L’evoluzione della classe lavoratrice, sempre più femminile, dà un grande impulso per recuperare alcuni dei contributi strategici di Lenin alla lotta per l’emancipazione femminile nell’ambito di una prospettiva socialista.


L’esperienza di tutti i movimenti di liberazione attesta che il successo di una rivoluzione dipende dal grado di partecipazione delle donne[1].

Se c’è qualcosa che colpisce in molti dibattiti del femminismo di oggi, è la scarsità di riferimenti e riflessioni sul ruolo delle donne nelle esperienze rivoluzionarie o sul rapporto tra emancipazione e rivoluzione. Il ruolo reazionario dei partiti comunisti stalinizzati ha contribuito in gran parte all’errata identificazione del marxismo con un economicismo corporativo che ha lasciato le rivendicazioni più sentite delle donne “per dopo”. Tuttavia, nulla potrebbe essere più lontano dal pensiero di Lenin, il quale affermava che “non è possibile una rivoluzione socialista, se una grandissima parte delle donne lavoratrici non dà il suo cospicuo apporto”[2].

In questo senso, riprendiamo qui in esame l’esperienza della Rivoluzione russa e alcuni dei dibattiti delle Conferenze delle donne comuniste della Terza Internazionale[3]. Molto è cambiato da allora e non è mai stato possibile risolvere questioni del presente con formule magiche del passato. Ma è necessario recuperare lezioni e chiavi strategiche per ricreare un femminismo socialista per il XXI secolo.

“Senza di loro, non avremmo trionfato

In una conversazione con Clara Zetkin nell’autunno del 1920, Lenin sottolineò il ruolo coraggioso delle donne nella Rivoluzione russa, prima e dopo la presa del potere, sopportando ogni tipo di sofferenza e privazione, nella loro lotta per la libertà e il comunismo[4]. In queste conversazioni, ricordate da Zetkin dopo la morte di Lenin, il leader rivoluzionario sollevò la necessità di approfondire il grado di organizzazione tra le donne e di estendere il lavoro organizzativo e teorico a livello internazionale.

Le donne avevano cominciato la rivoluzione l’8 marzo 1917 (23 febbraio nel calendario gregoriano). Quel giorno, le operaie delle fabbriche tessili di Pietrogrado scioperarono e marciarono per le fabbriche vicine gridando “Abbasso la guerra!”, “Pane per gli operai!”. Con la caduta dell’impero zarista, la rivoluzione non si fermò: tra febbraio e ottobre, le donne guidarono mobilitazioni, grandi scioperi e parteciparono all’organizzazione dei consigli operai.

La Rivoluzione russa trasformò radicalmente la vita delle donne. I primi decreti del governo sovietico concessero la terra ai contadini confiscandola ai latifondisti, stabilirono il controllo dei lavoratori nell’industria e milioni di donne ottennero l’uguaglianza di fronte alla legge, il divorzio incondizionato, il diritto all’aborto e il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, la depenalizzazione dell’omosessualità e della prostituzione. Pochi mesi dopo la presa del potere, Lenin affermò che, per la prima volta nella storia, “tutto ciò che trasformava le donne in esseri senza diritti” era stato eliminato dalla legislazione. Ma sostenne anche che, in questo campo, “non si tratta della legge”[5] ma della reale trasformazione delle condizioni di vita.

In questo senso, un’altra serie di misure mirava alla socializzazione del lavoro domestico, con la creazione di mense pubbliche, asili nido, scuole materne, ecc. L’obiettivo era quello di eliminare il peso delle faccende domestiche dai nuclei familiari e consentire un massiccio inserimento delle donne nel mondo del lavoro, della politica e della cultura. Questo era un aspetto centrale del programma bolscevico per l’emancipazione delle donne. Il lavoro domestico le vincolava allo spazio privato e non lasciava loro tempo ed energia per sviluppare appieno le loro capacità nella vita politica e culturale. La bolscevica Inessa Armand sottolineò che cucinare, in quanto lavoro domestico ripetitivo, era “per le contadine e soprattutto per le operaie una punizione insopportabile che consuma tutto il loro tempo libero, privandole della possibilità di andare alle riunioni, di leggere e di partecipare alla lotta di classe”. Per questo motivo, con la creazione di mense pubbliche, si voleva fare in modo che la cucina scomparisse gradualmente dall’economia domestica[6].

