Arafat va alla lotta è un libro di Maria Elena Scandaliato, uscito lo scorso aprile per Mimesis Edizioni, scritto seguendo la testimonianza del combattivo dirigente sindacale del SI Cobas, ex-facchino, Mohamed Arafat. In questa recensione, cercheremo di proporre degli spunti per leggere politicamente una vicenda che, partendo dai lager libici e passando per il caporalato in Sicilia, attraversa il recente ciclo di lotte nella logistica italiana. A tal proposito, vedremo come la riflessione sui punti di forza e i limiti del sindacalismo combattivo porti inevitabilmente a riconsiderare l’importanza di un’organizzazione che prepari le lotte per il salto di qualità.


Una storia di immigrazione e lotta di classe

La storia di Mohamed Arafat in Italia comincia nel 2006, con il suo sbarco dopo la traversata dalle coste della Libia. Da qui prende le mosse il romanzo-reportage di Maria Elena Scandaliato, che segue il protagonista, facendogli narrare la propria storia in prima persona, e culmina con il ciclo di lotte dei facchini Tnt a Piacenza nel 2011. Gli episodi raccolti nel libro potranno sembrare ormai lontani negli anni, ma gli ultimi eventi di cronaca che hanno segnato il panorama della lotta di classe in Italia hanno reso Arafat va alla lotta un libro nuovamente attuale; anzi, potremmo dire che la pubblicazione è avvenuta proprio sull’onda lunga di questi importanti avvenimenti.

A gennaio, infatti, FedEx, public company statunitense subentrata all’operatore olandese Tnt nel 2016, ha annunciato la chiusura dell’hub di Piacenza, a seguito di un ampio piano di ristrutturazione a livello europeo. Dopo la mobilitazione dei lavoratori e dei sindacati, contrassegnata da durissimi scontri con le forze dell’ordine, l’8 febbraio si è raggiunto un accordo in cui Tnt-FedEx si impegnava a non intaccare i posti di lavoro dei facchini. L’ondata repressiva, tuttavia, non si è fermata: il 10 marzo sono arrivate una serie di perquisizioni, multe e denunce ai danni degli scioperanti. In particolare, hanno suscitato scalpore gli arresti di due sindacalisti: Carlo Pallavicini e Mohamed Arafat, il nostro protagonista.

La lotta è andata avanti con manifestazioni a livello nazionale e i soliti picchetti ai cancelli del magazzino. Il 26 marzo, Pallavicini e Arafat hanno ottenuto la revoca degli arresti domiciliari, anche se sono rimasti indagati. Appena tre giorni dopo, Tnt-Fedex ha annunciato la definitiva chiusura del magazzino di Piacenza a cui è seguito il licenziamento di trecento operai; altri sono stati spostati altrove in Italia o nell’hub di prossima apertura a Novara. Nel frattempo, le lotte dei facchini si sono diffuse e intensificate anche in Lombardia, a Peschiera Borromeo e a San Giuliano Milanese, dove i padroni non si sono fatti scrupoli a inviare squadracce di picchiatori per prendere di mira i dirigenti delle vertenze. Proprio a Novara, sempre nel contesto della logistica (magazzini Lidl), lavorava Adil Belakhdim, sindacalista SI Cobas di origini marocchine, con un background molto simile a quello di Arafat. La mattina del 18 giugno, Adil è stato ucciso da un camionista che cercava di forzare il blocco degli operai. Il 22 giugno, è stato proclamato sciopero generale per tutto il settore della logistica. Mentre scriviamo, si stanno svolgendo i preparativi per lo sciopero generale dell’11 ottobre.

In un contesto del genere, un libro come Arafat va alla lotta non può che essere una lettura imprescindibile. Non solo come introduzione all’attuale condizione del lavoro migrante in Italia, ma anche e soprattutto come lettura politica. Leggere un libro politicamente per noi non significa altro che andare oltre agli aspetti stilistici e puramente biografici per estrapolare un metodo. Quello di Arafat, infatti, è un esempio, un percorso come ce ne sono migliaia oggi in Italia. In questa recensione, intendiamo prendere in esame questo esempio nella misura in cui può essere utile a formulare una diagnosi sullo stato delle lotte nella logistica in Italia. Non ci interessa lodare l’eccezionalità del singolo, quanto piuttosto saggiare il termometro del conflitto politico-sociale all’interno del contesto in cui il singolo è calato.

