A ottant’anni dalla sua scomparsa, proponiamo una breve biografia politica di una grande figura storica del movimento comunista e rivoluzionario italiano, di un capo militare degli Arditi del Popolo che sconfissero a Parma gli squadristi fascisti, Guido Picelli.


Nasce il 9 ottobre 1889 a Parma, in borgo Giacomo Tommasini. Il padre Leonardo lavora come cocchiere presso una famiglia benestante, la madre Maria Melegari, portinaia, si spense due anni dopo la nascita del figlio. Dalle seconde nozze del padre nascono Camilla (1892) e Vittorio (1893). Quando finisce la scuola tecnica, Guido lavora come apprendista in una bottega di un orologiaio. Cresce in una città ribelle, divisa da un torrente e soprattutto dalla politica, un autentico laboratorio di lotte sociali dove si afferma (nei primi anni del Novecento) il sindacalismo rivoluzionario di Alceste de Ambris. Nel frattempo Picelli fugge da Parma, sogna di fare l’artista e per diversi anni calca i palcoscenici di provincia, recita in drammi popolari sotto improvvisati tendoni o nelle piazze. Ritornerà nella sua città qualche anno dopo per aprire un negozietto di orologiaio, ma soprattutto per dar vita ad una compagnia teatrale.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, le sinistre sono spaccate fra neutralisti e interventisti. Guido si schiera contro l’intervento militare, mentre il fratello Vittorio, divenuto braccio destro di Alceste de Ambris, appoggia il fronte interventista.
L’Italia entra in guerra il 24 maggio 1915. Nonostante la netta contrarietà per la guerra, Guido Picelli sente il dovere di partecipare come volontario della Croce Rossa, si arruola a luglio ma raggiunge il fronte con la sua unità solo nella primavera del 1916; partecipa come portaferiti alle battaglie del Sabotino e dell’Hermada, il suo coraggio e la sua dedizione gli faranno meritare un’onorificenza della Croce Rossa e la Medaglia di bronzo al valor militare. Nell’aprile del 1918 entra nell’Accademia militare di Modena su richiesta dei suoi superiori, ritorna al fronte con il grado di sottotenente poco prima dell’offensiva italiana su Vittorio Veneto che sancirà la fine delle ostilità.
Viene smobilitato nel febbraio del 1919, tornato a Parma entra nel Partito Socialista, che nelle elezioni di quell’anno ottiene il 32% dei voti ma rifiuta di governare con popolari e liberali.
Il periodo che passerà alla storia come “Biennio Rosso” è caratterizzato da mobilitazioni contadine, manifestazioni operaie, scioperi, scontri, occupazioni di terre e di fabbriche. Contro la volontà del Partito Socialista, Picelli costituisce nel febbraio del 1920 le Guardie Rosse di Parma, formazione unitaria di autodifesa operaia; contro la politica colonialista giolittiana, bloccano un convoglio militare in partenza per l’Albania, i soldati sparano e feriscono uno dei suoi uomini. Denunciato per sovversione, Picelli viene arrestato il 13 luglio. Durante la sua prigionia, cresce e si rafforza in tutta Italia il movimento fascista. In occasione delle elezioni politiche tenutesi il 15 maggio 1921, Guido Picelli ottiene 20 mila voti di preferenza. Eletto deputato nelle file dei socialisti, viene scarcerato. Per combattere lo squadrismo fascista ormai dilagante, nell’estate dello stesso anno Picelli fonda gli Arditi del popolo di Parma. Nello stesso periodo rinuncia al grado di ufficiale dell’Esercito, viene più volte denunciato per i suoi scritti e le sue azioni in difesa del proletariato. Contrario alla firma del “patto di pacificazione” con i fascisti, si dimette dal Partito Socialista. Nonostante la contrarietà dei capi degli organismi politici e sindacali, per oltre un anno gli Arditi parmensi tennero testa alle camicie nere con una continua ed incessante attività difensiva ed offensiva.

