Riflessioni sul marxismo e l’intersezionalità a partire dal libro di Ashley J. Bohrer. Come articolare le lotte contro le oppressioni e lo sfruttamento?


In Marxism and Intersectionality (2019), Ashley J. Bohrer cerca di far dialogare fra loro le teorie dell’intersezionalità e del marxismo. La tesi dell’autrice è che i dibattiti tra le due tradizioni tendono a polemizzare con “la versione peggiore” di ciascuna piuttosto che prendere in considerazione le loro elaborazioni più ricche. L’autrice ritiene che si debba distinguere tra le molteplici forme di intersezionalità e i diversi filoni del marxismo. E che, di fatto, si possa trovare un’affinità tra “il meglio” di entrambe le tradizioni, così come “il peggio” di entrambe, espresso attraverso le loro “caricature”.

L’autrice sostiene che, almeno nelle loro versioni migliori, queste teorie riflettono sulla relazione non meccanicistica tra razza, genere, classe e sessualità, così come su quella tra sfruttamento e oppressioni. E che, allo stesso tempo, entrambe sono orientate verso “pratiche di attivismo, agitazione e trasformazione”. Ciò significa, per l’autrice “che le questioni di strategia sono sempre centrali”.

In un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo libro, Bohrer riassume la sua proposta:

Se dovessi esprimermi nel modo più chiaro possibile, direi che il libro presenta un argomento molto semplice: un’analisi approfondita del capitalismo richiede idee e strumenti provenienti sia dalla tradizione marxista che da quella intersezionale.

In questo articolo passiamo in rassegna le tesi principali di Bohrer. Il filo rosso dell’autrice tra le due teorie sistematizza molti dibattiti, risultando, per questo, interessante come contributo. Inoltre, diverse definizioni sono efficaci, soprattutto per quanto riguarda le critiche errate che l’intersezionalismo spesso rivolge al marxismo, prendendo di mira la sua versione economicista e meccanicista. Tuttavia, non condividiamo le sue conclusioni sulla “necessaria complementarietà” tra marxismo e intersezionalità in diversi aspetti centrali. Questa idea, almeno così come viene presentata nel libro, tende a diluire importanti differenze teoriche, politiche e, soprattutto, strategiche tra le due tradizioni.

In diversi articoli abbiamo affrontato il dibattito sull’intersezionalità e il marxismo, sul rapporto tra capitalismo, patriarcato e razzismo, nonché alcuni recenti dibattiti su questi temi nel femminismo anticapitalista. Dal nostro punto di vista, si tratta di approfondire le basi teoriche di una pratica politica rivoluzionaria che miri ad articolare le lotte contro lo sfruttamento e tutte le oppressioni in una prospettiva emancipatoria. Con questo obiettivo, condividiamo la lettura critica del libro di Bohrer.

 

Storia e dibattiti tra marxismo e intersezionalità

Nella prima parte del libro, Bohrer passa in rassegna quella che considera “una storia condivisa” tra marxismo e intersezionalità, o alcune sue teorie antesignane, nel XIX e XX secolo. Nella seconda parte, sintetizza alcune delle critiche mosse alla tradizione intersezionale dall’interno del movimento marxismo, così come quelle mosse dalla tradizione intersezionale nei confronti del marxismo stesso. Infine, espone quelle che considera le vie di confluenza, analizzando questioni come il rapporto tra oppressione e sfruttamento, la dialettica e le contraddizioni. Bohrer vede la necessità di “ripensare il capitalismo” come un sistema che è “essenzialmente, logicamente e storicamente costituito sia dallo sfruttamento che dall’oppressione”. Nel suo libro si propone di dimostrare che “la maggior parte dei teorici riduce il capitalismo all’oppressione o allo sfruttamento”. Infine, affronta quello che considera il principale contributo strategico delle teorie dell’intersezionalità, quello che definisce una “politica delle coalizioni”. Torneremo su questo tema più avanti.