Dalla traversata del Mediterraneo ai magazzini logistici: la costante del caporalato

È innanzitutto interessante notare che Arafat non è un “disperato”, termine che molti utilizzano per descrivere le persone con un vissuto simile al suo. Viene da una famiglia relativamente agiata del Cairo, suo padre è ingegnere e sua madre è insegnante di matematica. Arafat può permettersi di studiare all’università, ma decide di lasciare il proprio paese perché non intravede alcuna prospettiva occupazionale. Non diversamente da quanto succede qui da noi, in Egitto, anni di riforme neoliberiste hanno reso il mercato del lavoro estremamente ristretto e competitivo. Arafat decide così di partire alla volta dell’Italia, una vera e propria terra promessa da come la descrivono parenti e amici che ci sono stati o che vi si sono trasferiti. Il problema è che, come recita un famoso detto sul confine USA/Messico, “ci sono molte vie verso sud, ma solo un modo per arrivare a nord”.

Dopo essersi imbarcato in Libia, punto di smistamento per profughi provenienti da tutta l’Africa, Arafat comincia la traversata a bordo di uno di quei barconi per cui il Mediterraneo è ormai diventato tristemente famoso. Giunto in Sicilia, si accorge immediatamente di quanto possa essere difficile la vita per chi non possiede né passaporto, né documenti. Non solo c’è il rischio continuo di essere fermati dalla polizia, ma ci sono anche scafisti e trafficanti che cercano di lucrare ulteriormente organizzando viaggi verso il nord della penisola.

Dopo una breve parentesi a Milano, Arafat torna in Sicilia dove trova impiego come bracciante stagionale. Il libro offre un ampio spaccato sulla realtà del caporalato e ci aiuta a comprenderlo meglio come sintomo del sistema economico vigente, piuttosto che come semplice anomalia. In Sicilia, infatti, Arafat si accorge che la semi-schiavitù del capitale non conosce frontiere: gli alloggi dei braccianti clandestini sono in tutto e per tutto simili ai lager libici, il trattamento dispotico e mafioso che viene loro riservato uguale negli aranceti di Paternò come nelle cooperative di Piacenza. Non esiste progresso, in nessuna parte del mondo, per chi possiede come unica merce di scambio la propria forza-lavoro. E la situazione è anche peggiore se si considerano i ricatti riguardo allo status di clandestinità. Il principale metodo di disciplinamento cui ricorrono i caporali, infatti, è quello di minacciare una denuncia alla polizia per chiunque non si trovi in possesso di documenti o di permesso di soggiorno.

Spostandosi nel ciclo produttivo dalla raccolta allo stoccaggio, si trovano imprese più “virtuose”, adibite all’impacchettamento degli agrumi, e gestite da rispettabili membri delle piccole comunità locali. Qui Arafat scopre il potere dell’orologio e della bilancia; non diversamente da quanto succedeva nei campi, di fronte al nastro trasportatore tutto ciò che conta sono i ritmi e l’intensità. Bisogna assolutamente riempire un tot di casse in un tempo ben preciso, altrimenti le buche del calibro si colmano, la macchina si arresta e la direzione ci rimette economicamente. Visto da “fuori” rispetto alle campagne, ossia dal punto di vista di queste attività semi-legali di stoccaggio, il caporalato si rivela chiaramente per quello che è, al di là di ogni ideologia: un anello fondamentale nella catena dell’agricoltura capitalistica. Le condizioni semi-schiavistiche che lo caratterizzano riflettono le stringenti esigenze di rendimento provenienti dall’alto e non servono ad altro che a oliare gli ingranaggi di un ciclo inarrestabile.

I ritmi incessanti, le minacce e la gestione mafiosa del personale non sono, tuttavia, delle peculiarità del tessuto produttivo “arretrato” e “impoverito” del Meridione, ma ritornano come delle costanti anche nei grandi magazzini della multinazionale Tnt a Piacenza. Qui Arafat entra in contatto con il sistema di appalti e subappalti che fa da scheletro a buona parte del settore della logistica. Negli hub come quello di Piacenza è, infatti, largamente diffusa la somministrazione di manodopera, sistematicamente reclutata fra masse di profughi marocchini, egiziani, nigeriani, palestinesi, dequalificati e ricattabili. In inglese, l’eloquente espressione che traduce “somministrazione di manodopera” è body rental, letteralmente “affitto del corpo”. Vale la pena lasciare al libro la parola sul funzionamento di questo meccanismo perverso:

