di Mia Siriani

Anche quest’anno si sta avvicinando il disdicevole momento delle tanto chiacchierate Prove Invalsi: schematici test a risposta multipla, di italiano e matematica, attraverso i quali il governo italiano ha “risolto”, almeno apparentemente, l’emergenza tanto acclamata dall’Europa di fronte a tanto sottosviluppo formativo. Questo è quello che ci hanno spiegato per giustificare l’approvazione della legge n. 176 del 25 ottobre 2007, ma nessun Europa ha chiesto l’obbligatorietà delle Invalsi, quanto invece il necessario ed imminente adeguamento del livello d’istruzione italiano a quello degli altri paesi europei. Chi vive dall’interno l’obbligo di impartire il test è consapevole dell’inutile e dell’inadeguato strumento di valutazione che la prova Invalsi rappresenta; essa non tiene conto delle svariate differenze legate al contesto scolastico di riferimento, dei percorsi educativi e d’istruzione pensati e progettati su misura per gli alunni; del percorso di sviluppo, cognitivo e didattico che si differenzia da studente a studente, dell’autonomia che, per legge, tutela ciascun insegnante sulle modalità nel conseguire il programma annuale. Come può, pertanto, un’unica ricetta risultare adattabile a tutti, valida e veritiera nel stabilire un risultato misurabile e standardizzato, tenendo conto delle tante variabili esistenti e sopracitate? Dietro alla scelta e all’utilizzo delle prove Invalsi si nasconde un uso ideologico del test: risulta così vincente una valutazione fondata sul nozionismo, un grave salto nel passato fino all’apprendimento mnemonico e sterile, presente durante i primi anni venti del secolo scorso, e un’impronta sempre più marcata della scuola italiana nella direzione di un pensiero unico (c’è solo una risposta giusta!). Dopo tanti traguardi raggiunti con il passare degli anni, è iniziato il tracollo dell’istituzione scolastica, culminato con l’arrivo della Buona Scuola renziana.

La scuola costruisce le proprie fondamenta su obiettivi formativi che vanno oltre la semplice didattica di base: sviluppare il pensiero divergente, stimolare allo spirito critico, elaborare ragionamenti complessi. Un quiz a risposta chiusa multipla può essere utile a misurare l’apprendimento mnemonico e nozionistico, ma non può tenere conto di abilità complesse quali la capacità di espressione, di produzione di un testo o dello sviluppo cognitivo e della crescita personale di ciascun alunno. Questo approccio rispecchia l’ideologia dominante che tende a rendere “impresa” l’istruzione, ottimizzando ciascun aspetto come parte di un’azienda, arrivando a ragionare in termini di “capitale umano”. La scuola che dobbiamo pretendere è quella che stimola alla creatività del pensiero, che fornisce un’occasione di crescita culturale e di incontro con l’altro, non una sorta di collegio in cui l’unico fine risulta l’addestramento al superamento di quiz a scelta multipla.

Un modello didattico standardizzato imposto dall’alto, come quello che ci stanno propinando gli ultimi governi, ha come unico fine il raggiungimento del successo formativo degli alunni che, diversamente da quanto si crede, vengono deturpati del diritto all’istruzione e trattati come i “consumatori” di una merce (l’istruzione stessa). Il sistema educativo viene subordinato in tal modo al sistema economico aziendale, incitando le istituzioni scolastiche alla competitività: l’associazione scuola-azienda permette di cogliere taluni aspetti che la nuova idea d’istruzione volge sempre di più ad una sorta di concorrenza sul mercato-scuola, alla rincorsa di chi punta a primeggiare e migliorarsi attraverso una stretta competizione tra istituti. Già la scelta americana di adottare le prove Invalsi ha dato riprova che tale concorrenza tra scuole alimenta solo la crescita delle diseguaglianze tra istituti definiti socialmente di serie A e quelle di serie B, coltivando i livelli di segregazione sociale già esistenti. Serve un imminente cambio di direzione, verso un’avanguardia educativa e formativa, non uno sterile strumento di controllo che impoverisce ancor di più il livello culturale delle generazioni future. Inoltre, se le prove Invalsi avessero il semplice compito di monitorare il funzionamento del sistema scolastico, non ci sarebbe stato bisogno di aderire ad esse con una legge che ne sancisce l’obbligo: tanti paesi infatti hanno rifiutato i test Invalsi a fronte dell’utilizzo del programma PISA (Programma per la valutazione internazionale dell’allievo, Programme for International Student Assessment), il quale fornisce un’idea generica riguardo alla qualità dell’istruzione in periferia e in centro città, al Sud o al Nord. Le Invalsi rappresentano per l’Italia l’ennesimo adeguamento a stili americani, l’adesione a scatola chiusa a prove standard, che inevitabilmente inducono ad un insegnamento standard e alla “creazione” di alunni standard. Non possiamo pertanto parlare di buona scuola, né di buon governo (dati i tagli continui al sistema scolastico), né tanto meno di qualità dato che la direzione presa porta all’adeguamento ad un modello standardizzato di individuo, non autonomamente pensante e non cosciente.

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