Come abbiamo detto, nel capitolo iniziale Bohrer sviluppa la tesi di una storia condivisa tra le due tradizioni. Nel XIX secolo, individua come precursori la maestra Maria Stewart, Sojourney Truth o Ida B. Wells Barnet. Wells Barnet. Combattenti afroamericane che combinarono la lotta abolizionista contro la schiavitù con la lotta per i diritti delle donne, in particolare delle donne lavoratrici. Per l’inizio del XX secolo, Bohrer prende come riferimento le elaborazioni di alcune militanti nere del Partito Comunista degli Stati Uniti, così come una più ampia tradizione della sinistra del movimento nero in tutto il mondo. Cita le esperienze di organizzazione di spazi per le lavoratrici nere, come la Harlem Women Day Workers League [lavoratrici domestiche] o la Harlem Tenants League [inquilini contro gli sfratti, scioperi degli affitti, ecc.] Spicca la figura di Louise Thompson, che in un testo del 1936 denunciò che il Bronx era stato trasformato in un “mercato degli schiavi” per le lavoratrici domestiche nere[1]. Bohrer recupera anche la figura di Claudia Jones, un’altra militante comunista, che negli anni ’30 introdusse l’idea della “tripla oppressione” e il concetto di “supersfruttamento” delle donne nere.

In questa sezione, tuttavia, va segnalata un’importante limitazione. Bohrer afferma di sfuggita che, secondo diversi autori, la politica del PC nei confronti delle oppressioni in questi anni fu “contraddittoria o oscillante”, ma non si sofferma sulla questione. Non rende conto, quindi, di ciò che lo stalinismo ha significato come un enorme blocco controrivoluzionario per una prospettiva che mirava a porre radicalmente fine allo sfruttamento e a tutte le forme di oppressione. Questa assenza nell’analisi non è affatto secondaria, perché non ci permette di comprendere gran parte dei dibattiti e anche i “malintesi” che si sarebbero sviluppati tra le prospettive intersezionali e il marxismo nei decenni successivi.

Proseguendo nel percorso storico, Bohrer recupera la figura di Francis Beal[2], attivista della Third World Women’s Alliance che alla fine degli anni Sessanta pubblicava la rivista Triple Jeopardy. Per Bohrer, queste elaborazioni potrebbero essere considerate antecedenti dell’intersezionalità, anche se diversi autori hanno sottolineato che si trattava di un modello “additivo” (come somma di oppressioni). Boher fa riferimento anche alle teorie del “punto di vista”, che si concentrano sull’idea che i gruppi oppressi abbiano un vantaggio epistemologico privilegiato nella comprensione della loro oppressione. Spiega che il rischio di questo tipo di posizione è di omogeneizzare troppo il gruppo oppresso, come se non ci fossero importanti differenze interne. Infine, dedica una sezione alle autrici che di solito vengono considerate legate all’intersezionalità, dalle posizioni del Combahee River Collective alla fine degli anni Settanta, al lavoro di Angela Davis, Audre Lorde e Benita Martínez.

Dopo questo percorso, Bohrer esamina le elaborazioni delle femministe nere americane che, a partire dagli anni Ottanta, hanno teorizzato l’intersezionalità utilizzando questo concetto. Sono spesso considerate le fondatrici di questa corrente, come Kimberle Crenshaw, Patricia Hill Collins e altre. La maggior parte di questi lavori è stata ampiamente diffusa in ambito accademico, in un periodo caratterizzato dal declino dell’attività e del radicalismo dei movimenti sociali e della classe operaia, che avevano avuto il loro peso nei decenni precedenti. Ciò spiega indubbiamente anche alcuni limiti di queste proposte.

Bohrer solleva diverse questioni centrali sull’intersezionalità: si tratta di un’ontologia o di una questione epistemologica, di un modo di descrivere l’esperienza delle oppressioni multiple, di un concetto o di una teoria, di un campo di studio o di una metodologia da applicare in diversi ambiti? L’unica cosa chiara, a quanto pare, è che esistono posizioni diverse su ciascuna di queste domande. Bohrer suggerisce quindi che l’intersezionalità è un insieme o una costellazione di teorie che si concentrano sulla relazione tra diverse oppressioni. Nonostante la loro eterogeneità, queste teorie potrebbero essere raggruppate in una tradizione comune perché rispondono a un principio generale: l’idea di equivalenza tra le oppressioni, di una relazione non gerarchica tra di esse.

Concordiamo sul fatto che questa è una questione centrale per definire i contorni delle teorie intersezionali, quindi è fondamentale approfondirla: cosa significa per l’intersezionalità l’idea di equivalenza tra le oppressioni? In che modo si differenzia dalla spiegazione marxista del rapporto tra sfruttamento e oppressioni? E quali conseguenze politiche ne derivano? Prima di affrontare queste domande, passiamo in rassegna i sei postulati che per Bohrer definiscono le teorie dell’intersezionalità.