Funzionava così: l’appalto per il magazzino l’aveva vinto il consorzio Gesco, che dalla Tnt riceveva quattordici euro l’ora per lavoratore. Gesco, a sua volta, lo cedeva a una cooperativa “di appoggio”, per dieci euro l’ora. Il consorzio, quindi, intascava quattro euro per ogni facchino, senza fare assolutamente nulla. La cooperativa, di quei dieci euro, ne pagava cinque o sei a noi che concretamente svolgevamo il lavoro. E che di questa catena eravamo l’anello finale, oltre che il più debole. […] Il risultato di tutti questi passaggi è che alla Tnt eravamo quasi tutti in nero. Tu lavoravi un sacco di ore durante l’anno, e alla fine, magicamente, risultava che avevi guadagnato millecinquecento euro in dodici mesi (p. 86).

Al di là dei millecinquecento euro in busta, i facchini vengono pagati in contanti, un ammanco che la cooperativa giustifica come “aspettativa”, «quasi fossimo noi ad aver rinunciato a lavorare le ore previste dal contratto». Di fronte a questi metodi di pagamento, Arafat non può che constatare: «Mi sembrò di essere tornato in Sicilia» (p. 119). Le notevoli similitudini tra le condizioni di lavoro a Piacenza e quelle nei frutteti di Sicilia svelano, anche qui, il carattere sistemico del caporalato all’interno del capitalismo italiano; non tanto una realtà criminosa circoscritta alle campagne del Sud, quanto una particolare gestione della manodopera e del rapporto salariale nelle zone in cui è concentrato il lavoro meno qualificato.

Altro punto di contatto tra il lavoro nei campi e il settore della logistica è l’imperativo del massimo prodotto nel minimo tempo possibile. L’esperienza di Arafat, in questo senso, è un ottimo documento sull’applicazione trasversale della catena di montaggio. Non stupisce affatto che, alla sua prima giornata presso l’hub di Piacenza, il protagonista osservi: «il magazzino mi sembrava una fabbrica» (p. 85). In passaggi come questi, attraverso la lente dell’esperienza vissuta, il libro riesce, in maniera del tutto efficace, a dare concretezza alla realtà socioeconomica e ad aprire dei limpidi scorci sulla logica del capitale.

Che i magazzini siano diventati delle fabbriche, infatti, non è che una conseguenza diretta della crisi permanente in cui è scivolata l’economia mondiale a partire dal 2008. In un panorama dominato da sovrapproduzione e crollo del saggio di profitto, la logistica è diventata il mezzo ideale per realizzare immediatamente il valore in profitto, nel tentativo disperato di vendere più merci possibili nonostante l’impoverimento delle classi “consumatrici”. La centralità di questo settore è anche il portato della distanza sempre maggiore che si è venuta a creare tra il luogo della produzione e quello del consumo, quando, fino a qualche decennio fa, vi era una quasi completa sovrapposizione fra i due. La logistica, quindi, non solo abbatte i costi per lo spostamento, ma di fatto annulla anche gli interstizi che intercorrono tra la produzione e il consumo. Il capitale, per riprodursi, investe sempre di più in trasporto, movimentazione e magazzinaggio, cosa che, naturalmente, comporta enormi conseguenze per la forza-lavoro. 

La storia di Arafat mostra come la logistica sfrutti – e, in un certo senso, incoraggi, attraverso le esternalizzazioni e la diffusione sempre più internazionale dei giganti del settore – i flussi migratori, allo scopo di dislocare masse di lavoratori e di introdurne di nuove laddove è necessario aumentare la competizione interna alla classe. Si tratta, sostanzialmente, di quella che l’economista Bellofiore (2012) ha battezzato “centralizzazione senza concentrazione”, «ossia un comando del capitale centralizzato, ma con unità produttive connesse in rete “lungo filiere transnazionali” e in grado di sfruttare l’offerta di lavoro mondiale per rompere la resistenza della classe operaia dei paesi del centro capitalistico». In sintesi, la premessa su cui si fonda la centralità della logistica è il passaggio dal modello della fabbrica fordista (verticalmente integrata) al modello post-fordista, nel quale la tendenza è quella ad avere processi di produzione estremamente parcellizzati e spezzettati lungo filiere molto lunghe. È proprio grazie a questo processo di creazione di reti capillari sul territorio e di accelerazione degli spostamenti che logistica riesce a scomporre e ricomporre la forza-lavoro a proprio piacimento.