La creazione dello Zhenotdel [Dipartimento delle Donne Operaie e Contadine del Partito Bolscevico] nel 1919, fu accompagnata da un intenso lavoro di agitazione, propaganda e organizzazione, con l’obiettivo di coinvolgere le donne in tutti i compiti di costruzione della nuova società socialista. Lo Zhenotdel promosse l’elezione di delegate operaie in ogni luogo di lavoro e incoraggiò la loro partecipazione ai soviet. Allo stesso tempo, vennero attuate campagne educative, rivolte sia alle donne che agli uomini, su diversi aspetti.

Nel suo libro Lenin’s Dilemmas [7], Tariq Ali dedica una sezione alla questione delle donne nella Rivoluzione russa. Tra gli altri lavori di ricerca, evidenzia il libro della storica americana Wendy Goldman[8] sul programma bolscevico e l’avanzato diritto di famiglia sovietico, redatto dal giurista marxista Alexander Goikhbarg. Esso era destinato a essere transitorio, in quanto il potere operaio “costruisce i suoi codici e tutte le sue leggi dialetticamente, in modo che ogni giorno della sua esistenza mina la necessità stessa della sua esistenza”. Ali sottolinea che la concezione avanguardista dei bolscevichi sull’emancipazione femminile si esprimeva anche nei progetti architettonici dei costruttivisti. Moisei Ginzburg propose progetti per appartamenti con lavanderie comuni, con spazi comuni per il gioco dei bambini, visibili da tutte le case (assistenza comunitaria) e dove le dimensioni e la disposizione delle stanze potevano essere modificate spostando le pareti montate su sistemi a ruote, al fine di rendere più flessibili i modelli di convivenza.

Si trattava di trasformare radicalmente la vita di milioni di lavoratori e contadini. Iniziando a porre fine alle miserie della sussistenza quotidiana, riorganizzando la produzione e la riproduzione e facendo passi da gigante nell’istruzione e nella cultura, per sradicare il peso dei costumi patriarcali e aprire la strada a nuove forme di relazioni tra le persone.


Le Conferenze Comuniste delle Donne

A livello internazionale, seguendo l’impulso della Rivoluzione d’Ottobre, il Primo Congresso della Terza Internazionale (marzo 1919) approvò una risoluzione speciale riguardante l’agitazione, la propaganda e il lavoro organizzativo delle donne. Portare ampie masse di donne operaie e contadine nella rivoluzione faceva parte di una politica egemonica. Questa politica fu approfondita dalla Prima Conferenza Internazionale delle Donne Comuniste che si svolse tra il 30 luglio e il 3 agosto 1920, in concomitanza con il Secondo Congresso dell’Internazionale[9]. A questa conferenza parteciparono 50 delegate provenienti da diversi paesi e, come risultato delle deliberazioni, fu adottato un progetto di risoluzione redatto da Zetkin. Il testo divenne noto come “Linee guida per il lavoro femminile”[10].

La Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Comuniste si svolse tra il 9 e il 15 giugno 1921[11]. Fu di grande importanza e alle sue sessioni parteciparono 82 delegate provenienti da 28 paesi: Russia, Bielorussia, Ucraina, Lituania, Estonia, Finlandia, Repubblica dei Tartari, Armenia, Georgia, Azerbaijan, Mongolia, Corea, Slovacchia, Jugoslavia, Bulgaria, Romania, Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Ungheria, Olanda, Svezia, Norvegia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Spagna.

Le sessioni furono inaugurate con una commovente cerimonia di fronte a 3.000 lavoratrici e nei giorni successivi furono discusse risoluzioni sul lavoro femminile nelle repubbliche sovietiche, nei paesi capitalisti occidentali e nei paesi dell’est. Ci furono numerosi interventi di Clara Zetkin, Aleksandra Kollontai e decine di altre delegate, che riferirono sul lavoro delle donne nei diversi paesi. In questa Seconda Conferenza vennero anche espressi alcuni dei dibattiti centrali del Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista, in particolare quelli riguardanti la questione della politica del fronte unico.

Secondo il ricercatore Mike Taber, questa conferenza “ebbe un vivace dibattito su questioni come il suffragio femminile, il peso relativo delle lavoratrici e delle casalinghe [nell’organizzazione e nella lotta] e il modo in cui le lotte su questioni specifiche (chiamate ‘lotte parziali’) si articolavano nella battaglia generale della classe operaia contro il capitalismo”[12].

