Il 21 agosto è iniziato lo sciopero dei detenuti delle prigioni degli Stati Uniti per reclamare migliori condizioni di vita e la fine di una forma di sfruttamento tipica della schiavitù moderna. Si protrarrà fino al 9 settembre, anniversario della rivolta nella prigione di Attica del 1971.


Lo sciopero dei detenuti statunitensi ha preso il via lo scorso 21 agosto, data simbolica per la storia della lotta per i diritti civili dei neri americani e per le condizioni di detenzione nelle prigioni statunitensi. Ecco alcune delle dieci rivendicazioni portate avanti dal movimento che ha organizzato lo sciopero: miglioramento immediato della condizione delle carceri e delle politiche penitenziarie perché venga finalmente riconosciuta l’umanità delle donne e degli uomini carcerati, fine immediata dello sfruttamento dei detenuti, diritto di voto per i carcerati, mettere fine ad un sistema basato sull’accusa, l’incriminazione delle persone nere e che toglie loro la parola.

Organizzata e sostenuta dal collettivo di detenuti Jailhouse Lawyers Speaket e da numerose associazioni che militano per i diritti dei detenuti, questo sciopero, che potrà prendere diverse forme, dovrebbe continuare fino al 9 settembre, data dell’inizio della rivolta e del massacro dei detenuti della prigione di Attica (New York) nel 1971. Il 21 agosto 1971, un agente del carcere di San Quintino in California, assassinò il militante del Black Panther Party Georges Jackson. In un contesto sociale segnato dal razzismo e dalla repressione dei Neri americani e dalla lotta per i diritti civili, il 9 settembre 1971, presso la prigione di Attica, prese vita una rivolta organizzata da detenuti neri per denunciare il razzismo e lo sfruttamento nelle prigioni. La rivolta venne repressa nel sangue qualche giorno più tardi. Il bilancio della repressione fu di 43 morti di cui 33 detenuti.

Nel 2006 uno storico sciopero dei detenuti[1] denunciò le forme di schiavitù ancora praticate delle prigioni. Quest’ ultimo sciopero venne organizzato dopo la rivolta dei detenuti del Lee Correctional Institute nella Carolina del Sud del 15 aprile precedente, una rivolta repressa nel sangue e che portò alla morte di 7 detenuti ed al ricovero di 22. La rivolta dell’aprile 2006 scoppiò nel contesto di una situazione estremamente complessa per la vita dei detenuti nelle carceri, dopo anni di riduzione dei fondi e di pesanti tagli ai programmi di formazione. Questa situazione portò alla nascita di un nuovo collettivo di detenuti con lo scopo di migliorare le proprie condizioni di vita.

 

Le prigioni e il business della reclusione

Con un salario medio di 12 centesimi per ora di lavoro e considerando anche l’impiego dei detenuti in veri e propri lavori forzati non retribuiti, collettivi ed associazioni denunciano ancora una volta questa forma di moderna schiavitù rappresentata dal lavoro in carcere. Il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti non ha completamente abolito la schiavitù, lasciando in piedi una eccezione: «La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.[2]»

Si tratta evidentemente di una mano d’opera sfruttabile del tutto gratuitamente. Un ottimo affare per lo stato o le imprese alle quali i singoli stati appaltano vari servizi come la ristorazione o la formazione. Spesso le prigioni sono direttamente gestite da imprese private. Sono i detenuti che tengono in piedi le prigioni, senza mezzi e senza salari: questi centri di reclusione diventano così un’ottima occasione di speculazione da parte delle imprese che arrivano anche a imporre agli stati delle “clausole di occupazione” per cui ricevono degli indennizzi quando la prigione non è abbastanza “occupata”.

Aziende come Victoria’s Secret, McDonalds, Microsoft, Starbucks, Whole Foods e Walmart possono approfittare dal canto loro di una mano d’opera a bassissimo costo. Questa organizzazione dei centri di detenzione è poi mascherata da una vernice ideologica che glorifica la punizione dei “criminali”. In Francia non esistono prigioni private, ma molti servizi sono appaltati ad imprese private e lo Stato può stipulare accordi di collaborazione con le imprese (Engie e Bouygues per esempio) per la costruzione di nuovi penitenziari.

 

Uno strumento di controllo della repressione delle classi subalterne e dei gruppi razzializzati

La dichiarazione del collettivo Jailhouse Lawyers Speak mette anche in luce il razzismo che permea le istituzioni giudiziarie e le politiche penitenziarie degli USA. Dei 2,2 milioni di persone detenute negli Stati Uniti (che, per dare un’idea dell’estensione del fenomeno, corrispondono a 655 detenuti su 100.000, contro i 100 su 100.000 della Francia), il 40% è nero, anche se i neri americani rappresentano solo il 13% della popolazione totale. Si tratta dell’espressione di un razzismo strutturale che trova un punto di incontro con la funzione ed il ruolo assolti dalle carceri: controllo e repressione delle persone più povere e vulnerabili.

Scrive Maya Schenwar, autrice di “Locked Down, Locked Out”, intervistata nel 2016 da LeftVoice, e da noi tradotta[3], “[Il carcere] gioca un ruolo chiave nel capitalismo, in particolare nel capitalismo statunitense (il numero totale di detenuti negli Stati Uniti rappresenta un quarto della popolazione carceraria mondiale, mentre la sua popolazione nazionale rappresenta solo il 5% della popolazione mondiale). Uno degli obiettivi del capitalismo è controllare la sovrappopolazione. Il capitalismo ha strutturalmente bisogno della povertà, ma deve regolarmente confrontarsi con la gestione di queste masse povere e lavoratrici. Per impedire che da queste masse possa sorgere un movimento di resistenza devono esistere modalità di repressione. La prigione è per molti aspetti una delle migliori modalità di repressione: non solo confina le persone dietro alle sbarre, ma taglia anche ogni contatto con l’esterno, rompendo così i legami che possono alimentare l’organizzazione e la ribellione.

 

Detenuti che cercano di far capire le proprie ragioni

Lo sciopero è dunque rivolto contro queste insostenibili condizioni di vita: blocco del lavoro, sit-in, sciopero della fame, varie forme di protesta sono state programmate per permettere a tutti i prigionieri, uomini e donne, di entrare in lotta, indipendentemente dalle loro situazioni personali. In considerazione della mancanza di comunicazione tra l’interno delle carceri e l’esterno, è molto difficile quantificare il numero di detenuti che prendono parte alle azioni. In base alle notizie che possediamo dovrebbero aver aderito i detenuti di almeno 17 Stati, e la protesta si sarebbe estesa anche alle prigioni del Canada.

 

Note

[1] http://www.revolutionpermanente.fr/Greve-historique-des-prisonniers-aux-Etats-Unis-A-chaque-detenu-de-ce-pays-nous-demandons-de-cesser

[2] Costituzione degli Stati Uniti, XIII emendamento, Sezione I.

[3] http://www.revolutionpermanente.fr/Enfoncer-les-barreaux-45-ans-apres-la-mutinerie-d-Attica

 

Iris Serant

Traduzione di Ylenia Gironella da Révolution Permanente

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.