Con le elezioni alle porte, la politica torna a occuparsi di immigrazione, ma le forze elettorali non presentano soluzioni che vanno alla radice dello sfruttamento e dell’oppressione riservati ai migranti.


Le elezioni si avvicinano e l’immigrazione torna ad occupare parte del discorso politico, con i diversi partiti che da anni si preoccupano di tale fenomeno per soli fini mediatico-elettorali.

Oltre alla solita retorica razzista e xenofoba della destra di Salvini e Meloni, che cercano di seminare odio e paura sventolando il pericolo dell’uomo nero, musulmano e invasore – e su cui non ci addentreremo in questo articolo, rimandando a altri -, vi sono i partiti cosiddetti progressisti che affrontano il fenomeno in maniera opportunista e, nel caso dei partiti più radicali, tendono alla sola vittimizzazione del migrante, senza guardare al loro ruolo all’interno delle lotte dei lavoratori e lavoratrici.

 

Migranti buoni e migranti cattivi: la retorica del PD

Se c’è una cosa che al PD riesce perfettamente, quando si parla di migrazione, è quella di alternare un approccio nei fatti reazionario a una retorica progressista, a seconda della convenienza; lo dimostrano le politiche di Marco Minniti – ministro dell’interno tra il 2016 e il 2018 – in termini di esternalizzazione dei confini e finanziamenti di potentati locali (si veda la Libia) per far sì che i migranti venissero respinti da bande armate (con divise della guardia costiera) al momento della partenza dalle coste libiche.

Nell’anno del governo giallo-verde di Conte e Salvini, invece, il PD ha rispolverato un atteggiamento apparentemente progressista e rivolto all’accoglienza dei migranti, senza tuttavia affrontare seriamente il tema e mettere in discussione le leggi che hanno regolato la migrazione negli ultimi decenni.

Vale la pena ricordare, in generale, che il Partito Democratico è di fatto molto coerente con le politiche migratorie messe in campo dall’Unione Europea che hanno affrontato il fenomeno in maniera del tutto emergenziale, puntando alla “messa in sicurezza” delle frontiere e alla criminalizzazione della migrazione stessa, con uno spirito ben poco democratico ed egalitario.

Se guardiamo alla politica concreta di governo in Europa, non preoccupano i milioni di ucraini (comunque bianchi e cristiani) in esodo verso il nostro continente a seguito della guerra: la loro “accoglienza” rientra nel quadro di una crociata “per la democrazia e la libertà” che copre il riarmamento imperialista delle potenze europee, il rilancio e l’espansione della NATO, la corsa al saccheggio dell’Ucraina da parte dei capitalisti europei ed americani e le politiche reazionarie del governo Zelensky, del tutto dipendente da questi.

Invece, gli immigrati del vecchio mondo coloniale, in gran parte dell’Africa e dall’Asia – dunque l’uomo nero, spesso musulmano continuano a rappresentare un fattore destabilizzante per il nostro paese e quelli europei, un problema, una minaccia.

Venendo alle elezioni, la prima cosa che è balzata agli occhi in questi primi giorni di campagna elettorale, sono le posizioni del Partito Democratico rispetto all’accoglienza e alla cittadinanza per i cittadini di origine non italiana.

Ad ogni appuntamento elettorale, i progressisti nostrani se ne inventano una nuova: da un lato continuano a sbandierare ai quattro venti una non ben precisata cooperazione internazionale per sostenere i famosi ‘paesi terzi’, dall’altra tirano fuori dal cilindro l’ennesimo “ius” per mostrarsi sensibili al fenomeno della migrazione, di fronte all’elettorato progressista.

Oggi, ciò che promuove il PD nel suo programma elettorale è lo Ius scholae, che dopo quello culturae e soli è diventato l’ennesimo strumento per ripulire la coscienza dei democratici, tergiversando sul criterio specifico sul quale forse si attiveranno un giorno per riconoscere i diritti di una fetta sempre più importante della popolazione.

