Nelle ultime settimane un coro di indignazione si è sollevato (nuovamente, essendo un tema trattato a intermittenza da tutti i media borghesi) da giornali e tv sulla sorte dei migliaia che provano a raggiungere le coste europee attraversando Sudan, Libia e il Mediterraneo, con mezzi di fortuna, per trovare un luogo sicuro dove vivere dignitosamente o crescere i propri figli o ancora fuggire da un regime oppressivo, in cerca della tanta decantata “democrazia” occidentale.

Come è noto nel tragitto questi uomini e queste donne sono costretti a subire gravi privazioni, in molti muoiono, chi ha la fortuna di arrivare in Libia lo fa spesso come schiavo vittima di tratta fra i trafficanti Sudanesi e finisce nei famigerati lager libici dove, secondo l’ordinamento legislativo del paese, possono essere trattenuti a tempo indeterminato, spesso lavorando gratuitamente o versando ai propri aguzzini ingenti cifre di denaro. L’organizzazione Medici per i Diritti Umani ha denunciato, attraverso una lettera consegnata al ministro Minniti, le torture nei centri di detenzione in Libia, le gravi carenze sanitarie, le percosse e ogni tipo di sevizia che devono subire i migranti, clandestini, economici o rifugiati che siano.

Se si ha poi la fortuna di essere imbarcati si rischia di finire in fondo al mare, come denuncia recentemente la nave Aquarius dell’organizzazione umanitaria Sos Méditerranée che ha recentemente sbarcato oltre quattrocento anime a Catania ed ha denunciato il fatto che, una volta individuata l’imbarcazione in grave difficoltà che li trasportava, è stata bloccata per ore con la motivazione di attendere i soccorsi libici. Se il barcone fosse affondato centinaia di uomini, donne e bambini sarebbero morti davanti agli occhi di chi poteva salvarli e solo per un puro caso non si sta parlando di un’altra tragedia nel mezzo del nostro mare.

Ma ovviamente anche per chi riesce a toccare il suolo non c’è pace. Migliaia di lavoratori e operai possono raccontare di aver passato mesi, se non anni, nei campi gestiti da cooperative legali e illegali, a lavorare per poco o nulla rischiando, esattamente come in Libia, sevizie di ogni tipo da parte dei propri caporali e la morte. Per una gran parte di questi immigrati nemmeno una volta arrivati nelle grandi città del centro nord il tormento finisce, vengono sfruttati nei magazzini, costretti a condizioni di vita durissime, costretti spesso a occupare casa per non essere separati dai propri famigliari tramite i centri di accoglienza.

Il tutto di fronte a autorità statali complici o compiacenti. Non è forse lo stesso governo italiano, appoggiato dall’UE, ad aver stretto accordi con la Libia per diminuire l’afflusso di migranti (chissà come pensavano che i tagliagole e le bande in Libia li avrebbero “fermati”)? Non è forse lo Stato Italiano che tutela padroni di campi e magazzini dove migliaia di africani, e stranieri di altri paesi d’origine, lavorano fino allo stremo (salvo poi presentarsi nel caso che questi stessi schiavi moderni si organizzano o si ribellano)? Non è forse il ministero degli interni e le amministrazioni di questo stesso Stato che sgomberano casermoni in cui almeno questi uomini e donne possono trovare riparo e il conforto di una comunità (senza dare alcuna tutela ne soluzioni decenti a chi si ritrova dall’oggi al domani senza una casa)?

In questo quadro le finte urla di dolore dei mass media nostrani, che sono gli stessi che difendono la sacralità della proprietà privata e dello Stato “democratico” primo colpevole di tutte queste insopportabili atrocità, suonano più come un’ulteriore beffa ai danni di chi soffre condizioni di vita miserabili. No, i proletari africani in Italia hanno una sola alleata: la classe lavoratrice italiana che ha, tanto quanto loro, bisogno di una casa, di un lavoro, della possibilità di spostarsi liberamente. Oggi c’è solo un modo per essere realmente solidali con questa gente, non con parole al vento una volta ogni tanto, ma con la lotta per abbattere le frontiere, per la libera circolazione degli esseri umani in tutto il globo e, in definitiva, per un mondo senza classi e senza Stati.

Di Ciemme