Quasi un anno fa veniva approvato il decreto Minniti, giustificato – almeno di fronte al “popolo della sinistra” – chiamando in causa la necessità di salvare la democrazia da populismo e razzismo (“sottraendo il monopolio di temi come sicurezza e immigrazione all’estrema destra”). Contemporaneamente, un provvedimento come quello in questione – che asseconda le pulsioni securitarie di strati sempre più rilevanti della popolazione, criminalizzando “marginali”, lavoratori stranieri e lotte sociali –  serviva al Ministro degli Interni per affermarsi direttamente come “figura d’ordine”. Il decreto Minniti, tuttavia, non rispondeva solo all’ambizione personale del suo promotore, o all’esigenza del PD di salvarsi dal tracollo dei suoi consensi “pescando a destra”, ma anche agli interessi oggettivi della classe dominante e alla crisi dello “Stato nel suo Complesso”. Come scriveva Gramsci:

“A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismo relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Se parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.[1]

La riflessione del rivoluzionario sardo ha quasi un secolo, ma rimane di un’attualità sconcertante; i risvolti economico-sociali della crisi esplosa nel 2008 hanno infatti approfondito l’impasse dei partiti attraverso i quali la borghesia ha esercitato la sua egemonia negli ultimi decenni. Diventa dunque possibile – e necessario (per continuare ad attaccare le condizioni di vita delle masse)  – un maggiore protagonismo del potere esecutivo e degli apparati statali sulla scena politica. C’è dunque un fil rouge tra i processi in questione, “i governi del Presidente” da Monti in poi e l’utilizzo senza scrupoli del decreto legge per attaccare i diritti sociali e civili approfonditosi ulteriormente con Renzi… Tra lo sdoganamento trasversale nel discorso dominante dell’equazione “immigrazione=minaccia”,  il decreto Minniti e l’aumento degli spazi mediatico-istituzionali concessi ai fascisti negli ultimi tempi. E’ il fil rouge rappresentato dai tentativi dello Stato Borghese di riaffermare la sua autorità rafforzando la “corazza della coercizione” (Gramsci definisce lo Stato, appunto, come egemonia corazzata di coercizione”, includendo nel concetto non solo le burocrazie civili e militari, ma anche tutte quelle sovrastutture politico-ideologiche attraverso le quali la borghesia articola “consensualmente” il suo dominio, almeno in periodi normali [2])

Non è stata allora una gaffe la dichiarazione di Minniti secondo cui “la morale” da ricavare dall’attacco squadrista ai danni di 7 nigeriani innocenti avvenuto a Macerata il 3 febbraio scorso sarebbe la seguente: “non ci si può fare giustizia da soli” (solo lo Stato può). Tale affermazione, a sua volta, è da collegare con l’intenzione annunciata dallo stesso Minniti di essere pronto ad impedire la manifestazione lanciata dai centri sociali marchigiani in risposta all’episodio che ha visto come protagonista il fascio-leghista Traini. L’iniziativa, infatti,  si opponeva al fascismo non come minaccia astratta “all’ordine e alla democrazia”, ma in quanto nemico dei giovani, dei lavoratori, degli immigrati, delle donne etc. Così, la prospettiva di una mobilitazione indipendente dei settori sociali in questione – che con l’iniziale adesione di CGIL ed ANPI si preannunciava di massa  – andava esattamente nella direzione opposta all’obiettivo del potere esecutivo… Ovvero quello di strumentalizzare il gesto squadrista per legittimarsi come unico baluardo dell’ordine democratico, contro i pericoli rappresentati “dall’immigrazione e dagli opposti estremismi di destra e di sinistra”.

Nonostante i ricatti del governo e la diserzione di burocrazie sindacali, ANPI, etc. la manifestazione del 10 febbraio è stata comunque un’azione imponente che  – coinvolgendo oltre 30.000 persone, supportate da altre decine di migliaia in varie piazze d’Italia – è riuscita a scompaginare i progetti del Ministero degli Interni. Evocativa, in questo solco, la rimozione da parte di Minniti del questore di Macerata, forse colpevole di non aver avuto lo stomaco di utilizzare il pugno di ferro contro un’iniziativa alla quale hanno finito per partecipare all’incirca tante persone quante ne conta la cittadina marchigiana.