I) L’inseparabilità delle oppressioni. Da questo punto di vista, le teorie dell’intersezionalità sfidano le teorie monoassiali. Un esempio è la critica delle femministe nere al femminismo radicale e, più in generale, a tutte le correnti femministe essenzialiste che tendono al “separatismo”. Le teorie intersezionali sostengono che le oppressioni sono interrelate e costruite reciprocamente. Questo è senza dubbio il punto di forza dell’intersezionalità e ciò che rende questa prospettiva attualmente attraente per coloro che non si sentono sfidati dalle correnti separatiste che dividono strategicamente gli oppressi gli uni dagli altri. In effetti, molti attivisti dei movimenti sociali odierni si considerano “intersezionali” nel senso progressista di cercare l’unità nelle lotte. È una sensibilità molto presente in ampi settori di giovani che si considerano anticapitalisti, transfemministi o antirazzisti, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno familiarità con tutte le formulazioni teoriche che sono state fatte dalle teorie dell’intersezionalità o dal marxismo.

II) L’idea che non possano esistere graduatorie o gerarchie tra le oppressioni. La tradizione intersezionale rifiuta l’idea che alcune oppressioni siano primarie, più importanti di altre, ecc. Questo in due sensi. Da un lato, l’idea che nessuna oppressione sia più importante di altre (ontologicamente, politicamente, ecc.) e, dall’altro, il postulato che nessuna sia causa unilaterale delle altre. Per Bohrer, ciò significa che nessun tipo di oppressione può essere considerato prioritario, nel senso che, risolvendolo, si risolveranno “automaticamente” tutti gli altri.

Questa tesi si pone soprattutto come monito a non subordinare la lotta contro le oppressioni ad altre motivazioni. Posizioni di questo tipo, che proponevano di “rimandare” le rivendicazioni dei neri contro il razzismo, o delle donne per i loro diritti, in funzione di certe alleanze politiche con le forze borghesi, sono state difese dai partiti comunisti stalinisti a partire dagli anni Trenta. Come denunciò il marxista trinidadiano CLR James, il Partito Comunista USA si legò completamente alla politica imperialista e alla macchina da guerra di Roosevelt verso la Seconda Guerra Mondiale, mettendo da parte qualsiasi accenno alla lotta di classe, alla lotta per i diritti civili o contro le oppressioni. Questo portò a un diffuso disincanto di molti attivisti neri nei confronti del Partito Comunista[3]. Da parte sua, lo stalinismo in URSS ha imposto una reazione a tutto campo contro gran parte dei diritti conquistati dalle donne negli anni della rivoluzione. Ciò contrasta con gli enormi passi in avanti che la Rivoluzione ha significato per le donne. Dall’approvazione dell’uguaglianza giuridica davanti alla legge, al divorzio incondizionato, al diritto all’aborto libero, alla depenalizzazione dell’omosessualità e della prostituzione, fino a una serie di misure volte a favorire la socializzazione del lavoro domestico. A questo scopo fu istituito lo Zhenotdel, una commissione speciale per il lavoro tra le donne operaie e contadine. Da qui fu promossa la creazione di asili nido, mense, lavanderie, scuole materne e scuole pubbliche per l’alfabetizzazione delle donne. Vengono elette delegate in tutto il territorio, affinché le donne siano protagoniste di queste sfide nella lotta per il socialismo. A partire dal 1936, però, con l’adozione della nuova Costituzione sovietica, la rotta fu invertita. Vennero aboliti diritti come l’aborto libero e venne sciolto lo Ženotdel, mentre lo Stato promosse un’ideologia che posizionava nuovamente le donne nella sfera privata, come “guardiane della casa” e della maternità.

Allo stesso modo, anche i partiti comunisti occidentali del dopoguerra chiedevano di mettere “in attesa” le lotte delle donne e dei settori più oppressi della classe operaia.
L’esempio del Partito Comunista Italiano del dopoguerra (che divenne il più grande PC dell’Occidente) è paradigmatico. Per un intero periodo ha abbandonato la lotta per il diritto al divorzio per ottenere un’alleanza con la Democrazia Cristiana.

