Una ribellione in nome del rock che, all’epoca, provocò uno scossone clamoroso nella cultura, nella moda, nella comunicazione e soprattutto nella musica.


Nel mese di giugno 1977, mentre Londra si prepara a festeggiare il giubileo della Regina e i suoi trent’anni di matrimonio, in tutta la città sembra diffondersi il terrore di un incipiente tsunami di teppismo, vandalismo e violenza gratuita. Solo un mese prima, quando al Rainbow Theatre i Clash avevano suonato White Riot, le sedie erano strappate dal pavimento e lanciate sul palco. Tre mesi prima i Sex Pistols avevano inciso God Save The Queen, che era il secondo singolo dopo Anarchy in the U.K.: più di 55 mila copie vendute solo nel Regno Unito, prima che ne venisse fermata la produzione per le proteste delle istituzioni il 6 gennaio dello stesso anno. Tutte e due le canzoni saranno nel loro unico lavoro in studio, Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols. Come se non bastasse, mentre la Regina percorre trionfalmente il Mall nella carrozza rivestita di lamine d’oro, loro si esibiscono in un concerto gratuito su una barca, ribattezzata per l’occasione Elizabeth II, che scende lungo il Tamigi parallelamente alla corte reale. Singolare omaggio che presto degenera in uno scontro frontale con la polizia. Per la prima volta dopo i movimenti del ‘68 (che comunque avevano l’epicentro in Francia) la contestazione giovanile esplode in una sottocultura organizzata e capillare che si dipana attraverso musica, manifesti, slogan, riviste, ma soprattutto attraverso la creazione di uno stile cui viene affidato il compito di esprimere i tratti più furiosi e sovversivi. Il punk proclama la sua devozione al Nulla, alla distruzione, al caos perenne come unica forma di esistenza possibile ma attraverso un sistema di segni forte e autoconsistente, coerente come insieme di significati nella decisione che niente, ma proprio niente, può voler significare qualcosa. Punk is attitude not fashion, è un modo di essere: capelli a cresta tinti in colori innaturali, rosso scarlatto, viola, blu, verde. Dozzine di spille da balia che trapassano giubbotti di pelle. Spille estrapolate dal contesto domestico e portate come macabri gioielli infilate nelle guance, nelle orecchie o nelle labbra. T-shirt offensive in modo diretto, coperte di parole ingiuriose, crocefissi rovesciati o svastiche naziste: una punk intervistata da Time Out nel ‘77 sul perché porti una svastica risponde “Perché ai punk piace essere odiati”. Ma è stata usata anche la A cerchiata, compare nel logo di decine di gruppi, sulla copertina di centinaia di dischi, non come simbolo di appartenenza politica bensì come un segno di provocazione nei confronti della società. Una provocazione rivolta contro il perbenismo della società borghese che ingrassa sul boom economico del secondo dopoguerra e soprattutto contro la precedente generazione di contestatori, quegli hippie che ai nuovi giovani arrabbiati paiono già irrimediabilmente vecchi.
Le barbe, i capelli lunghi, le gonne a fiori cedono il passo a catene del cesso che vengono drappeggiate in graziosi archi sui petti ricoperti di sacchetti della spazzatura. Il trucco viene usato da ragazzi e ragazze ed è drammatico, teatrale, volutamente eccessivo: abiti in gomma e maschere da stupratore in vinile, l’intera panoplia del bondage (cinture, cinghie, catene e manette), le calze a rete smagliate, i tacchi a stiletto. Sono seri? Un gioco? Sono violenti e pericolosi? O, invece, paradossalmente “morali” per una singolare ironia rovesciata? La custodia di God Save the Queen è una scritta assemblata e incollata sopra gli occhi e la bocca della regina, che erano a loro volta sfigurati da quelle strisce nere impiegate dalle rivistine di cronaca nera per nascondere l’identità di qualche personaggio, e dunque connotavano il crimine e lo scandalo. In un certo senso il punk annuncia il fallimento delle utopie e riflette il logoramento delle ideologie; anticipa la fine delle idee nuove di cui prenderanno atto i noveaux philosophes degli anni Ottanta, che conterranno il termine “postmoderno”. E infine consacra la durezza dei tempi nuovi, nata