Rimangono però intanto sul tavolo le politiche migratorie concrete dei governi dell’ultimo decennio, dei quali il PD ha quasi sempre fatto parte. Governi i quali, soprattutto a livello europeo, hanno avallato la gestione esterna dei confini, delegando a Stati terzi – Libia, Turchia, Marocco e Tunisia – la gestione dei flussi migratori. Tali “gestori” si sono contraddistinti negli anni per aver torturato, arrestato e anche ucciso decine e decine di migranti, come nel caso eclatante del massacro di 37 africani a Melilla da parte della gendarmeria marocchina e spagnola, coi complimenti del primo ministro Pedro Sanchez, capo del governo “più progressista della storia di Spagna” (insieme ai “comunisti” di Izquierda Unida e a Podemos) – a proposito di modelli stranieri a dir poco negativi a cui si ispira la sinistra italiana!

Un mercato dei diritti dove ognuno degli attori politici coinvolti ha le mani sporche di sangue.

 

Vittime “invisibili”: la retorica a ‘sinistra del PD’

Seppur diversa nei contenuti e nell’idea di gestione dei migranti all’interno del nostro paese, i partiti appena a sinistra del Partito Democratico, come Sinistra Italiana, continuano con la retorica della vittimizzazione dei migranti sottacendo le lotte che questi hanno animato il nostro paese negli ultimi anni.

La candidatura dell’ex-sindacalista Aboubakar Soumahoro nella lista SI-Verdi ne è la riprova. Il sociologo di origine ivoriana negli ultimi anni si è contraddistinto per la sua attività con i braccianti nei campi del foggiano e a San Ferdinando in Calabria.

Nonostante ciò, sono state diverse le critiche che i lavoratori delle campagne hanno rivolto a Soumahoro per via del suo ruolo ambiguo tra lotta dal ‘basso’ e legame stretto con le istituzioni che poco hanno fatto per far valere i diritti dei lavoratori migranti nel settore agricolo italiano. Tali critiche, già riportate sulla Voce nel 2020, erano emerse anche dal momento in cui, soprattutto in Calabria e Puglia, la stessa USB e il suo ex dirigente hanno di fatto contribuito a depoliticizzare la lotta dei lavoratori agricoli a favore di un atteggiamento concertativo con le istituzioni locali (prefetture) e nazionali (ministero del lavoro).

Questa retorica fa il paio con quella dei migranti come vittime perenni e passivi ad ogni tipo di sopruso allo scopo di convincere qualcuno che il migrante è sempre povero e che ha bisogno del sostegno del cittadino italiano per uscire dalla barbarie.

Tale approccio è ben visibile in certe iniziative, soprattutto durante i mesi più duri della pandemia, quali lo sciopero al contrario del 2020, in cui il sindacalista, appellandosi ad un generico ‘popolo in difficoltà’ chiamava i lavoratori delle campagne a lavorare nei campi per “protesta per non abbandonare chi nella pandemia ha continuato a lavorare”. L’annuncio (qui il video) non era nient’altro che l’espressione più alta del paternalismo riformista che chiama alla ‘responsabilità’ del lavoratore il quale, lavorando per ‘la patria e il popolo in difficoltà’, cerca di non arrecare danni al sistema, mentre affida la soddisfazione delle sue rivendicazioni alla buona volontà del padrone.

Tale retorica va combattuta con forza poiché sono proprio i migranti che negli ultimi anni si sono contraddistinti all’interno delle lotte sui luoghi di lavoro: dai campi alle officine, fino ad arrivare ai magazzini della logistica.

Iscritti ai sindacati e protagonisti delle lotte nel nord Italia nei centri della grande distribuzione, così come nelle baraccopoli di San Ferdinando e di Foggia, i migranti si sono posti in prima fila nelle lotte operaie, per le rivendicazioni salariali e dei propri diritti, senza aspettare la benevola autorizzazione o la carità “dall’alto” di qualcun altro.