In seguito all’inasprirsi delle violenze fasciste contro le organizzazioni e le sedi del movimento operaio e democratico, l’Alleanza del Lavoro (costituitasi sotto la pressione delle masse) proclamò lo sciopero generale il 31 luglio 1922. Alle prime minacce di rappresaglia dei fascisti, venne fatto cessare ovunque… ma non a Parma.
All’alba del 2 agosto affluiscono nella città ducale circa 10 mila squadristi. Il Comando degli Arditi appena ebbe notizia del loro arrivo convocò d’urgenza i capi squadra e capi gruppo e dette loro disposizioni per la costruzione immediata di sbarramenti, trincee, reticolati, con l’impiego di tutto il materiale disponibile. La popolazione operaia scese per le strade, impetuosa con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi, per divellere pietre, selciato, rotaie del tram, scavare fossati, erigere barricate con carri, banchi, travi, lastre di ferro e tutto quanto era a portata di mano. Dopo tre giorni di combattimenti, le truppe guidate da Balbo devono battere in ritirata lasciando sul campo trentanove morti e centocinquanta feriti. Cinque sono i caduti tra i valorosi difensori di Parma.
L’idea del “fronte unico” che unisce per la prima volta anarchici, comunisti, socialisti e repubblicani, si rivela trionfale ma viene ugualmente avversata dai leader delle sinistre. Dalle pagine del suo giornale “L’Ardito del Popolo”, il primo ottobre del ‘22 Guido Picelli lancia un appassionato appello per la costituzione dell’Esercito rosso in grado di insorgere e di combattere per la libertà.
Un appello che non verrà raccolto, la grande occasione mancata dell’antifascismo italiano.
Lo stesso Lenin criticherà Amedeo Bordiga, chiuso nel suo settarismo alle istanze di Picelli e degli Arditi del popolo.

La marcia su Roma e la successiva nomina di Mussolini presidente del Consiglio non fermano l’azione di Picelli che nello stesso anno scioglie gli Arditi e costituisce un’organizzazione clandestina chiamata “Gruppi segreti d’azione”. Le autorità di polizia stendono allarmanti rapporti sulla sua attività, è costantemente pedinato e spiato. Nell’aprile del 1924 si svolgono le elezioni politiche, i fascisti ottengono la maggioranza in un clima di violenze e abusi. Picelli viene rieletto con i soli voti dei compagni dell’Oltretorrente nella lista di Unità Proletaria formata dagli aderenti alla Terza Internazionale e dai comunisti. Si ribella al decreto di Mussolini che abolisce la Festa dei lavoratori e il 1° maggio entra in Parlamento con una grande bandiera rossa che inalbera sul pennone di Montecitorio. Come deputato viaggia per il Paese per incontrare segretamente i compagni e organizzare la struttura insurrezionale clandestina, neanche le imboscate delle camicie nere riescono in alcun modo a placarlo.
Dopo il fallito attentato al duce, vengono sciolti tutti i partiti politici e dichiarati decaduti i deputati, è così sopresso l’ultimo residuo di democrazia in Italia. L’8 novembre 1926 Guido Picelli viene arrestato insieme a tanti altri leader antifascisti, dopo dieci giorni (senza indagini e senza processo) una commissione di gerarchi lo condanna a 5 anni di confino. Viene inizialmente confinato a Lampedusa, nel marzo del’27 è trasferito a Lipari: un inferno nel quale i confinati patiscono la fame e le continue violenze dei carcerieri e dei militi fascisti.
La compagna Paolina, conosciuta durante un viaggio in Svizzera, ottiene dalle autorità il permesso di sposarlo e lo raggiunge sull’isola dove il 10 marzo ha luogo il matrimonio. Alla fine del 1927 Picelli viene deferito al Tribunale speciale per ricostituzione del Partito Comunista, rimarrà imprigionato nel carcere di Siracusa per nove mesi in attesa di giudizio. Prosciolto dalle accuse viene ricondotto a Lipari.
Per poco non riesce ad attuare la fuga; l’evasione riesce a Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti nel luglio del 1929, una beffa al regime che ha un’eco internazionale. Sempre con l’accusa di ricostituzione del Partito Comunista, nel 1930 è incarcerato a Milazzo per 70 giorni. Viene prosciolto e di nuovo confinato a Lipari.
Il 9 novembre 1931 Picelli viene rilasciato. Ha il permesso si raggiungere a Milano la moglie Paolina, lì ha modo di vedere la tremenda crisi economica che costringe i proletari a mendicare la minestra e il pane presso caserme e monasteri.
Nel febbraio del 1932 riesce a fuggire da Milano con l’aiuto di Soccorso rosso e attraverso la Svizzera raggiunge Parigi. Per incarico del Partito Comunista, gira la Francia svolgendo un intenso lavoro di propaganda; tiene conferenze e comizi a Lione, Marsiglia, Tolone e in altre città dove la sua forza di agitatore provoca animate discussioni. La sua attività politica non sfugge alla polizia francese, viene arrestato ed espulso dal paese. Inseguito dalla pressante attenzione dell’Ovra, raggiunge il Belgio. Nella provincia del Borinage continua il suo lavoro di agitazione politica tra i minatori impegnati da tempo in una dura lotta. Arrestato, viene espulso anche dal Belgio.
Con Paolina (attraverso il Lussemburgo) raggiunge Berlino dove è atteso nella sede del Comintern per l’Europa occidentale.
Il 21 agosto 1932, Picelli lascia un paese sull’orlo del baratro, che ricorda l’Italia di dieci anni prima, e si imbarca ad Amburgo assieme alla moglie sulla motonave russa Sibir. Arrivano a Mosca esattamente cinque giorni dopo, il Partito alloggia la coppia italiana non nell’hotel dei dirigenti, il Lux, ma nella stanza n°8 del modesto albergo Majak. Guido Picelli, due volte deputato e importante dirigente politico durante la segreteria di Gramsci, viene mandato a lavorare nella fabbrica Cuscinetti a sfera – Kaganovic come apprendista nel reparto limature.
Accetta in maniera disciplinata l’incarico anche se vorrebbe seguire i corsi dell’Accademia militare dell’Armata Rossa “Michail Frunze”, come gli era stato promesso dal Partito, che invece continua a tenerlo in fabbrica. Il salario è basso, il lavoro pesante e vive con la moglie in una stanza minuscola. Paolina si arrangia dando lezioni private di italiano. Nel maggio del 1933, Picelli decide di scrivere a Ercoli (Palmiro Togliatti) chiedendo ancora una volta di entrare all’Accademia militare. La lettera non ha risposta. Ma Gallo (Luigi Longo) si muove di sua iniziativa per fargli ottenere un incarico, seppur saltuario, alla Scuola leninista internazionale.
Al Club degli internazionali Picelli torna ad occuparsi di teatro, mettendo in scena un suo testo sulle Barricate di Parma, spettacolo che viene replicato con successo nelle fabbriche. Scrive e rappresenta altri due lavori, “Gramsci in carcere” e “La Spagna in fiamme” sulla rivolta delle Asturie dove interpreta il ruolo profetico del combattente indomito che cade colpito dal nemico.