dalle difficoltà economiche, prefigurando il thatcherismo e l’ognuno per sé degli yuppies. La storia del ‘77 però non è solo fatta di esplosioni, ma anche da una catena di implosioni estetiche. Capovolgimenti di prospettiva. Stravolgimenti. E’ un taglio tra un prima e un dopo, il salto è drastico. La macchina fotografica ormai è uno strumento militante, fanno la loro comparsa i video e al megafono succede l’era delle performance più o meno consapevoli, dei film come The Great Rock’n’Roll Swindle – La grande truffa del rock’n’roll dedicato ai Sex Pistols. E i punk italiani? Raccontano una storia diversa, tutta nostra, che riflette solo in parte la filosofia tracciata dal fenomeno inglese. Un movimento che si esprimeva attraverso la musica facendo sue le dottrine dell’antimilitarismo e dell’antisessismo, che utilizzava gli stessi segni vestimentari anglosassoni per comunicare invece un desiderio di riprendersi la vita come ultimo allarme prima della calata dell’egoismo edonista degli anni Ottanta. Gioca un ruolo molto importante il Virus di Milano, primo dei centri sociali gestito da punk e propulsore fondamentale per la crescita dei movimenti sottoculturali in tutt’Italia, dove si realizza una vera e propria contiguità fisica tra i giovani punk e i vecchi occupanti dello stabile di via Correggio 18, fortemente caratterizzati in senso sociale (famiglie proletarie).
Il passaggio dalla fase precedente alla nuova stagione, in cui il punk assume una più chiara e marcata valenza politica di ispirazione anarchica si potrebbe datare al primo giugno 1980, con il volantino in cui i punk nostrani contestano l’esibizione dei Clash organizzata in forma gratuita dal Comune di Bologna in Piazza Maggiore: “Kids, il sistema continua a darci merda da mangiare – respirare – ascoltare così come ci passa questi fottutamente inoffensivi Clash e cerca di convincerci che il punk è morto: non possiamo permettere che si impossessi delle nostre cose per poi svuotarle e restituircele innocue. Dobbiamo strappare il punk dalle pagine dell’Espresso o di Repubblica, ed evitare che venga recensito ed interpretato come genere musicale per estirpargli ogni potenzialità eversiva”. Ma la chiave dello stile punk rimane ambigua, viene sfruttato lo shock visivo come effetto che, alla fine, produce un suono vuoto. Il significante (svastica, spille) viene staccato dal significato e collocato in un panorama artefatto, dove è importante l’astuzia del medium che diventa molto più importante del messaggio. I simboli del punk sono muti quanto la rabbia che li hanno provocati. Tutto questo permetterà, pochi anni dopo, a un grande stilista come Gianni Versace di disegnare una collezione d’alta moda punk con spille in oro zecchino. Alla fine del 1977, il punk viene raggiunto e assorbito da un’evoluzione sociale che aveva anticipato di qualche anno. Dopo la momentanea destabilizzazione dettata dall’attacco portato contro le sue regole, lo show business si rinnoverà da cima a fondo. Il movimento genera il rock della new wawe, che rappresenta uno slittamento semantico molto importante. I gruppi che si perdono nella violenza e nella droga portano all’industria musicale nuovi suoni, nuovi linguaggi di abbigliamento, nuove tecniche pubblicitarie e di manipolazione che la trasformano profondamente. Lo stesso fenomeno si verifica nella moda, che grazie al movimento punk conosce una vera deflagrazione paragonabile a quella della Swinging London. Se in origine era fluttuante, indefinibile, equivoco, ora il punk si trasforma in un codice estetico preciso e definito. Anzi diventa presto come la Royal Family e il tè, una specie di qualità di marchio inglese riprodotto sulle cartoline e con molta rapidità esportato in massa. Un’icona per i turisti che si fanno fotografare abbracciati ai residui punk (o quelli che mascherati) che stazionano in King’s Road come i beefeater a Buckingham Palace. Uno strano presente per chi, quarant’anni prima, declamava a gran voce di tifare per il “No Future”.

 

Roger Vnx

Nato a Venezia nel 1988, vive a Brescia. Operaio, è studioso e appassionato di sottoculture giovanili, ultras e skinhead in particolare.