È comprensibile, quindi, che alcuni dei movimenti sociali emersi negli anni Sessanta e Settanta nutrissero una forte diffidenza nei confronti del marxismo “ufficiale”, sulla base di questa esperienza con lo stalinismo. Tuttavia, come già notato, il libro di Bohrer non esamina la traiettoria dello stalinismo, il che indebolisce l’analisi complessiva.

Gli altri postulati delle teorie dell’intersezionalità sarebbero: III) La necessità di pensare simultaneamente alle diverse oppressioni, piuttosto che separatamente. Questo è collegato ai precedenti; sottolinea l’idea che non ci debba essere un primato di una su un’altra. IV) Per Bohrer, le teorie dell’intersezionalità danno importanza alla questione dell’identità e a come i soggetti, gli individui o i gruppi vivono le oppressioni. Secondo l’autrice, non si tratta di una base per privilegiare una tendenza alla “separazione”, ma piuttosto di una base per costruire una “coalizione”. V) Ritiene che l’intersezionalità non sia solo una teoria con un peso negli spazi accademici, ma che sia orientata all’attivismo. Infine, VI) ritiene che l’intersezionalità sia anche un’ontologia del potere, che ci permette di spiegare come opera il potere e allo stesso tempo è una critica del potere.

 

Sulle critiche incrociate tra intersezionalità e marxismo

Bohrer sostiene che, per la maggior parte, le critiche del marxismo all’intersezionalità non sono rivolte all’obiettivo, ma alle “versioni peggiori” dell’intersezionalità. In questo senso, giudica errate le critiche all’intersezionalità come teorie individualiste e postmoderne, riformiste e liberali, che non prestano attenzione alla questione della classe e non riescono a spiegare le cause delle oppressioni. Sull’affinità tra intersezionalità e postmodernismo[4] Bohrer sostiene che non tutte le teorie intersezionali si limitano alle esperienze individuali e che alcune concettualizzano a un livello più strutturale o di gruppo. Non concorda nemmeno sul fatto che l’attenzione si concentri solo su questioni di discorso o di linguaggio, per cui cita autori intersezionali che prendono esplicitamente le distanze dal poststrutturalismo. Tuttavia, riconosce anche che una delle autrici “fondatrici” dell’intersezionalità, Kimberle Crenshaw, ha sostenuto che questa teoria è legata alla teoria postmoderna. In breve, si può dedurre che esistono elaborazioni dell’intersezionalità più affini al poststrutturalismo, mentre altre ne prendono esplicitamente le distanze. All’argomentazione che si tratta di una teoria multiculturale o riformista, Bohrer risponde allo stesso modo: il fatto che ci sia una riappropriazione di questo tipo non invalida il corpo centrale dell’intersezionalità, poiché molti autori sono critici nei confronti del multiculturalismo liberale.

Ci sembra più rilevante concentrarci sulle ultime due critiche: quella secondo cui le teorie dell’intersezionalità sminuiscono l’importanza della questione di classe, e la critica per cui non riescono a spiegare le cause alla base dei meccanismi di oppressione e sfruttamento. In questo articolo sviluppiamo il nostro punto di vista sulla stessa linea.

Le teorie dell’intersezionalità tendono a enfatizzare la moltiplicazione degli assi di oppressione, ma allo stesso tempo spesso diluiscono l’analisi della classe, che considerano solo un’altra “oppressione“. O equiparando la classe a una categoria statistica di basso reddito, o riducendola a “classismo”, cioè ad atteggiamenti di discriminazione politica o culturale da parte dei gruppi dominanti. Sosteniamo inoltre che evidenziare le differenze tra sfruttamento e oppressione di classe non significa stabilire una gerarchia di lamentele o determinare quale sia più importante per l’esperienza soggettiva delle persone. Si tratta piuttosto di comprendere meglio il loro funzionamento nella società capitalista.

Ciò si ricollega alla questione della causalità. Diversi autori sottolineano che le teorie dell’intersezionalità falliscono proprio in questo, perché non riescono a fornire una spiegazione delle cause delle oppressioni, né della loro articolazione con lo sfruttamento. Analizzano o descrivono le loro interazioni, ma lo fanno come un “dato di fatto”. È così che, ad esempio, David McNally e Sue Ferguson hanno posto in contrasto l’intersezionalità con l’approccio della teoria della riproduzione sociale:

Sebbene la teoria dell’intersezionalità abbia sollevato importanti questioni e generato importanti intuizioni, tende a non spiegare perché queste molteplici oppressioni esistano e siano riprodotte nel tardo capitalismo, e a rendere conto del modo in cui interagiscono. Poiché il suo approccio è olistico e unitario, la teoria della riproduzione sociale è, a nostro avviso, potenzialmente meglio attrezzata in queste aree (McNally & Ferguson 2015).