Nell’autunno del 1934, inaspettatamente, Picelli viene licenziato dalla Scuola leninista e viene cancellato il corso di tattica e strategia militare che teneva. Il 1° dicembre dello stesso anno, in circostante mai chiarite, viene assassinato a Leningrado Sergej Kirov, un dirigente neo-eletto nel Comitato Centrale che godeva di una grande popolarità. E’ il pretesto, da parte di Stalin, per scatenare una dura repressione contro l’opposizione. Ed in questo clima gravido di oscuri presagi viene sospettato anche Picelli. Il 20 marzo 1935 il Comintern gli impone il ritorno in fabbrica e gli revoca l’incarico nella segreteria organizzativa del VII Congresso del Comintern, inoltre sopprime una sua missione segreta in Svizzera, paese dal quale avrebbe dovuto dirigere e organizzare la struttura clandestina del Partito Comunista in Italia. Sarà solo l’inizio.
Nei primi mesi del 1936 viene accusato di aver organizzato nella sua abitazione di Mosca una riunione “frazionista”, il Comitato politico di fabbrica lo accusa di essere stato un ufficiale monarchico durante la Grande Guerra, lo definiranno un “frazionista e servo della borghesia”.
Guido Picelli reagisce con coraggio all’imminente processo politico, anticamera della deportazione, con una lettera durissima indirizzata al Comitato di fabbrica: “Si è detto che io non sono un operaio, ma un ufficiale di chissà quale origine sociale. No, io sono un operaio e figlio di operai. Chiedete di me alle masse lavoratrici di tutta l’Emilia, del proletariato di Roma e di gran parte dell’Italia.
Sfogliate qualche giornale del lungo periodo di lotte che va dal 1919 al 1926; quando dal Parlamento, dalla piazza, dalle barricate, io mi battevo contro la guerra, contro il fascismo, per il pane, per la libertà della classe operaia e per la difesa dell’URSS”.
Nel luglio del 1936 il Fronte Popolare spagnolo, vincitore delle elezioni, viene minacciato da un colpo di Stato del generale Francisco Franco e molti rifugiati vogliono partire per la Spagna. Al Comintern, Palmiro Togliatti e Antonio Roasio decidono chi tra gli italiani potrà lasciare l’Unione Sovietica. Alcuni riescono a partire, altri vengono deportati in terre lontane, nell’est.

