Pubblichiamo la prima metà di un breve saggio che indaga i temi scientifici, tecnologici, antropologici legati al capolavoro cinematrografico Blade Runner. Qui la seconda parte.


BladeRunner di Ridley Scott, uscito per la prima volta nel 1982, è ormai generalmente considerato tra le fila dei cult, destino condiviso da molti altri film che al momento dell’uscita non sono stati accolti troppo bene dalla critica. A tale legge nemmeno Scott è sfuggito: «Blade Runner si adatta perfettamente a Ford, il cui modo di recitare sta all’arte come la materia all’antimateria»,1«una gran confusione, almeno dal punto di vista narrativo»2 e si potrebbe continuare con citazioni da giornali e riviste specializzate d’epoca.3 Tuttavia uno studio attento di Blade Runner indica come la pellicola non solo sia ben ancorata alla storia della scienza e della tecnica del mondo contemporaneo e a quella della letteratura e della cinematografia fantascientifiche, ma anche come Ridley Scott, tra la prima uscita del film e la versione del 1992, Director’s Cut, attraverso pochi ma significativi accorgimenti sia riuscito a sviluppare la propria Weltanschauung, riflettendo sull’evoluzione sociale e tecnologica intercorsa tra le due pellicole nel mondo reale. Per analizzare al meglio Blade Runner bisogna muoversi su differenti piani. Anzitutto è necessario concentrarsi sull’interazione tra alcuni fattori: l’ontologia primaria (OP) da cui nasce il racconto, l’estensione ontologica interna al racconto (ES) e l’intensificazione tecnologica (IT), seguendo le indicazioni di Bandirali e Terrone nel volume Nell’occhio del cielo: teoria e storia del cinema di fantascienza. Tali fattori sono categorie utili per studiare la narrativa e la cinematografia fantascientifiche: OP indica gli esseri del mondo reale – comprensivi dei prodotti tecnologici- in cui l’autore di un racconto o di un film fantascientifico vive, ES indica gli esseri propri del mondo fantascientifico (alieni, mutanti, automi, ecc.) ed IT la tecnologia che in parte o del tutto rende possibile il proliferare di esseri in una determinata narrazione fantascientifica. La presenza dell’intensificazione tecnologica correlata ad un’estensione ontologica distingue la narrazione fantascientifica da quella fantastica, in cui non vi è la necessità di una giustificazione scientifico-razionale degli esseri in sovrannumero rispetto al mondo reale, rendendo così il racconto fantascientifico tanto più verosimile quanto più l’intensificazione tecnologica ha un legame con la scienza e la tecnica del mondo reale e produce l’estensione ontologica della narrazione. Bisognerà inoltre indagare l’intertestualità di Blade Runner, analizzando alcune fonti di R. Scott ed il suo rapporto con la storia del cinema, del fumetto e del romanzo fantascientifico, nella misura in cui la prospettiva negativa della sua opera si accompagna al «”postmodernismo” di Blade Runner [che] tende ad esaurirsi nella rete del suo gioco intertestuale, in quelle “strizzatine d’occhio” destinate allo spettatore attento».4

Ontologia primaria e secondaria in Blade Runner

La scienza e il suo impatto sociale negli ultimi venti anni del XX secolo si sviluppano velocemente, producendo effetti di diverso segno etico: l’informatica e le ICT hanno dato luogo a una «quarta rivoluzione industriale».

Le ICT sono dispositivi che comportano trasformazioni radicali, dal momento che costituiscono ambienti in cui l’utente è in grado di entrare tramite porte di accesso (possibilmente amichevoli), sperimentando una sorta di iniziazione. Non vi è un termine per indicare questa nuova forma radicale di costruzione, cosicché possiamo usare il neologismo di riontologizzazione.

Luigi Cimmino,Umanesimo e rivolta in Blade Runner, Milano, Rubettino, 2015, p.86.

Le tecnologie legate alla trasmissione dell’informazione non hanno potuto che legarsi alle nuove concezioni del mondo sviluppatisi con l’avanzamento delle scienze biologiche. Negli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo, infatti, si fa sempre più strada, anche nella comunità scientifica, l’idea della generazione di un uomo perfetto che, vivendo in un mondo perfetto, può massimizzare le proprie capacità e questo grazie ad un confine sempre più labile tra uomo e tecnologia. Si pensi, ad esempio, al progetto Biosfera II e al grande dibattito sulla clonazione. L’idea di Biosfera II nasce in Provenza nel 1982: a partire dalle suggestioni dell’architetto Phil Hawes, John Allen, Mark Nelson e Margeret Augustine decidono di fondare una venture capital per creare, nei pressi di Tucson, una zona completamente isolata con clima e vegetazione controllate, pure, dove vivere per due anni di auto sussistenza, dimostrando così di poter generare artificialmente un ambiente purificato e riproducibile, che garantirebbe salute migliore e una maggior longevità agli esseri umani. Nell’architettura di questo ambiente controllato particolare importanza ha l’edificio di sorveglianza dell’esperimento contenente tutti i computers, chiamato mission control: «grande importanza hanno i temi della comunicazione: flussi d’informazione, rete, villaggio globale dell’umanità. […] Il computer come strumento principale della mission control»5