Di fronte a queste critiche, la risposta di Bohrer non è convincente. Da un lato sostiene che la maggior parte degli oggetti di studio dell’intersezionalità si colloca nel XX e XXI secolo e quindi non si occupa delle origini storiche o delle cause delle oppressioni. Afferma inoltre che se le teorie intersezionali non forniscono una spiegazione più sistematica del funzionamento del capitalismo, è perché non è il loro oggetto. Fa anche una confutazione per assurdo, sostenendo che nessuno pretende che l’intersezionalità possa spiegare come si costruisce un ponte, o confermare se Cesare abbia o meno attraversato il Rubicone. E che, allo stesso modo, né l’intersezionalità né il marxismo dovrebbero essere tenuti a spiegare “l’intero universo e a sua volta ogni microevento al suo interno” (ibidem).

L’argomento non regge. Naturalmente, nessuno sostiene che l’intersezionalità e il marxismo spieghino ogni contingenza della storia, né tanto meno “l’intero universo”. Ma per una teoria sociale che si concentra sulle oppressioni multiple, è fondamentale spiegare le cause profonde che portano alla loro riproduzione prolungata. Questo è elementare se l’obiettivo è andare oltre la descrizione dei fenomeni, per cercare di trasformarli alla radice.

Ad esempio, se consideriamo le relazioni patriarcali, queste sono nate migliaia di anni fa, ma sono state riconfigurate dal capitalismo, come nel caso del razzismo o dell’omofobia.

Il femminismo socialista tiene conto di queste relazioni sistemiche tra oppressione e sfruttamento, nonché della relazione tra riproduzione sociale e produzione. Nel capitalismo, gran parte (ma non tutto) del lavoro di riproduzione sociale volto a riprodurre la forza lavoro su base quotidiana o generazionale viene svolto in casa. Si tratta di un lavoro non retribuito e generalizzato, svolto per lo più da donne, ma non riconosciuto come tale. L’ideologia della domesticità e della cura, così come l’insieme delle ideologie familiste, garantiscono il funzionamento di queste “officine nascoste” del capitale, secondo la definizione di Nancy Fraser. Allo stesso tempo, come hanno sostenuto diverse femministe nere, questa ideologia della domesticità non ha mai incluso pienamente le lavoratrici nere, che hanno lavorato fuori casa come schiave, serve o lavoratrici salariate, fin dagli albori del capitalismo. In altre parole, i meccanismi di oppressione non sono entità astoriche, ma hanno acquisito un contenuto sociale specifico nel quadro delle relazioni sociali capitalistiche.

Riprendendo gli argomenti di Bohrer, in un altro capitolo fa l’operazione inversa e affronta le critiche più frequenti al marxismo dalla prospettiva dell’intersezionalità. L’idea che il marxismo sarebbe un riduzionismo economistico, che impone un primato all’oppressione di classe su tutte le altre oppressioni – cosa che porterebbe a “rimandare” le loro richieste. Oppure l’argomento, simile alla critica postcoloniale, secondo cui il marxismo sarebbe eurocentrico e darebbe troppa priorità alla produzione rispetto alla riproduzione. La polemica con questo tipo di posizioni è stata affrontata in altri articoli. Non è il caso di tornarci ora, anche se è importante sottolineare che la maggior parte di queste critiche si basa su un’enorme ignoranza delle elaborazioni del marxismo o, come abbiamo già indicato, sull’amalgama diretta di stalinismo e marxismo. Da parte sua, Bohrer sostiene che in molti casi si tratta di pregiudizi basati sulla peggiore versione del marxismo. Ad esempio, a coloro che presentano il marxismo come un riduzionismo economistico, Bohrer fa riferimento ad alcuni scritti di Engels in cui polemizza con coloro che riducono le contraddizioni sociali all’aspetto puramente economico.