Non sono, come dice Soumahoro, invisibili: insieme a diversi settori di lavoratori e lavoratrici italiani hanno portato avanti, soprattutto durante il periodo pandemico, una serie di azioni contro le iniziative dei governi a guida PD e 5 Stelle; su tutte, la mobilitazione contro le procedure arbitrarie di regolarizzazione (sanatoria), così come sull’acquisizione dei documenti (nodo centrale che lega lavoro e migrazione) che nel nostro paese, al di là dei colori dei governi, è una questione che volutamente non si affronta, lasciando gli immigrati alla mercé di mafiosi, capitalisti e burocrati vari.

Le leggi messe in campo dalla burocrazia sindacale e dai partiti della cosiddetta sinistra democratica si sono dimostrate dannose proprio per gli effetti che hanno avuto sui migranti. La legge 199/2016 voluta dal governo Renzi (allora PD) non ha fatto altro che far aumentare i casi di irregolarità all’interno del settore agricolo, poiché al di là delle solite procedure repressive (neanche così numerose) contro le aziende sfruttatrici, non affronta i cardini che sono alla base dello sfruttamento lavorativo.

La 199/2016 è risultata del tutto inutile proprio perché è stato il risultato pratico del metodo con cui il riformismo e la concertazione dei sindacati confederali hanno affrontato il problema dello sfruttamento lavorativo. Non si sono andate ad intaccare le strutture dello sfruttamento dei migranti (irregolarità, assenza di politiche di ingresso e validità dei permessi di soggiorno, ma anche la concorrenza spietata tra le aziende agricole che giocano a ribasso sul valore dei beni, sfruttando migliaia di lavoratori e lavoratrici), ma si è preferito portare avanti una stancante e inutile ‘lotta del gatto col topo’ senza intaccare le radici dello sfruttamento.

 

E la sinistra radicale?

La sinistra radicale di fatto presente alla elezioni si divide in due tronconi distinti sull’immigrazione: quello di Unione Popolare, dove Potere al Popolo cerca di trainare un discorso che per molti versi è analogo alla retorica dei vari Fratoianni con un pizzico di radicalità in più, che tuttavia resta piuttosto astratta; l’altro, di derivazione stalinista, si esprime all’interno della lista nazionalista “Per un Italia sovrana e popolare”.

Potere al Popolo, pur criticando le politiche migratorie messe in atto dai vari governi negli ultimi decenni, resta ancorata ad un riformismo che non indica un piano di lotta per intaccare le vere radici dello sfruttamento; si fa cenno alla critica dei decreti sicurezza di Salvini e dell’abolizione della Bossi-Fini, così come degli accordi con la Libia, ma non vi è alcun cenno su come contrastare lo sfruttamento lavorativo. Lo stesso programma della coalizione resta molto generico nel punto 12 affermando: “Cancellazione delle politiche di criminalizzazione degli immigrati e lotta contro il caporalato e lo sfruttamento”.

Infatti, in una delle sezioni del sito, alla voce tavoli tematici, il dossier immigrazione sembra essere affrontato in modo del tutto astratto e che non punta ad un cambiamento radicale, bensì si propongono una serie di iniziative a metà tra ONGizzazione del fenomeno e misure che risultano essere ancorate a politiche locali senza alcun accenno ai fattori strutturali che determinano lo sfruttamento dei migranti e la loro discriminazione all’interno del nostro paese.

Tale approccio è riportato a chiare lettere nella sezione tavoli tematici del sito di PaP, nel quale si rivendica: “Organizzare processi di autoproduzione e auto distribuzione, tra forme di solidarietà, conflitto e controllo popolare; mappatura e messa in rete delle case del popolo che sul territorio nazionale sostengono e praticano il mutuo soccorso, che mettono a disposizione le proprie strutture per aprirsi alle azioni di solidarietà e favorire l’intreccio tra esse e la questione politica generale”.

Tale approccio riflette la prospettiva riformistico-mutualistica più generale di PaP, nonostante molti militanti dell’organizzazione comprendano a pieno il ruolo del migrante all’interno dei luoghi di lavoro e alla sua centralità nel conflitto sociale. Così, l’assenza di elementi che non rimandano alla lotta di classe (nel documento si fa cenno alle condizioni di un non ben precisata classe popolare) monca di fatto la prospettiva che si vuole fornire per l’emancipazione dei migranti e delle migranti.