Alla fine, la conferenza delle donne ricevette i saluti di Zinov’ev, Lenin e Trotsky. Quest’ultimo fece un discorso in cui sottolineò che “nel progresso del movimento operaio mondiale, le donne proletarie giocano un ruolo colossale”. Trotsky tenne un discorso in cui sottolineò che, in quanto parte della sezione più oppressa della classe operaia, le donne lavoratrici possono “diventare la parte più attiva, più rivoluzionaria e più intraprendente della classe operaia”.

Tra le risoluzioni della Conferenza si legge che “solo il comunismo salverà l’umanità dalla fame, dalla rovina e dalla morte, da tutte le angosce create dall’anarchia della produzione capitalista. Solo il comunismo garantisce la liberazione dall’eterna ingiustizia e dall’opprimente servitù delle donne lavoratrici”.

Nel dicembre del 1921 si tenne a Tbilisi la Conferenza delle donne del Vicino Oriente. Nel 1922 si tennero altre due conferenze internazionali delle donne giornaliste, a gennaio e a ottobre. In quegli anni si tennero anche numerose conferenze femminili in Germania, Cecoslovacchia, Francia, Bulgaria, Indie Orientali Olandesi e altri paesi.

 

Il Movimento delle Donne Comuniste in Oriente

Poco conosciuto nelle attuali discussioni sul femminismo intersezionale è il fatto che le Conferenze Comuniste delle Donne incorporarono un programma specifico per il lavoro nelle regioni orientali dell’URSS, nei paesi coloniali e semi-coloniali e nelle regioni con diffuse popolazioni musulmane. La ricercatrice Daria Dyakovona sottolinea che: “Gli aspetti culturali specifici che le donne sovietiche dovevano considerare erano la pratica del velo, le relazioni familiari poligamiche e patriarcali, nonché la quasi totale esclusione delle donne dalla vita sociale”.

Questo tema rivestì una notevole importanza alla Seconda Conferenza delle Donne. Le delegate dei paesi orientali sottolinearono le difficoltà e i progressi in questo campo. Come sottolinea Danya Dyakovona, le relatrici della Seconda Conferenza collegarono l’emancipazione delle donne dell’Est alla lotta antimperialista e anticolonialista. Questo è stato sostenuto, ad esempio, da Aleksandra Kollontai:

Come possono i lavoratori britannici vincere la lotta se le colonie britanniche non si sollevano? Possono i lavoratori francesi vincere senza una rivoluzione nelle colonie francesi? Nessuna grande potenza imperialista può essere distrutta senza un’azione coerente nelle sue colonie. Pertanto, è tra le donne dell’Est che dobbiamo svolgere il lavoro più importante e minuziosamente dettagliato. Credo che il nostro Segretariato debba dare priorità a questo lavoro.

In questa conferenza furono adottati diversi documenti sull’argomento, redatti dalle delegate dei paesi orientali. Una delle risoluzioni più importanti fu quella di convocare una conferenza speciale delle donne del Vicino Oriente, che si tenne a Tbilisi nel dicembre del 1921.

La Rivoluzione russa aveva generato un’enorme ondata di simpatia tra i popoli e le colonie asiatiche. Negli anni successivi, in molte regioni si verificarono movimenti di lotta contro l’imperialismo, i proprietari terrieri e le borghesie locali. La Terza Internazionale, nei suoi primi quattro congressi, sviluppò iniziative per estendere la rivoluzione su scala internazionale, rafforzando i legami tra lo Stato operaio russo, la classe operaia dei paesi occidentali e i popoli oppressi. Questa strategia ha guidato anche la lotta per l’emancipazione delle donne, considerata inseparabile dalla lotta antimperialista, dalla lotta contro il razzismo e dalle battaglie contro il sistema capitalista.

Alla Conferenza di Tbilisi parteciparono delegate e dirigenti provenienti dall’area caucasica (Azerbaigian, Armenia, Georgia e altri paesi), Turchia e Persia. Secondo un rapporto del Segretariato Internazionale delle Donne per il Vicino Oriente, i temi in discussione erano i seguenti: forme e metodi di lavoro tra le donne dei popoli del Vicino Oriente; coordinamento tra le Commissioni Femminili Comuniste dei diversi paesi, organizzazione del successivo Congresso delle Donne del Vicino Oriente e campagne di agitazione. Le militanti comuniste inserirono alcuni punti specifici nel programma per l’emancipazione delle donne nei paesi dell’Est: completa uguaglianza dei diritti legali, accesso incondizionato all’istruzione (che in molte regioni era possibile solo per gli uomini), uguaglianza legale nel matrimonio, abolizione della poligamia patriarcale, accesso al lavoro e commissioni speciali per la difesa dei diritti acquisiti dalle donne[13].