Esempi lampanti di questa tendenza si trovano in diverse parti del libro. I lavoratori della Tnt, ad esempio, si trovano perennemente in aspettativa, in un limbo continuo tra occupazione e disoccupazione. Vengono radunati tutte le mattine di fronte ai cancelli del magazzino per una selezione; solo alcuni di loro possono entrare a lavorare. Gli altri aspettano, anche per giornate intere, di essere chiamati. I loro orari – e quindi la loro retribuzione – sono interamente sottomessi alle esigenze del magazzino. Un lavoro, quindi, che potremmo chiamare “a singhiozzo”, viste le rotazioni che si vengono a creare, assolutamente imprevedibili e arbitrarie, non regolate da alcun contratto, e di carattere palesemente politico e disciplinare. Attraverso questo meccanismo – in cui, di fatto, il cottimo viene messo a sistema – la direzione evita che i suoi impiegati (che, in realtà, sulla carta, sono soci; la proverbiale beffa oltre al danno) vengano a formare un blocco compatto e solidale. Chi protesta, chi non si presenta, chi pretende di lavorare con regolarità viene licenziato, oppure denunciato.

La risposta di lotta: sindacato e scioperi

È proprio a questo punto che sorge l’esigenza della lotta, della presa di coscienza e del sindacato. L’incontro con il SI Cobas segna lo spartiacque per Arafat e i suoi compagni, che vengono a conoscenza non solo dei diritti che sono loro negati (permesso di soggiorno, contributi, TFR, inserimento nel contratto nazionale), ma anche delle vertenze già avviate in tutta Italia fra i lavoratori della logistica. Grazie all’appoggio del sindacato e alla strenua propaganda di Arafat, comincia a diffondersi nell’hub di Piacenza l’idea di rispondere per le rime alla dirigenza. Ciò che colpisce è come i compagni di Arafat riescano sin da subito, in maniera quasi spontanea, a concepire lo sciopero come prassi veramente combattiva. Lo sciopero, il picchetto, il blocco delle merci vengono usati come armi, con l’intento di far male, o meglio, di provocare «il danno più grosso, toccando i padroni in ciò che stava loro più a cuore: nel portafogli» (p. 135).

Per i lavoratori di Piacenza, lo sciopero non è e non può essere quel rituale che sono solite praticare le sigle confederali o le realtà di movimento. «Sapevamo che uno sciopero “classico”, annunciato e circoscritto, non avrebbe prodotto risultati» (p. 135) e, infatti, all’hub di Piacenza non si vedono, almeno in un primo momento, né manifestazioni innocue di un paio d’ore a fine turno o il sabato (secondo il canone confederale dello sciopero), né eventi concepiti per raccogliere risonanza mediatica, dove ciò che conta è “esserci” (visione movimentista). Ciò che si vede è piuttosto un’attenta riflessione di natura tattica sui mezzi e i comportamenti utili a prendere in contropiede la controparte padronale.

Ad esempio, i facchini, consapevoli di essere costantemente tracciati nei loro cellulari e di dover sempre fare i conti con dei crumiri, si scambiano dei messaggi falsi in preparazione allo sciopero, indicando date e orari diversi da quelli effettivamente concordati. La direzione abbocca e sgombera il magazzino dirottando altrove la merce, aspettandosi uno sciopero che invece arriverà il giorno successivo. Il risultato, naturalmente, è che Tnt ci perde doppiamente. Il principio è sempre quello di mantenere il fattore sorpresa. Per questo, si ricorre anche alla tattica del “gatto selvaggio”, in cui, a lavoro già avviato, si interrompe improvvisamente qualsiasi attività in seguito a un segnale concordato. In questo modo, la direzione non può spostare la merce in un’altra filiale dato che la fase di scarico dai tir è già stata ultimata.

I metodi di lotta, quindi, tengono conto delle capacità del nemico e delle peculiarità organizzative del settore logistico: non sono degli automatismi, delle semplici ricorrenze. I facchini di Tnt dimostrano di conoscere bene i mezzi con cui l’azienda conduce la sua lotta di classe – li abbiamo visti sopra, sono flessibilità, aspettativa, caporalato, ricatti ecc. – e ciò che fa veramente la differenza è proprio la consapevolezza di dover produrre una reazione uguale e contraria rispetto a questi mezzi. Se, ad esempio, l’azienda usa il lavoro a singhiozzo per dividere e demoralizzare i lavoratori, allora questi dovranno applicare uno sciopero a singhiozzo, caratterizzato da interruzioni brevi e ripetute nel corso dell’orario di lavoro.