Quanto alla sinistra “sovranista”, già da anni il santone dello stalinismo nostrano, Marco Rizzo si è contraddistinto per le sue posizioni sempre più arretrate sulla migrazione, raccogliendo ampie simpatie a destra, perfino dall’ex leader di Casapound Simone Di Stefano. Una degenerazione, particolarmente forte negli ultimi due anni, che porta questo settore della più ampia area di riferimento togliattiano-stalinista a promuovere posizioni contro le ONG che salvano i migranti in mare e nostalgiche dei dittatori ‘anti-imperialisti’ della regione come Gheddafi. Un insieme di posizioni non così distante dal razzismo vero e proprio, compatibili con vecchi slogan socialsciovinisti, sovranisti, che aiutano ulteriormente la diffusione delle ideologie nazionaliste-razziste nella classe lavoratrice. Come se non bastasse, quest’area ha spinto costantemente per una gerarchizzazione dei diritti e una graduale presa di posizione contro le battaglie per i diritti civili. Per Rizzo, lottare per i diritti dei migranti, per le minoranze, per le questioni di genere è meno importante rispetto alla lotta “per il pane”, per i “diritti sociali”: lottare per i diritti delle donne e della comunità lgbt+, come pure per i diritti dei migranti, significa sposare le battaglie della politica progressista borghese. Questa ideologia, che promuove tra lavoratori e lavoratrici un corporativismo economico alternato a comizi domenicali “per il socialismo”, è da combattere senza tregua e non ha nulla a che fare con una politica effettivamente radicale e anticapitalista a sinistra.

Sta a noi stessi prendere in mano la lotta per la nostra emancipazione su tutti i terreni, senza separare artificialmente la lotta economico-sindacale da quelle per tutti i nostri diritti e in tutti i campi della lotta politica, senza delegare a burocrati o ai partiti di governo: una direzione verso la quale si muove la recente dichiarazione congiunta del collettivo GKN e degli Stati Genderali.

 

E noi? Integrare l’immigrazione in un’unica politica anticapitalista, antimperialista

Partiamo da un presupposto: i diritti non hanno un’importanza gerarchica, piuttosto le lotte per ottenerli hanno un comune sbocco logico, cioè l’abbattimento del sistema capitalista che integra strutturalmente le oppressioni razziste e di genere. Eliminare le politiche oppressive e discriminanti (verso i migranti e non solo) riformando un po’ alla volta il sistema capitalista è una illusione che non trova più alcun appiglio concreto nella politica pratica del nostro tempo. In diversi casi, anzi, le cose peggiorano.

In questo senso, se vi è un problema all’interno della sinistra radicale oggi, è proprio l’incapacità di legare le diverse lotte e battaglie che hanno animato il paese negli ultimi anni, non solo per accumularle, ma per unirle in una lotta politica potenzialmente rivoluzionaria, e per gettare un’egemonia politica della classe lavoratrice come lottatrice per l’emancipazione di tutta la popolazione oppressa.

In questa direzione, le lotte all’interno della logistica, sostenute dai lavoratori e lavoratrici migranti, hanno tutto l’interesse a catalizzare e legarsi quelle relative all’accoglienza, ai documenti e alle leggi criminali che regolano oggi la migrazione in Italia e in Europa.

La migrazione è un fenomeno strutturale legato a doppio filo con il sistema imperialista delle potenze “occidentali” che, negli anni, con le varie missioni di “esportazione della democrazia” e di appoggio a regimi dittatoriali in Africa e Medio Oriente, con l’obiettivo di soggiogare e saccheggiare interi paesi, ha generato instabilità, distruzione e maggiore povertà delle classi popolari.

Inoltre, se è vero che i migranti rappresentano l’anello più debole della nostra società in termini di diritti e di condizioni socio-economiche, allo stesso tempo hanno dimostrato di essere più forti dei ricatti e della paura, di poter avere un ruolo di avanguardia nella lotta di classe anche nel nostro paese.