La Conferenza rilevò le disuguaglianze nel lavoro svolto fino allora e rimarcò l’importanza di promuovere una rete di club femminili in queste regioni. La Conferenza, inoltre, decise di creare cooperative di lavoro per le donne disoccupate: “Queste cooperative possono anche essere un mezzo per combattere la prostituzione, una conseguenza della disoccupazione”, fu dichiarato[14]. Infine, fu lanciato un appello speciale ai militanti uomini dei partiti comunisti di queste regioni affinché invitassero le loro compagne a eventi e riunioni pubbliche, rompendo con le tradizioni e i pregiudizi patriarcali. I club avevano lo scopo di mostrare la possibilità concreta di nuove relazioni sociali in cui le donne potessero liberarsi dalla schiavitù domestica e dalla dipendenza economica. In questo modo, le donne potevano convincersi della superiorità e dei vantaggi del sistema sovietico.

Tra le risoluzioni adottate a Tbilisi, spiccava l’idea di adattare l’agitazione e la propaganda politica alle particolari condizioni delle donne nelle regioni orientali. La ricerca di “nuovi metodi” era in linea con questo obiettivo. Un’altra questione da tenere in considerazione era la grande diversità nazionale della regione e la “persistenza di un forte nazionalismo”. Fu quindi raccomandato di creare organizzazioni e pubblicazioni educative per ogni nazionalità. L’obiettivo era quello di raggiungere i più ampi strati di donne, superando le barriere linguistiche e nazionali per superare i pregiudizi esistenti. Un’altra risoluzione stabilì che il lavoro avrebbe dovuto concentrarsi sulle donne lavoratrici, sia in azienda che a domicilio, senza trascurare il lavoro delle contadine e delle casalinghe. Allo stesso tempo, fu sottolineata l’importanza di includere nei club donne intellettuali e istruite, come insegnanti, mediche e avvocate.

Tra i compiti di propaganda, fu proposto di produrre supplementi speciali per le donne nelle pubblicazioni comuniste, oltre a testi che mostrassero la partecipazione delle donne lavoratrici alla lotta di classe, insieme al resto della classe operaia. I club sarebbero stati responsabili dell’organizzazione di corsi e programmi educativi, dall’alfabetizzazione di base all’insegnamento delle scienze naturali e di altre materie per combattere i pregiudizi religiosi. I club avrebbero organizzato asili nido, assistenza alle donne incinte e cooperative per socializzare parte del lavoro domestico. La Conferenze, inoltre, insistì sulla necessità che i partiti comunisti di queste regioni conducessero studi seri sulla situazione delle donne, sulle questioni legali e sul loro ruolo nella famiglia.

Per quanto riguarda la questione del velo, negli anni ’20 i comunisti di diversi paesi dell’Est lanciarono campagne per consentire alle donne di scegliere di indossare volontariamente il velo. Si trattava di campagne educative, senza alcuna imposizione statale. Questo è molto importante da sottolineare, perché è l’opposto delle posizioni di molte femministe liberali che, anche cento anni dopo, continuano a giustificare la repressione delle donne musulmane da parte degli Stati imperialisti. Arrivano persino a sostenere gli interventi bellici imperialisti con il pretesto di “proteggere le donne”. Per i comunisti rivoluzionari, nessuna liberazione delle donne può venire dalla mano dell’imperialismo, per quanto “democratica” possa essere la sua maschera e per quanto possa presentarsi come difensore della “civiltà” di fronte all’oscurantismo religioso.

 

Dall’attività autonoma delle donne al Termidoro sessuale

Le Conferenze Comuniste delle Donne avevano una grande audacia verso l’organizzazione delle più oppresse tra gli oppressi: cercarono di sviluppare l’auto-attività delle donne operaie e contadine nelle lotte contro l’imperialismo e il capitalismo e per una trasformazione delle loro condizioni sociali e culturali. Nelle regioni in cui l’oppressione nazionale e i pregiudizi religiosi si intersecavano, la politica leninista rifiutava imposizioni burocratiche da parte dello Stato operaio russo, sia su questioni culturali che nazionali. Infatti, poco prima della sua morte, Lenin aveva messo in guardia in una lettera al Comitato Centrale contro le pretese burocratiche di Stalin e la sua politica “grande-russa” nei confronti delle nazionalità oppresse.