L’intelligenza artificiale che assicura tutti i feedback della cibernetica. Meglio ancora: intelligenza umana e artificiale convergenti in un cervello duale, creanti un’intelligenza di tipo superiore, una sorta di intelligenza ecologica, includente la spontaneità dei sensori animali. Nuovo sistema nervoso massivo. Elogio illimitato dell’intelligenza artificiale, vista come scienza dell’autoapprendimento.

L.Sfez, Il sogno biotecnologico, op. cit., p. 64.

Per quanto riguarda la clonazione, già nel 1969 il biologo molecolare Robert Sinsheimer dichiara, a proposito delle nuove scoperte riguardanti il DNA, che «per la prima volta nella storia, a cominciare dai tempi più remoti, una creatura vivente comprende le proprie origini e può cominciare a disegnare il proprio futuro».6 Sono note le polemiche politiche ed etiche derivanti dalla clonazione della pecora Dolly rispetto la possibilità di clonazione umana, anche e soprattutto a scopi riproduttivi/eugenetici e terapeutici, tanto da fare tuonare J.P Renard contro «il sogno ultimo di perfezionarci biologicamente»7 attraverso la tecnologia. Sia dal lato dell’ambiente circostante che da quello della ricerca sulla biologia dell’individuo la scienza tende a far convergere sempre più tecnologia e vivente: il punto d’incontro tra i due domini si ha finalmente nel visionario – e inquietante- Cristopher Langton del Santa Fé Institute e nel dibattito sull’Artificial Life. Nel 1987, a Los Alamos, Langton apre il primo dibattito sull’Artificial Life spiegando che

la vita artificiale può contribuire alla biologia teorica, collocando la vita come la conosciamo nel quadro più grande della vita come potrebbe essere. […] Il processo dinamico che costituisce la vita descrive quello che noi possiamo riconoscere come vita attraverso questo processo medesimo, senza riferirci alla materia

L. Sfez, Il sogno biotecnologico, op. cit, p. 70.

Non più la materialità, dunque, connota il vivente, bensì il processo delle sue funzioni: ne deriva che anche un robot può essere considerato vivente, nella misura in cui può replicare i processi di un vivente. Se è così «la vita artificiale, come quella naturale, non è contenuta in una semplice macchina, biochimicamente complessa, ma deve essere vista piuttosto come un’ampia popolazione di macchine relativamente semplici, in interazione».8 Interessanti, a proposito del progetto dell’Artificial life, le riflessioni del ricercatore danese Steen Rasmussen, il quale spiega che 1) un computer universale, a livello della macchina di Turing, può simulare un processo fisico; 2) la vita è un processo fisico; 3) esistono criteri per cui noi siamo capaci di distinguere organismi viventi e non; 4) un organismo artificiale deve percepire una realtà R2, per lui altrettanto reale che la nostra realtà R1; 5) si può comprendere qualcosa in più di R1 a partire dalla comparazione con R2.9 In sostanza Langton e Rasmussen ipotizzano la creazione di una vera e propria realtà parallela e coesistente a quella nostra, umana, con criteri sempre più labili per discernere tra le due: insomma, i due ricercatori parlano proprio di una «riontologizzazione» della realtà. Non si può fare a meno che pensare ai replicanti di Blade Runner e al test Voigt-Kampff che, nel film, è utilizzato per distinguere i replicanti dagli umani e che ricorda molto il test di Turing. Quest’ultimo, infatti, si basa su un operatore che, attraverso una telescrivente, pone una serie di domande mentre in un’altra stanza vi sono un computer ed un uomo che gli rispondono. Se l’operatore non riesce a distinguere le risposte dell’uomo e della macchina, la macchina supera il test.

L’ontologia primaria che è da prendere in considerazione rispetto al film Blade Runner non è solo quella resa disponibile dallo sviluppo scientifico, ma anche quella più legata alle tecniche cinematografiche. E’ noto che Blade Runner è ispirato a numerose fonti letterarie, soprattutto al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? scritto da Philip K. Dick nel 1968. L’autore del romanzo, all’uscita del film, sarà pienamente soddisfatto della traduzione cinematografica del suo scritto, come riporta una sua lettera a Jeff Walker: «this is not escapism; it is super realism, so gritty and detailed and authenitic and goddam convincing».10 In una lettera a Kris Hummel del 12 gennaio del 1982, Dick scrive

Kris, I haven’t yet seen the film in complete form, but I did see about 20 minutes of it, and it is super; I’m not kidding. The opening scene is simply beyond belief. It is likely that in late February we’ll be shown a rough cut of total film…but they are running behind schedule, I understand. Blade Runner is truly a dynamite film.