Dall’economico al politico: il limite di un ciclo di lotta

Questa guerriglia da magazzino ha i risultati sperati: aumentano gli iscritti al SI Cobas, i capi smettono di tiranneggiare i facchini, le cooperative e Tnt arretrano e iniziano a mostrarsi aperte alla trattativa. A questo punto, si cominciano ad avvertire i limiti non solo del libro, ma anche, più in generale, di questa esperienza di lotta. Quella che si è dimostrata essere una brillante organizzazione dal punto di vista tattico, comincia ad arrancare quando arriva il momento di mostrare preparazione strategica e politica.

La vertenza acquista notevole trazione, anche a livello nazionale, al punto che vengono coinvolte nelle trattative anche le principali sigle federali, la questura e le autorità cittadine. Eppure, la grande assente in tutto questo quadro sembra essere proprio la politica, che fa capolino solo nella fuggente apparizione di qualche figura del governo. Del resto, di obiettivi politici nella vertenza non ce ne sono; come si è detto, si parla di inserimento nel contratto nazionale, di tredicesima, quattordicesima, contributi, contratti regolari, reintegro dei licenziati, al massimo, si arriva a chiedere il permesso di soggiorno per tutti i facchini del polo logistico. Chiaramente deve esserci un nesso tra la lotta in questione e le rivendicazioni che ne emergono, ma quello che forse manca, in questo caso, è la produzione di parole d’ordine che, a partire dalle lotte, riescano ad essere davvero unificanti.

Ad esempio, sembra essere generalmente assente – non solo nel caso specifico di Piacenza nel 2011, ma da tutte le vertenze Si Cobas nella logistica degli ultimi tempi – la rivendicazione dell’assunzione diretta dei lavoratori in appalto o subappalto. La linea SI Cobas, come emerge anche dal libro, è andata sempre più a focalizzarsi sui rinnovi e le regolarizzazioni all’interno delle cooperative, lasciando di fatto da parte la questione delle internalizzazioni che invece avrebbe potuto costituire un terreno prolifico di lotta non solo per la logistica, ma per tutto il mondo del lavoro. Si è persa così un’occasione di parlare a uno strato molto più ampio di classe operaia a partire dalle condizioni concrete dei facchini, quando è chiaro che un dialogo del genere avrebbe permesso di incanalare e amplificare la spinta conflittuale proveniente dalla logistica nel più vasto – ma frammentario e disorganizzato – processo di opposizione alla terziarizzazione. Questo non solo avrebbe creato le condizioni per una grossa campagna di mobilitazione in aperto contrasto con la Cgil e le sigle confederali, ma avrebbe anche impedito al fronte padronale di rivolgere l’arma dell’internalizzazione contro il SI Cobas stesso. Nell’ultimo anno, infatti, nell’ottica di sbarazzarsi delle aziende in subappalto organizzate sindacalmente, FedEx ha concesso più di 800 assunzioni dirette. Questa mossa da parte di FedEx va ad intaccare la strategia SI Cobas proprio nel fianco che essa aveva lasciato scoperto, rendendo anche più difficile al sindacato la possibilità di servirsi della parola d’ordine delle assunzioni dirette per il prossimo futuro. Un simile risvolto ai danni della classe operaia mette in luce non solo il problema della controffensiva padronale, di cui tratteremo fra poco, ma dimostra anche come il metodo SI Cobas, basato su una chiusura quasi corporativista sui facchini delle cooperative nella grande distribuzione e su una propaganda politica astratta, non possa fare uscire le singole lotte dall’isolamento, né fornire loro quella trasversalità di cui hanno bisogno in questa fase.

