Pubblichiamo di seguito la corrispondenza operaia di un giovane ex-operaio addetto al taglio delle pelli in una fabbrica in cui si producono prodotti di lusso. Lusso ottenuto sfruttando gli operai a salari da fame e sottoposti a ritmi massacranti e al continuo pericolo di rimanere infortunati.


Gli occhi si aprono alle 7 del mattino, con la sveglia che mi entra subito in testa e mi ricorda che l’ingresso in fabbrica è alle 7 e 50, quindi non posso perdere troppo tempo, devo sbrigarmi. Mi lavo la faccia, il riflesso di me nello specchio,  riflette il mio viso pallido, sembra che non ho riposato. Lavato, vestito prendo il caffè, esco di casa e mi accendo una sigaretta.

Nel tragitto da casa a lavoro, rifletto sulla giornata che dovrò sopportare, i pensieri si mescolano, mi innervosisco e accendo un altra sigaretta. Arrivato nel piazzale, parcheggio e spengo la macchina.

Gli ultimi tiri di sigaretta, faccio un sospiro, che non può essere di sollievo ma di un ansia concreta, ed entro. Timbro il cartellino della presenza, saluto qualche mio collega, che ha più o meno la stessa faccia che ho io, e mi dirigo alla postazione dove per otto ore starò, per guadagnarmi uno stramaledetto salario in questa giornata.

Il mio lavoro consiste nello stare in piedi davanti ad una pressa meccanica, di quelle con due pulsanti all’estremità dei manubri e spostarla ogni volta che devo poggiare la pelle da tagliare sul piano di lavoro, posizionarci sopra delle forme taglienti,  afferrare i manici della pressa, premere simultaneamente i due pulsanti, così che la pressa scenda e schiacci la pelle, in maniera che lo stampo tagli nella forma necessaria.

Accanto a me ho dei ripiani con delle vaschette, dove i miei colleghi ci poggiano pezzi di pelle, da loro lavorati e che io dovrò tranciare. Come alzo lo sguardo dal piano di lavoro vedo uomini e donne che ripetono azioni, che li rendono un tutt’uno con la macchina.

Qualcuno di loro, si occupa dell’incollatura della pelle con del mastice sbattendo poi i pezzi incollati con dei martelli, vedo le loro braccia che non si fermano mai. Altri tingono i bordi del pezzo di pelle con un pennello dalla punta sottile, lo mettono su un rullo che va a finire in un forno per far seccare la vernice, ed avanti così senza tregua.

Lavoratori, davanti ad una mola che gira, pronti con in mano un pezzo di pelle dietro l’altro, a testa bassa, curvi, per molare in continuazione, borse già cucite o particolari, che andranno ad essere di nuovo lavorati, da altri colleghi chini, su delle macchine, che assottigliano al millimetro altri pezzi di pelle.

Il mio lavoro continua, immutabile, facendo le stesse azioni per trenta, o cinquanta volte, a seconda del contenuto di pelle nella vaschetta, che andrò a tranciare. Ne finisco una, mi dirigo con la vaschetta da un mio collega che la dovrà tingere, o da un altro, che dovrà smussare via i bordi con la mola, sollevando in aria polveri che, in primis in maniera più nociva, viene respirata dal mio collega, e di conseguenza da noi tutti dentro la fabbrica. Nel tragitto ho l’occasione di vedere le donne che cuciono, tutte in fila sedute, su sedie instabili, gobbe, davanti la macchina da cucire. Impegnate nel risultato da raggiungere, alienate come noi. Vicino hanno un rullo che gli porta materiale da cucire, non tutte cuciono l’intera borsa, ma solo delle parti di borsa e cosi avanti a testa bassa, per non perdere il ritmo.

Io e i miei colleghi, veniamo controllati da alcuni responsabili. La loro umanità all’interno della fabbrica sembrano averla persa. Solamente per le condizioni e il modo in cui lavoriamo già deprimente e malsano anche per la salute fisica, vista la postura gobba e le 8 ore, spezzate da due piccole pause, intervallate da un ora di pausa pranzo, non aiutano a far riprendere il nostro corpo da tutto lo stress accumulato. I capi dei reparti, e il padrone ci tengono d’occhio per vedere chi non produce abbastanza velocemente, per poi richiamarlo. Ai padroni, a tutti i padroni, piace umiliarci, altrimenti non ci costringerebbero a lavorare in queste condizioni.

Tutta la mia forza di volontà, svanì, giorno dopo giorno. I primi giorni entrato in fabbrica, cercavo di dare il massimo, volevo farmi vedere volenteroso ed ingenuamente riconoscente del lavoro offerto. I miei tempi nello spostare la pressa, posizionare pelle e forma tagliente e tranciare, erano in linea con gli standard produttivi del padrone della fabbrica, perché non venivo né richiamato né ammonito per uno scarso rendimento. Allo stesso tempo, mi resi conto però, che dopo ogni pezzo di pelle tranciato, ce n’era un altro, e cosi ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Adesso non lavoro più in fabbrica, non ho retto i ritmi. Sono riuscito a trovare un nuovo lavoro, a differenza di molti altri che non riescono, passando per anni di apprendistati e contratti a tempo determinato, ma la natura dello sfruttamento non è cambiata, anche qui ci sono responsabili al soldo dell’azienda che spingono i lavoratori a produrre più velocemente, anche qui si rischia di farsi male per mantenere i ritmi di produzione serrati, anche qui i padroni si arricchiscono sul sudore dei dipendenti.

L’unica soluzione per migliorare la propria condizione è organizzarsi, in ogni settore del lavoro, qualunque forma prenda la costante di ogni tipologia di luogo di lavoro, fabbriche, magazzini, supermercati o uffici che siano, e lottare contro i padroni e la loro società fondata sulla sopraffazione.

Un lavoratore