Tuttavia, con il consolidamento dello stalinismo, queste politiche emancipatorie furono abbandonate, lasciando il posto a un orientamento pragmatico e conciliante in tutti i campi, nell’interesse della burocrazia sovietica. La burocrazia staliniana ridusse importanti diritti delle donne lavoratrici e diede una svolta conservatrice nel campo delle relazioni familiari e sociali. Nel 1930, la burocrazia sovietica sciolse lo Zhenotdel e negli anni successivi ri-criminalizzò l’aborto e l’omosessualità, mettendo in atto un discorso di Stato volto a ristabilire il posto subordinato della donna nella famiglia patriarcale. Le conferenze internazionali delle donne non furono più convocate e la lotta per l’organizzazione delle donne nei paesi oppressi dall’imperialismo fu abbandonata. Un vero e proprio “Termidoro sessuale”, come lo definisce Tariq Ali nel suo libro su Lenin[15], riprendendo le definizioni di Lev Trotsky sul “Termidoro in casa”[16].

Dal punto di vista dei bolscevichi, l’oppressione delle donne non era qualcosa a cui si poteva porre fine per decreto. Anche dopo la presa del potere e il superamento della proprietà privata come principio organizzativo della società, le relazioni personali e familiari patriarcali in cui le donne erano state oppresse per secoli non si sarebbero semplicemente dissolte. Era necessario consolidare nuove condizioni di possibilità per avanzare verso l’emancipazione. Nuove basi materiali, sociali e culturali che permettessero una trasformazione radicale delle relazioni personali e sociali nella transizione al socialismo.

Facendo un bilancio di questa grande esperienza storica, Lev Trotsky sostenne nel 1936 che

alla famiglia, considerata come una piccola azienda chiusa, doveva sostituirsi, nelle intenzioni dei rivoluzionari, un sistema completo di servizi sociali: maternità, nidi, giardini d’infanzia, mense, lavanderie, dispensari, ospedali, sanatori, organizzazioni sportive, cinema, teatri, ecc.

Ciò avrebbe permesso

l’assorbimento completo delle funzioni economiche della famiglia da parte della società socialista, destinata a legare tutta una generazione nella solidarietà e nell’assistenza reciproca [che] doveva apportare alla donna e di conseguenza ai due coniugi una vera emancipazione dal giogo secolare[17].

Sophia Smidovich, una bolscevica che partecipò all’organizzazione dello Zhenotdel prima che venisse sciolto da Stalin, riassunse l’intreccio tra la lotta per l’emancipazione femminile e la lotta per il comunismo:

La soddisfazione di tutti i bisogni; la possibilità che ogni persona sviluppi le sue tendenze alla partecipazione in questo o quel campo sociale, che sviluppi i suoi gusti e le sue inclinazioni; la piena liberazione da ogni oppressione delle persone e la riconquista di nuove possibilità nella lotta con le forze della natura; lo sviluppo delle multiformi potenzialità della personalità umana – queste, grosso modo, sono le caratteristiche principali di quel futuro luminoso, anche se, è vero, ancora lontano… È possibile tutto questo in condizioni di oppressione femminile?

Dopo la morte di Lenin, fu Trotsky a continuare a lottare per una strategia che unisse la classe operaia nel suo complesso con le sue sezioni più oppresse. Questa strategia fu espressa in numerosi scritti e fu espressa in modo più organico nel Programma di transizione della Quarta Internazionale, con una sezione speciale dedicata alla lotta delle donne e dei giovani lavoratori[18].

Cento anni dopo quegli appassionati dibattiti: che importanza può avere oggi rivisitare queste esperienze e proposte rivoluzionarie di un secolo fa?

La Rivoluzione russa ha dimostrato che le lavoratrici e le donne dei popoli coloniali e semicoloniali, comprese le più oppresse tra gli oppressi, potevano diventare soggetti della propria emancipazione, lottando a fianco della classe operaia per il socialismo. Questa rimane una chiave strategica del pensiero di Lenin e Trotsky per combattere i regimi reazionari, il dominio imperialista e lo sfruttamento del capitale. Quella grande esperienza emancipatrice ha anche mostrato le possibilità di lottare per un altro futuro, contro le miserie e le oppressioni del capitalismo.