Man mano che ci si avvicina alla conclusione di questa storia, l’orizzonte di lotta si appiattisce sempre di più sul portare a casa il risultato, a costo anche di sconfessare il sindacato stesso (Tnt non riconosce i SI Cobas, quindi Arafat e i suoi compagni accettano di firmare l’accordo come tesserati Cgil). Non ci vuole molto a capire quanto questo orizzonte sia limitato e controproducente, visto che ignora del tutto il problema della controffensiva padronale. Controffensiva che, puntualmente, non si fa aspettare. Come si è detto in introduzione a questa recensione, qualche anno dopo l’accordo, Tnt viene ceduta a FedEx che sostituisce i lavoratori garantiti dall’accordo di cinque anni prima con facchini in affitto che avrebbe pagato 6 euro anziché 11 all’ora. FedEx licenzia 1860 dipendenti solo in Italia, come manovra di questo piano di ristrutturazione. Il ciclo di lotte descritto in queste righe, quindi, ha in un certo senso dovuto ricominciare da capo, a partire dal 2016, ma con le condizioni generali di lavoro nettamente peggiorate. Lo stesso Arafat dichiara, in una recente intervista riportata nell’introduzione del libro, che «oggi, paradossalmente, è tutto più difficile» (p. 17).

A chi scrive, questo fatto non sembra affatto paradossale. Le vittorie non basta conquistarle, bisogna anche saperle mantenere. Anzi, leggendo le ultime pagine, viene addirittura da chiedersi se l’accordo che chiude il libro possa effettivamente considerarsi una vittoria, visti gli sviluppi successivi. D’altronde, nel libro se ne parla più spesso in termini di “compromesso” (per quanto dannoso per i padroni), un compromesso su cui però aleggia la sconfitta subita con la chiusura definitiva dell’hub di Piacenza. È chiaro che, senza un orizzonte strategico ben definito, il massimo a cui queste lotte possono ambire è un tavolo di trattativa sindacale. Ma se c’è una cosa che gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato è proprio che ogni tavolo porta con sé la certezza di perdere, prima o poi, in un modo o nell’altro, tutte le posizioni guadagnate. Infatti, per quanto il ciclo di lotte interno alla logistica sia forte della propria posizione centrale all’interno delle catene del valore globale e abbia mostrato un livello di conflittualità notevole, il trend sulla lunga durata è quello di un arretramento generale e di un graduale ripiegamento su posizioni difensive.

Questo per il semplice fatto che a una centralità strutturale non corrisponde automaticamente una centralità politica. A una particolare frazione della classe operaia non basta trovarsi in un settore economicamente strategico per fare egemonia o per guadagnarsi un ruolo dirigente nel fronte anticapitalista. Anzi, come si è visto, una collocazione particolarmente “pericolosa” spinge molto spesso la borghesia a fare terra bruciata anche sul piano ideologico e politico, quindi non solo licenziando, esternalizzando o declassando. Gli arresti e le violenze menzionate all’inizio di questa recensione sono, del resto, ne sono la prova. Affinché possa veramente sprigionarsi l’importanza economica di un settore sulla crescita del movimento operaio, è necessario innanzitutto che vengano costruiti rapporti di forza a tutti i livelli, da quello strutturale-economico a quello politico-ideologico.

La stessa autrice del libro è ben consapevole di questo problema. Leggiamo, ad esempio, sempre nell’introduzione:

la lotta sindacale, anche la più dura e determinata, senza il sostegno di un’organizzazione politica non porta a vittorie durevoli. Con la lotta sindacale si possono vincere delle battaglie, non la guerra (p. 18).

E ancora:

«È questo che manca: un’organizzazione politica – che magari non sarà più un partito, ma qualcosa di inedito – che critichi alla base questo sistema economico e sociale, nell’interesse della stragrande maggioranza delle persone che lo fanno funzionare: i lavoratori. Senza una critica radicale, senza una vera e propria rivoluzione dello sguardo e della prospettiva, le ingiustizie sono destinate a rigenerarsi dopo ogni abbattimento, in una battaglia infinita e sempre più di retroguardia» (pp. 18-19).

La necessaria evoluzione della lotta di classe verso la rivoluzione

Il ritornello, insomma, è sempre quello per cui le lotte rimangono “orfane” di quelle forze politiche che potrebbero dare loro una portata sistemica. Non che il problema non sia individuato correttamente, sia chiaro; il fatto è che, ad oggi, questa invocazione del partito – o chi per esso – rischia di diventare un cliché, o peggio, un mantra autoassolutorio. Il presupposto, nemmeno troppo implicito, di questa linea di pensiero è che la lotta sindacale sia questo e nient’altro, un’azione di carattere meramente economico, e che l’apporto politico debba per forza provenire dall’esterno. Ma, fino a prova contraria, quel partito che decide di “adottare” le lotte può benissimo essere una qualsiasi forza dell’arco borghese in cerca di consenso fra la classe lavoratrice. La parabola di Aboubakar Soumahoro e degli Stati Sociali, del resto, ha mostrato quanto concreta sia questa possibilità, con la piena integrazione nel campo del centrosinistra di un rappresentante sindacale dei braccianti africani immigrati.