Il 14 ottobre 1936, Picelli riesce a lasciare l’Urss come capogruppo di altri compagni che partono per la Spagna. Arrivato a Parigi incontra Michele Donati, che insieme ad altri dissidenti gli fa conoscere Jùlian Gorkin del POUM (Partit Obrer d’Unificaciò Marxista). Raggiungerà assieme a loro Barcellona dove nella sede del Partito, all’Hotel Falcon, conoscerà il leader Andreu Nin, già segretario di Trotsky, il quale gli offre il comando di un battaglione. Il vecchio compagno e amico Ottavio Pastore, viene mandato in missione a Barcellona per convincere Picelli ad aderire alle Brigate Internazionali. Pur consapevole dei rischi che ormai corre dopo i suoi contatti con il POUM accetta l’offerta di comandare una formazione italiana dove si sono arruolati molti dei suoi Arditi del popolo di Parma.
Gli verrà affidato il comando del 9° Battaglione delle Brigate Internazionali, 500 uomini. In seguito verrà inglobato dai commissari politici stalinisti nel “Garibaldi”, verrà accolto con grande entusiasmo.
La prima vittoria repubblicana sul fronte della difesa di Madrid è opera di Picelli che con un’azione fulminea sfonda le linee nemiche conquistando Mirabueno e catturando decine di franchisti. Ma a battaglia conclusa la vittoria è funestata dal fuoco amico dei caccia russi che provocano sei morti mitragliando inspiegabilmente i garibaldini, i commissari politici fanno circolare la voce (del tutto infondata) che Picelli sia il responsabile
dell’errore dei piloti russi. In quei giorni sono in molti ad esser preoccupati del suo destino, come testimonieranno sia il comandante Gustav Regler che Randolfo Pacciardi nelle loro memorie. Il 5 gennaio 1937, alla testa di due compagnie del Garibaldi, Guido Picelli attacca la collina El Matoral, nei pressi di Algora, cogliendo di sorpresa i franchisti. Molti vengono catturati mentre altri fuggono verso lo sperone scosceso e fortificato del San Cristòbal che Picelli subito decide di attaccare. Pochi istanti dopo, ai piedi del San Cristòbal è colpito alle spalle, all’altezza del cuore. Non viene soccorso. Il corpo abbandonato sul campo, viene ritrovato solo il giorno dopo dall’amico e ufficiale del Battaglione Garibaldi, Giorgio Braccialarghe. In quelle giornate, l’elenco della Compagnia di Picelli finirà “inspiegabilmente” nelle mani dei servizi segreti franchisti. Gli verranno tributati ben tre funerali di Stato. A Madrid l’orazione funebre è tenuta da
Giuseppe Di Vittorio, l’amico che nel 1922 era stato Ardito del popolo a Bari. A Valencia intervengono alle esequie alti esponenti del governo repubblicano. Al funerale di Barcellona partecipano decine di migliaia di persone, i giornali parlano di oltre 100 mila persone; in testa al corteo c’è il generale sovietico Vladimir Antonov- Ovseenko, il bolscevico che nel 1917 guidò l’attacco al Palazzo d’Inverno.

Verrà richiamato in patria, arrestato e giustiziato. Ad un anno dalla sua morte, alti ufficiali delle Brigate Internazionali proposero di conferirgli l’Ordine di Lenin, la più alta onorificenza sovietica. Ma Antonio Roasio, dell’Ufficio quadri del Comintern e commissario politico del Battaglione Garibaldi, si premurò di stilare un rapporto destinato a screditare la memoria di Picelli. Un rapporto basato unicamente su fonti indirette. Non sarà nemmeno questo ultimo tradimento a scalfire la figura limpida del grande rivoluzionario che Guido Picelli fu.
Una vita dedicata alla difesa ed al rilancio del proletariato internazionale, negli anni più tragici.
Chiudo con un suo aforisma “…vi è una legge umana naturale e di giustizia, che spinge tutti i popoli oppressi ad unirsi, affratellarsi, al di sopra dei confini, delle barriere! Non vi sono…reazione o fascismo, che possano imporre le barriere alle idee di libertà e d’uguaglianza… malgrado le proibizioni, passano i confini, vanno aldilà dei monti e degli oceani, conquistano gli stati, le città, i villaggi, e come la luce e l’aria penetrano ovunque e nessuna forza può contenerle!”

 

Roger Savadogo

Nato a Venezia nel 1988, vive a Brescia. Operaio, è studioso e appassionato di sottoculture giovanili, ultras e skinhead in particolare.