La settimana appena conclusa è stata però contrassegnata da una serie di gravi attacchi a immigrati, rifugiati e rom, mentre le istituzioni non hanno rinunciato ad aprire spazi di agibilità per Casa Pound, Forza Nuova etc. L’obiettivo degli apparati statali e del governo è chiaramente quello di ergersi ipocritamente a “difesa della democrazia e della libertà d’espressione”, così da giustificare l’abbattimento della scure della repressione contro gli anti-fascisti; i quali sono il più delle volte anche militanti politici e sindacali impegnati a contrastare la prepotenza dei padroni e le politiche reazionarie sul piano economico e sociale attraverso le quali PD etc. esaudiscono i desiderata della classe dominante. 20 i fermi di domenica a Napoli ai danni dei compagni che contestavano il criminale Simone Di Stefano, i quali si aggiungono agli arresti – e agli idranti! – contro gli antifascisti bolognesi del 17 febbraio, mentre Mostafa e Giorgio sono detenuti da mercoledì scorso, con l’accusa di essersi difesi da una attacco della polizia durante la manifestazione antifascista di Piacenza (avvenuta in contemporanea a quella di Macerata).

Questo significa forse che le mobilitazioni di dieci giorni fa sono state inutili? La risposta a una domanda del genere deve essere negativa: le tendenze all’aumento del protagonismo degli apparati statali e del potere esecutivo – in gergo marxista “bonapartiste” – quindi la loro dialettica con lo squadrismo, sono il portato della crisi organica del capitalismo e delle sue sovrastrutture ideologico-politiche. Sarebbe stato perciò sorprendente se Minniti, Casa Pound, Forza Nuova & Co. avessero rinunciato alle proprie strategie – radicate nelle esigenze obiettive dalla classe dominante – dopo qualche sit-in (combattivo, ma minoritario) e un paio di manifestazioni fortunate e ben organizzate, ma incapaci di andare oltre le migliaia di persone.

La rappresaglia operata dallo Stato contro gli antifascisti in questi giorni\ore, e la tenuta della fiducia degli squadristi in relazione all’agibilità mediatica ed istituzionale della quale essi continuano a beneficiare, ci suggeriscono al contrario che la battaglia è appena incominciata e che si tratta di partire dalle incoraggianti mobilitazioni di Macerata e di Bologna per costruire un movimento di massa contro la deriva autoritaria, della quale Casa Pound, Forza Nuova etc. sono solo una componente. Poiché d’altro canto la posta in gioco delle tendenze bonapartiste è l’approfondimento degli attacchi alle condizioni di vita delle masse, si tratta di promuove una risposta all’offensiva da parte di Stato e fascisti basata sui lavoratori e i giovani, mobilitati in base a parole d’ordine che mettano al centro la solidarietà di classe – contro razzismo e discriminazioni varie – in una prospettiva anti-capitalista. E’ questa l’urgenza politica del momento nella misura in cui i recenti avvenimenti mostrano come – ancora con Gramsci:

La crisi [dello Stato nel suo complesso] crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne.

Anche per questo riteniamo dunque importante partecipare il 24 febbraio alla manifestazione indetta dai Si-Cobas a Roma per un “fronte anti-capitalista”, affinché sia un passaggio in grado di contribuire al processo di costruzione di una forza organizzata dei lavoratori articolata attorno a un programma di rivendicazioni transitorie, in grado di fornire un’alternativa alla crisi del capitalismo e ai suoi risvolti reazionari: l’alternativa della presa del potere da parte del proletariato.

Note

[1] A. Gramsci, “Osservazioni sulla struttura dei partiti politici nei periodi di Crisi Organica”, Quaderni, Note sul Machiavelli, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 74. Disponibile a:

[2] A. Gramsci, Op. Cit., “Lo Stato”, p. 174. Significativo citare la definizione completa: “nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come passibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione nella società regolata, l’argomento è fondamentale. L’elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile)”. Letto in relazione allo stralcio sulla crisi complessiva dello Stato, tale passaggio non significa affatto negare la centralità della coercizione statale dal punto di vista della classe dominante; al contrario fornisce una definizione concreta di Stato – come realtà sociale – fondamentale per analizzare l’evoluzione delle fasi politiche. Certamente non si tratta di una difesa del riformismo (come spesso vengono presentate sia dagli apologeti di tradizione togliattiana, ma anche dai critici rivoluzionari, alcune formulazioni gramsciane analoghe a quella di cui sopra.)

[2]A. Gramsci, “Osservazioni sulla struttura…”, Op. Cit., p. 75.

Django Renato

Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.