad hoc da governo, padroni e partiti della borghesia; la fine di tutti gli accordi tra le università e l’entità sionista; lo smantellamento delle infrastrutture di sfruttamento globale per la perpetuazione del capitalismo e dell’imperialismo!

Mattia Giampaolo

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.