Bohrer conclude che la maggior parte delle critiche incrociate tra marxismo e intersezionalità sono dovute a un “fallimento della comunicazione”; come esempio che un avvicinamento più stretto potrebbe essere possibile, dedica un altro capitolo a quello che definisce un “marxismo queer, antirazzista e antimperialista”[5].

 

Sull’intersezione tra sfruttamento e oppressioni: politica di coalizione o egemonia?

Bohrer passa in rassegna diversi approcci al rapporto tra oppressioni e sfruttamento. Dalle correnti più economiciste, per le quali l’unico asse è la nozione di sfruttamento, a quelle che, nella prospettiva dell’intersezionalità, considerano lo sfruttamento come un’altra forma di oppressione. Di fronte a queste polarizzazioni, e con l’obiettivo di raggiungere un marxismo più intersezionale, o un’intersezionalità più anticapitalista, Bohrer propone la nozione di equiprimordialità (“equiprimordiality”). Questa, sostiene, permetterebbe di mantenere le differenze esplicative tra sfruttamento e oppressioni, ma di postulare un’equivalenza di priorità a livello strategico. E come si esprimerebbe questa idea? Attraverso una “politica delle coalizioni” e della solidarietà tra movimenti.

Torniamo al dibattito sul rapporto tra oppressione e sfruttamento: cosa significa ridurre l’una all’altro? Innanzitutto, diciamo che le oppressioni attraversano la classe operaia (oggi più che mai femminilizzata e razzializzata), ma allo stesso tempo costituiscono assi o poli di articolazione di movimenti propri (movimento femminista, antirazzista, LGBT+, ecc.), composti da settori di classe diversi e contraddittori. L’idea che lo sfruttamento sussuma tutte le oppressioni e che, quindi, le lotte che prendono queste come perno siano secondarie, non permette di rispondere alle enormi frammentazioni della classe operaia stessa, con l’obiettivo di raggiungere la sua unità. Ma una simile concezione economicista non permette nemmeno alla classe operaia di porsi come classe egemone in un’alleanza con il resto degli oppressi. Può farlo solo se fa proprie le rivendicazioni di tutti questi settori contro lo Stato e i capitalisti. Vale a dire, se riesce a superare la fase delle lotte economiche, sindacali o corporative per costituirsi come classe indipendente ed egemone.

Tuttavia, se affrontiamo la questione dal punto di vista opposto, per le teorie intersezionali lo sfruttamento tende a essere solo un’altra oppressione. Nel caso di Bohrer, pur mantenendo una differenziazione a livello teorico, tende a sminuirla quando passa al livello strategico. Ed è proprio in questo punto che riteniamo si trovi la maggiore debolezza delle proposte intersezionali, anche nelle loro “versioni migliori”. Perché questa “equiprimordialità” o equivalenza come principio generale della strategia diluisce il ruolo che la classe operaia può svolgere nell’articolazione dell’alleanza tra sfruttati e oppressi. E, strategicamente, il ruolo che può svolgere nel superamento di un sistema basato sullo sfruttamento di classe e sulle oppressioni multiple. L’idea di una “politica delle coalizioni” sembra implicare che queste alleanze saranno casuali, senza che la classe operaia vi svolga un ruolo preponderante. Un ruolo che, per il marxismo rivoluzionario, non si basa su alcun essenzialismo o riduzionismo di classe. Ma sul fatto che la classe operaia – femminilizzata e varia – occupa posizioni strategiche nella produzione e nella riproduzione. È quindi l’unica classe che può mettere in scacco l’intera produzione capitalista, ma che ha anche il potenziale per riorganizzare l’intera produzione e riproduzione su nuove basi, per forgiare un nuovo tipo di società.

La politica delle coalizioni, così come formulata nel libro di Bohrer, presenta diversi problemi. Innanzitutto, non sembra prendere sufficientemente in considerazione la questione che le oppressioni attraversano anche la classe operaia, come abbiamo sollevato in precedenza. È paradossale che, mentre l’intersezionalità solleva questo aspetto nell’analisi, sembra che, quando si sposta sul piano politico, ritorni a una sorta di strategia “additiva”.

Per dirla in modo più chiaro. La classe operaia deve intraprendere la lotta contro l’oppressione delle donne, contro il razzismo e l’omofobia secondo il principio che “nessuno è libero se non siamo tutti liberi“. Ma non si tratta solo di stabilire una “politica di coalizione” con i movimenti, ma anche del fatto che queste sono le rivendicazioni proprie di una classe operaia femminilizzata e diversificata.