Ora abbiamo a nostro favore l’esperienza accumulata in più di un secolo di rivoluzioni, insieme alle lotte più recenti del movimento delle donne e di altri settori oppressi. Lo sviluppo scientifico e tecnico, nelle mani dei consigli operai del XXI secolo, permetterebbe di mettere tutte queste risorse al servizio dei bisogni della maggioranza della società e di risolvere rapidamente problemi che prima sembravano irraggiungibili. In questo modo, si potrebbero compiere progressi nella liberazione da tutte le oppressioni e nello sviluppo delle molteplici potenzialità della personalità umana.

 

Josefina L. Martínez

Traduzione da Ideas de Izquierda

Questo articolo fa parte del numero 7, ottobre 2023, della rivista Egemonia.

Note

1. Lenin V (1967)[1918] Discorso al primo congresso delle operaie di tutta la Russia. Opere complete. Tomo XXVIII. P. 183. Roma: Editori Riuniti.

2. Ivi, p. 182.

3. Taber M & D Dyakonova (ed.) (2023) The Communist Women’s Movement, 1920–1922. Leiden: Brill.

4. Cfr. Zetkin C (1925) “Lenin e il movimento femminile”. Lenin V (1950) L’emancipazione della donna. Roma: Rinascita. Disponibile a: marxists.org/italiano/zetkin/lenin.htm.

5. Lenin V, op. cit., p. 182.

6. Armand I (2023)[1920] “La obrera en la Rusia soviética”. Assunção D & J L. Martínez (ed.) Mujeres, revolución y socialismo. Buenos Aires: Ediciones IPS. Disponibile a: marxists.org/espanol/armand/la-obrera-sovietica.pdf.

7. Ali T (2017) The Dilemmas of Lenin: Terrorism, War, Empire, Love, Revolution. London: Verso.

8. Goldman W (2011) Las mujeres, el Estado y la Revolución. Buenos Aires: Ediciones IPS.

9. Il Secondo Congresso della III Internazionale si tenne a Mosca tra il 9 luglio e il 7 agosto del 1920.

10. Contenuto in Assunção D & J L. Martínez, op. cit.

11. Questa Conferenza di donne si celebrò pochi giorni prima del Terzo Congresso della III Internazionale, che ebbe luogo tra il 22 giugno e il 12 luglio del 1921.

12. Martínez L. J (2023) “Las Conferencias de mujeres comunistas (1920-22) y su legado estratégico. Entrevista a Mike Taber y Daria Dyakonova”. Izquierdadiario.es. Disponibile a: izquierdadiario.es/Las-Conferencias-de-mujeres-comunistas-1920-22-y-su-legado-estrategico.

13. Nel Congresso dei Popoli d’Oriente, che si svolse a Baku nel 1920, un terzo dei delegati era composto da non comunisti di orientamento panislamico. Da questi settori ci fu resistenza alla partecipazione delle donne al congresso, anche se non riuscirono a porre il veto sulla loro presenza. Cfr. Birchall I (2012) “Un moment d’espoir: le congrès de Bakou en 1920”. Contretemps. Disponibile in italiano a: lavocedellelotte.it/2018/04/16/un-momento-di-speranza-il-congresso-dei-popoli-orientali-di-baku-nel-1920.

14. Atti della Conferenza di Tbilisi.

15. Ali T, op. cit.

16. Trotsky L (1956)[1937] Capitolo Settimo: La famiglia, i giovani, la cultura, Termidoro nella famiglia. La rivoluzione tradita. Pp. 135-144. Torino: Schwarz.

17. Ivi, p. 135.

18.Cfr. D’Atri A (2020) “La emancipación de las mujeres en la obra de León Trotsky”. La Izquierda Diario. Disponibile a: laizquierdadiario.com/La-emancipacion-de-las-mujeres-en-la-obra-de-Leon-Trotsky.

Nata a Buenos Aires nel 1974. È una storica (UNR). Autrice del libro Revolucionarias (Lengua de Trapo, 2018), coautrice di Cien años de historia obrera en Argentina (Ediciones IPS). Vive a Madrid. Scrive per Izquierda Diario.es e altri media e milita nella corrente femminista internazionale Pan y Rosas.