Philip K. Dick, Lettere a Kristin Hummel, in Lo sguardo degli angeli, op. cit., p. 139.

Questo effetto di super realismo e di magnificenza del film su Dick, sin dalle prime scene, è anche frutto della specifica traduzione del linguaggio letterario in quello cinematografico. Tra 1977 ed il 1989 si assiste «a un importante rinnovamento tecnologico del dispositivo cinematografico […]. L’ambito sonoro è il più rivoluzionato: la possibilità offerta dal sistema Dolby di esaltare il più piccolo dettaglio, e la ricchezza espressiva che si apre con la riproduzione multipista, coinvolgono lo spettatore in un’inedita esperienza audiovisiva».11 Ora, se è vero che la maggior concretezza e la materialità del cinema, rispetto alla letteratura, fanno sì che nella fantascienza cinematografica vi sia «una relazione molto più stretta fra ontologia primaria e secondaria»,12 è evidente che un aumento delle tecniche e delle capacità espressive audiovisive non possano che render più verosimile il film di fantascienza. Basti qui una breve analisi della colonna sonora di Blade Runner approntata da Vangelis, detto lo «Tchaikovsky elettronico del suo tempo». Vangelis, che ebbe a dire «music is spiritual, painting is physical, I need themboth»,13dà una grande importanza al legame tra musica ed immagini, come del resto Scott. La novità della musica elettronica, accompagnata dal sistema Dolby, fa sì che sin dalle prime scene panoramiche sulla Los Angeles del 2019 si abbia l’impressione che la città sia uno dei protagonisti del film: «BladeRunner è il primo film in cui la società futura è dipinta come un ambiente invece che come il negligente e negletto supporto per una storia convenzionale con gadget tecnologici».14 Il «super realism» di Blade Runner, come ha scritto Dick, deriva dalla convincente relazione tra OP-ES-IT presente nel film, che non si avrebbe con un’esagerata proliferazione dell’ontologia secondaria. Questo iper-realismo cinematografico, tuttavia, è reso possibile a scapito di alcuni elementi del romanzo dickiano già citato, in cui «per tutto il primo capitolo Rick Deckard e la moglie, Iran, vengono presentati come esseri che dipendono dalla tecnologia persino per provare emozioni»,15 infatti

a parte le macchine volanti e le interfacce vocali per la manipolazione fotografica, il film non introduce i soliti gadget tecnologici immancabili nelle altre opere di fantascienza (per esempio, le armi utilizzate nel film funzionano con pallottole e non raggi). Anzi, si potrebbe dire che gli oggetti del ventunesimo secolo hanno sofferto una sorta di arretramento stilistico di circa cent’anni.

C. Scolari, Come lacrime nella pioggia acida, in Lo sguardo degli angeli, op. cit., p. 156.

Matteo Pirazzoli

Note

 1. Jay Scott, Blade Runner a Cut Above the thing, in «The Globe and Mail», 26/06/1982.

 2. Janet Maslin, Screen futuristic Blade Runner, in «The New York Times», 25/6/1982.

3. Cfr. Paolo Beretti e Carlos Scolari, Appendice, in, Lo sguardo degli angeli, a cura di P. Bertetti e C Scolari, Torino, Testo&Immagine, 2002, pp. 244-261.

4. Ivi, p. 169.

5. Lucien Sfez, Il sogno biotecnologico, a cura di Giorgio Celli, Milano, Mondadori, 2002, p. 68.

6. Ivi, p. 22.

7. Ivi, p. 52.

8. Ivi, p. 71.

9. Cfr. Ibidem.

10. Cfr. Luigi Cimmino, Umanesimo e rivolta, op. cit., p. 17.

11. Luca Bandirali, Enrico Terrone, Nell’occhio del cielo: teoria e storia del cinema di fantascienza, Torino, Lindau, 2008, pp. 185-186.

12. Ivi, p. 27.

13. Cfr. Luigi Cimmino, Umanesimo e rivolta, op. cit., p. 147.

14. P. Bertetti, Da Los Angeles a Evrytown, in Lo sguardo degli angeli, op. cit., p.173.

15. Marisa Merlos, Sogni di immortalità: il mito dell’automa, in Lo sguardo degli angeli, op. cit., p. 133.

La Voce delle Lotte ospita i contributi politici, le cronache, le corrispondenze di centinaia compagni e compagne dall'Italia e dall'estero, così come una selezione di materiali della Rete Internazionale di giornali online La Izquierda Diario, di cui facciamo parte.