Certo, si dirà che il prerequisito necessario, come osserva giustamente l’autrice, è la «critica radicale di questo sistema economico e sociale». Questa premessa indubbiamente esclude di fatto tutte le forze parlamentari dal ventaglio delle possibilità, ma comporta un altro rischio: quello di abbracciare la dannosa dicotomia per cui alla classe – o al sindacato – spetterebbe la prassi e al partito la teoria. Noi siamo convinti che l’organizzazione politica che aiuterà le lotte a fare il salto di qualità nascerà dalle lotte stesse e non potrà, quindi, limitarsi a “criticare” il sistema vigente, ma dovrà combatterlo da dentro. La classe operaia non si fa adottare: si organizza per liberarsi dalle proprie catene ed è in questo processo che si “fa partito”. Sia chiaro, questo non significa che, per noi, il partito nasca spontaneamente sciopero dopo sciopero; come si è cercato di dimostrare, il problema è qualitativo, non quantitativo. Bisogna, in altre parole, fare in modo che le lotte diventino momenti di accumulo politico, non solo di rivendicazione, altrimenti anche il sindacato di classe rischia di cadere nella “ritualità” dello sciopero. Inaugurando un simile percorso si eviterebbe così di pensare per “scadenze”, affastellando generiche rivendicazioni vaghe e scollegate dalla prassi al solo scopo di fornire una piattaforma “politica” al solito grande sciopero autunnale.

Per questi motivi, ogni movimento, ogni vertenza, ogni organizzazione politica deve fare i conti non solo con i limiti oggettivi della situazione corrente, ma anche con i propri limiti soggettivi. Le sezioni combattive del sindacato devono porsi sin da subito il problema strategico del salto di qualità, se vogliono che le energie accumulate dalla classe operaia non vadano sprecate dopo la sigla di ogni accordo. Il problema ricorrente della controffensiva padronale non potrà che risolversi trasformando lotte corporative in lotte offensive. Questo non vuol dire semplicemente aumentare il coefficiente di propaganda politica fra i lavoratori sindacalizzati. Arafat e i suoi compagni del SI Cobas sono finiti in una sorta di vicolo cieco dopo la chiusura dell’hub di Piacenza non perché non hanno fatto abbastanza propaganda, ma perché non sono riusciti a far leva sul loro percorso di lotta per identificare parole d’ordine in grado di far uscire il sindacato dall’isolamento rispetto alle altre frazioni della classe.

Sappiamo bene quant’è profonda la crisi politica all’interno della sinistra di classe e quanto esteso sia, al momento, il fronte dell’avanzata padronale. Ma, a prescindere da quanto si possa retrocedere, non si deve mai perdere di vista l’obiettivo: c’è bisogno, ora più che mai, non solo di un coordinamento nazionale delle lotte, ma di un’organizzazione che sia in grado di mettere in discussione – nei fatti, non solo nelle parole – lo strapotere delle grandi imprese, che sono arrivate persino a dettare la linea ai governi sulla gestione della pandemia. Abbiamo insistito sul carattere fortemente interconnesso della logistica; lo abbiamo fatto per far emergere, in controluce, la necessità di una speculare connessione delle lotte. La posta in palio di una singola vertenza è molto più alta di qualsiasi contratto o misura previdenziale. Ce l’ha ricordato negli scorsi mesi il collettivo di fabbrica GKN, in stato di agitazione da luglio per un’improvvisa ondata di licenziamenti: «se sfondano qui, sfondano dappertutto». In altre parole, se in una vertenza alla FedEx passa la posizione padronale, si gettano le basi perché questa passi anche ad Amazon, GLS, DHL ecc.

In parole povere, c’è bisogno di militanti rivoluzionari della classe lavoratrice, oltre che di dirigenti sindacali, perché è chiaro che il potere non è un tavolo di trattative.

Riferimenti bibliografici

Bellofiore R (2012) La crisi capitalistica, la barbarie che avanza. Trieste: Asterios Editore.

Questo articolo fa parte del numero 1, autunno 2021, della rivista Egemonia.

Vive in Veneto. Lavora come precario nel mondo della scuola.