In altre parole, nella maggior parte dei casi, non si tratta di richieste “esterne” alla classe operaia. Le lavoratrici (già oggi un 40-50% della classe) devono affrontare il maschilismo, le molestie sessuali, la violenza di genere o lottare per la socializzazione del lavoro domestico. Prendiamo il caso dei diritti riproduttivi. Il fatto che le organizzazioni della classe operaia, come i sindacati, difendano la lotta attiva per il diritto all’aborto libero non è solo per “allearsi” con il movimento delle donne (come se fosse completamente esterno). È anche perché milioni di donne lavoratrici si trovano di fronte al dilemma di dover abortire in condizioni malsane e clandestine, mentre le ricche possono farlo in cliniche private. In altre parole, si tratta della classe operaia che si fa carico delle richieste più sentite dei suoi settori più oppressi, come le donne, le identità razzializzate, i giovani. Naturalmente, accanto alle rivendicazioni più specifiche delle donne lavoratrici, come la lotta per la parità salariale o contro le molestie sessuali da parte dei padroni, ve ne sono altre che rappresentano richieste democratiche più ampie, come i diritti riproduttivi o la separazione della Chiesa dallo Stato, che riguardano anche settori della classe media. Infine, c’è un altro livello, in cui la politica egemonica assume la forma di una politica di “alleanze”, come nel caso dell’unità tra la classe operaia e i movimenti contadini o indigeni, o quando si propone l’unità tra il movimento operaio e quello studentesco, con il movimento ambientalista, e così via.

Allo stesso tempo, l’idea di una politica delle coalizioni non mette in discussione il fatto che all’interno dei movimenti vi siano interessi differenziati e persino opposti. Nel movimento femminista o in quello LGTB+, ad esempio, questo si vede chiaramente quando grandi aziende capitaliste come il Banco Santander o la Coca Cola mettono in atto politiche di “pinkwashing” o di femminismo liberale, finanziando iniziative, conferenze e ONG di ogni tipo, al fine di dare al movimento il proprio orientamento. Qualche anno fa, durante la giornata dell’8M, le lavoratrici della banca Santander hanno fatto un picchetto per garantire lo sciopero delle donne, ma la direzione della banca ha mandato la polizia. Anche il movimento delle donne è attraversato da contraddizioni di classe. D’altra parte, movimenti sociali molto massicci come Black Lives Matter negli Stati Uniti o il movimento delle donne nello Stato spagnolo, sono stati in gran parte disattivati tramite l’idea di sostenere elettoralmente il “male minore” contro la destra. L’azione del Partito Democratico, così come la coalizione “progressista” nello Stato spagnolo tra Podemos e PSOE all’interno di questi movimenti, dimostra che non è sufficiente proporre una politica di coalizioni, se non si difende una strategia di indipendenza e autorganizzazione di classe.

Infine, la politica delle coalizioni, se viene proposta solo come somma di movimenti, è insufficiente per sconfiggere il capitalismo. Come abbiamo sottolineato, tali coalizioni possono realizzare azioni di protesta e mobilitazioni comuni, persino lotte radicali. Ma se non si mettono in primo piano i metodi di lotta della classe operaia, come lo sciopero generale, se non si costruiscono organismi di auto-organizzazione e se non si difende un programma di indipendenza politica, articolato su una strategia socialista rivoluzionaria, difficilmente potranno andare oltre le lotte che “fanno pressione”. Se il compito che ci attende è quello di sconfiggere il capitalismo e le forze repressive dello Stato borghese, sarà necessario andare oltre e articolare una forza sociale capace di trionfare.

La classe operaia, femminilizzata e diversificata, è in una posizione speciale per guidare questa alleanza di tutti gli sfruttati e gli oppressi perché, come diceva Marx, ha solo le sue catene da perdere.
Liberandosi dallo sfruttamento capitalistico, può aprire la strada alla fine di tutte le oppressioni. Non perché queste oppressioni finiscano “automaticamente” e certamente non dopo la presa del potere. [10] Ma perché distruggerebbe le basi materiali che nella società capitalista impongono la loro costante riproduzione. Il compito di sradicare ogni accenno di oppressione patriarcale, razziale o sessuale può allora essere intrapreso in modo collettivo e auto-organizzato: una rivoluzione radicale della vita.