I magazzini della logistica, i campi di pomodoro nel sud Italia e i campi di frutta nella provincia di Cuneo sono stati dei punti nevralgici della lotta dei lavoratori delle campagne e il posto della sinistra anticapitalista e dei giovani che vogliono stare dalla parte della classe operaia è al loro fianco. Se i migranti non ereditano in automatico la forte tradizione del movimento operaio italiano, è anche vero che non hanno sulle spalle decenni di passivizzazione, sconfitte e burocratizzazione, e possono costituire una componente esplosiva per radicalizzare tutto il movimento operaio e far sviluppare un’ampia tendenza antiburocratica nelle mobilitazioni, dentro gli stessi sindacati.

Non bisogna, infine, trascurare la massiccia presenza dei migranti all’interno dei sindacati confederali. Se da un lato i sindacati di base come SI Cobas e USB hanno dimostrato una buona capacità di mobilitazione dei lavoratori migranti all’interno dei luoghi di lavoro, i sindacati di massa, di fatto, hanno al loro interno un numero considerevole di lavoratori migranti. Questi ultimi, nonostante si siano contraddistinti per la complicità delle burocrazie che li dirigono con le istituzioni borghesi e con le organizzazioni padronali in termini legislativi, rappresentano di fatto un bacino troppo importante per non essere preso in considerazione dai rivoluzionari.

Ad oggi i confederali hanno al loro interno un numero considerevole di lavoratori immigrati (secondo i dati circa 1 milione tra CGIL, CISL e UIL) e occupano settori strategici del mercato del lavoro, e dunque è quanto mai centrale allargare il processo di politicizzazione dei lavoratori anche nei sindacati maggiori, intaccando l’influenza della burocrazia concertativa e favorendo la radicalizzazione delle lotte all’interno dei luoghi di lavoro.

Di fronte a questi scenari e queste sfide, si tratta di lottare per l’unità delle lotte e dei diversi settori sociali in lotta promuovendo una comune prospettiva anti-imperialista, schierata innanzitutto contro gli imperialisti italiani e contro la NATO, lanciata verso la solidarietà attiva e il coordinamento con le lotte sociali degli altri paesi, che non sono lotte “altre” ma la nostra stessa lotta.

Non facciamo, quindi, distinzione tra i profughi ucraini e quelli afghani, siriani o iracheni, cioè tra le vittime stesse di conflitti e politiche economiche che hanno ridotto alla fame i paesi della periferia capitalista.

Come non facciamo distinzione tra migranti economici e rifugiati che fuggono dalle guerre, come vorrebbe la destra di Salvini e Meloni, ma come vogliono anche le varie cancellerie europee occupate da personaggi politici che si definiscono progressisti.

Un vero cambiamento delle politiche migratorie, a livello programmatico, deve porre come base l’accoglienza per chiunque fugga da una situazione di difficoltà, sia essa economica che politico-umanitaria.

Le restrizioni ai visti di entrata, così i decenni che un migrante deve aspettare una volta entrato nel nostro paese, non sono nient’altro che l’incoerenza e la stortezza delle leggi dello Stato borghese che vanno abolite.

Un migrante, una volta entrato nel nostro paese, deve godere di pieni diritti e dei servizi di base per una buona accoglienza e inclusione nel territorio, nella società.

L’abolizione dei permessi temporanei, imposti dallo Stato italiano e dai paesi dell’Unione Europea, deve essere una priorità per far fronte alle discriminazioni che i migranti sono costretti a subire.

Un movimento veramente solidale e internazionalista non può che rivendicare l’apertura indiscriminata delle frontiere e l’accoglienza di tutti i migranti che vogliono raggiungere il nostro continente, contro la burocrazia dei visti e degli screening al momento dell’arrivo.

Basta frontiere militarizzate, basta repressione della libertà di movimento e leggi repressive contro i migranti!  Nessun essere umano è illegale!

Contro i piani di riarmamento, l’aumento delle spese militari e gli interventi all’estero: lottiamo contro l’azione dell’imperialismo qui in Italia e nel mondo!

Pieni diritti agli immigrati, basta discriminazioni salariali e sociali: no alla segregazione sociale, no alla divisione tra lavoratori di serie A e serie B!

 

Mattia Giampaolo

 

 

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.