Il libro di Bohrer, come abbiamo notato all’inizio, ha il merito di discutere la tradizione dell’intersezionalità con il marxismo, evidenziando diversi punti di convergenza e divergenza. A nostro avviso, il marxismo rivoluzionario ha strumenti teorici e strategici di gran lunga superiori per comprendere le dinamiche della totalità capitalistica. E, soprattutto, per proporre il suo superamento.

 

Josefina L. Martínez

Articolo già comparso su Contrapunto

Note

1. Thompson scrive che lì le donne subiscono un “triplo sfruttamento” in quanto lavoratrici, donne e nere. Cfr. Thompson 1936.

2. Double Jeopardy: To Be Black and Female di Francis Beal è un testo pubblicato nel 1969.

3. “Il risultato fu immediato e inequivocabile. Dei suoi 2.000 membri [neri] nello Stato di New York, il Partito Comunista ha perso più dell’80%, e lo stesso è avvenuto in tutto il Paese” (Johnson 1939). Johnson era il soprannome di CLR James.

4. L’autrice prende come riferimento la critica di Delia Aguilar, che ha sottolineato come, nel passaggio dalle teorie della “triplice oppressione” alle formulazioni dell’intersezionalità, si sia perso un livello di materialità legato al capitalismo in quanto tale, a favore di teorie più inclini all’analisi discorsiva.

5. In questo campo include autori molto diversi tra loro, dagli autonomisti Toni Negri, Silvia Federici e Maria Mies, ai teorici subalterni indiani, ai rappresentanti del cosiddetto marxismo nero come Cedric Robinson, al marxismo queer di Holly Lewis o al marxista francese con affinità al trotskismo Daniel Bensaïd. Cita anche alcune elaborazioni classiche del femminismo socialista, come l’opera di Clara Zetkin, oltre alle opere di Marx ed Engels.

6. Nella sua Teoria della rivoluzione permanente, Lev Trotsky spiega questo aspetto affermando che, dopo la conquista del potere statale da parte della rivoluzione socialista, “per un periodo di durata indefinita, tutti i rapporti sociali si trasformano con una costante lotta interna. La società non fa che mutare pelle di continuo. Ogni fase della trasformazione deriva direttamente dalla precedente. Gli avvenimenti che si sviluppano conservano di necessità un carattere politico in quanto assumono la forma di conflitti tra i vari gruppi della società in trasformazione. Le esplosioni della guerra civile e delle guerre esterne si alternano ai periodi di riforme cosiddette pacifiche. Gli sconvolgimenti nell’economia, nella tecnica, nella scienza, nella famiglia, nei costui si verificano in un contesto di azioni reciproche tale che la società non può raggiungere una situazione di equilibrio. In ciò consiste il carattere permanente della rivoluzione socialista come tale” (Trotsky 1973: 61).

Riferimenti bibliografici

Bohrer A. J. (2019) Marxism and Intersectionality: Race, Gender, Class and Sexuality under Contemporary Capitalism. Bielefeld: Transcript.

Johnson J R (1939) The Negro Question. Socialist Appeal, III(59): 3. Disponibile a: marxists.org/archive/james-clr/works/1939/08/negro1.htm.

McNally D & S Ferguson (2015) Social Reproduction Beyond Intersectionality: An Interview. Viewpoint Magazine. Disponibile a: viewpointmag.com/2015/10/31/social-reproduction-beyond-intersectionality-an-interview-with-sue-ferguson-and-david-mcnally.

Thompson L (1936) Toward a Brighter Dawn. Woman Today, 6(1): 14, 30. Disponibile a: marxists.org/history/usa/pubs/wt/v1n02-apr-1936-women-today.pdf.

Trotsky L (1971)[1930] La rivoluzione permanente. Milano: Mondadori.

Questo articolo fa parte del numero 5, aprile 2023, della rivista Egemonia.

 

Nata a Buenos Aires nel 1974. È una storica (UNR). Autrice del libro Revolucionarias (Lengua de Trapo, 2018), coautrice di Cien años de historia obrera en Argentina (Ediciones IPS). Vive a Madrid. Scrive per Izquierda Diario.es e altri media e milita nella corrente femminista internazionale Pan y Rosas.