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L’8 marzo di quest’anno cade in un momento storico in cui è evidente al massimo la bancarotta del femminismo liberale dell’empowerment individuale: le donne al potere come Giorgia Meloni e Ursula Von der Leyen utilizzano il loro ruolo per promuovere politiche antipopolari, repressive, guerrafondaie, in nessun senso dalla parte delle donne. Ci serve un movimento femminista del tutto opposto e alternativo al femmismo liberale che ha aperto la strada alla reazione dal volto di donna.


Poco più di un anno fa si è avverata la previsione, ampiamente annunciata dai sondaggi, che Giorgia Meloni, avrebbe guidato il futuro governo italiano. 

Come scrivevamo alla caduta del governo Draghi, Meloni e il suo partito, Fratelli d’Italia sono rimasti all’opposizione per tutta legislatura che aveva visto andare al governo tutti gli altri partiti parlamentari con tre diverse maggioranze (il Conte 1 grillo-leghista, il Conte 2 a trazione M5S-PD e Draghi con la sua coalizione larga). In questo modo, da un lato essi hanno potuto evitare l’erosione di consenso subita da centro-sinistra, grillini e tecnici, dall’altro hanno beneficiato “[del]la compiacenza verso gli sviluppi autoritari e di accentramento dei poteri nel governo e nella persona del presidente del consiglio, messi in atto prima da Conte e poi da Draghi”. Questo ciclo politico, che rientra in un quadro di tendenze autoritarie della democrazia borghese a livello internazionale, come abbiamo approfondito nell’ultimo numero di Egemonia, ha “rafforzato ancora di più un consenso nazionalista-conservatore con dei toni sempre meno democratici, tant’è che Giorgia Meloni può evidenziare in modo non troppo sottile, come ha fatto nella manifestazione di FdI ieri [20 luglio 2022] […] che a questo punto tanto varrebbe passare a un sistema presidenziale, meno democratico, dove il parlamento sia poco più che un circolo di discussione politica”. 

Proprio questo sta facendo Meloni: rivendicare il ruolo di un presidente forte, “decisionista”, senza che il parlamento decida sulla politica del paese. La sua trattativa per far votare una legge che stabilisca un regime presidenziale in Italia è un attacco reale e grave che si ricollega alle politiche dell’”uomo forte” delle destre nazionaliste che nell’ultimo quindicennio hanno guadagnato terreno in molti paesi, anche e soprattutto dentro l’Unione Europea. Non è un caso che una “democristiana” come Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea appena ricandidatasi per un secondo mandate, si sia personalmente spesa per un riavvicinamento del centrodestra europeo, il PPE, ai nazionalisti di destra come FdI, così da costituire un polo allargato conservatore-reazionario, depurato dai richiami nostalgici al fascismo. Al di là del piano strettamente ideologico, la grande convergenza tra Meloni e Von Der Leyen, a seguito della strage di Lampedusa della scorsa estate, ha dimostrato concretamente la totale comunità di vedute e continuità nella gestione dei flussi di migranti verso l’Europa da parte delle destre (solo per le quali si grida al ritorno del fascismo) e dei partiti del cosiddetto “estremo centro” del vecchio consenso neoliberista.

 

Femonazionalismo: quando la destra distorce il femminismo per i suoi scopi

È significativo come le tendenze reazionarie a cui stiamo assistendo abbiano spesso un volto di donna. Meloni non è la prima donna di destra ad assumere una posizione di governo centrale: la sua ascesa si inserisce nella scia di quella di altre figure come Marine Le Pen del Rassemblement National in Francia, portato dalla sua “donna forte” dal ruolo marginale di destra nostalgica filofascista a partito stabilmente al secondo posto alle elezioni e sempre più pronto a fare da riferimento alle élite francesi e della UE. Queste leader di partito, che non a caso offrono una figura adattata al ruolo del capo incontestabile maschile tipico della cultura patriarcale capitalista, si distinguono nell’uso sempre più ricorrente di un discorso “femminista” per supportare le loro ricette politiche più retrograde nei confronti delle stesse donne e degli oppressi in tempi di grave crisi politica ed economica. 

“Sono una donna, sono una madre, sono una cristiana” è stato il grido di battaglia scelto dalla leader di Fratelli d’Italia e che avrebbe delineato alcune delle caratteristiche fondamentali del suo governo. 

Il Femonazionalismo, per usare una felice espressione della studiosa Sarah Farris, non cade però dal cielo: infatti Meloni riesce a beneficiare del discorso femminista liberale, secondo il quale il raggiungimento da parte delle donne di posizioni di potere (quindi per definizione oppressive) rappresenterebbe il principale obiettivo di emancipazione di genere. 

Lo stesso femminismo liberale che sostiene queste posizioni è, inoltre, quello che si è reso complice delle peggiori politiche di austerità e tagli ai servizi pubblici. Una situazione del genere da un lato ha peggiorato le condizioni di vita delle donne, in particolare di quelle proletarie, dall’altro ha rafforzato il ruolo della famiglia nella riproduzione sociale e nel senso comune di certi settori degli strati popolari. Queste le ragioni di fondo che hanno permesso di presentare la difesa della famiglia e dei ruoli di genere tradizionali come battaglie “femministe”, collegate a un’agenda razzista e omotransfobica centrata sugli spauracchi della crisi della natalità e della sostituzione etnica. In tale quadro, lo stesso rafforzamento del ruolo repressivo dello Stato viene presentato positivamente, all’interno di una veste ideologica punitivista: solo un governo, forze dell’ordine e tribunali a cui “venga fatto fare il proprio lavoro” possono permettere alle donne “di andare in giro sicure la sera”! Ecco, che come ha mostrato il caso di Caivano, il femonazionalismo è diventato una stampella di politiche di criminalizzazione dei contesti impoveriti e dei giovani, quindi di misure potenzialmente utilizzabili contro chi fa lotta politica, come il decreto anti-rave

 

Le contraddizioni dell’agenda punitivista

Nella dinamica di “normalizzazione” della vecchia destra filofascista, che si rivendica sociale/popolare, Meloni non ha promosso nessun cambio di rotta sul piano del massacro sociale e delle politiche di guerra dei precedenti governi tecnici e PD-5Stelle. Così, nonostante il potere abbia un volto femminile, l’obiettivo di togliere diritti alla comunità LGBT+, agli immigrati e ai giovani non è certo compensato con un aumento dei diritti delle donne. Sebbene la premier abbia promesso di non toccare la legge 194 che garantisce l’accesso all’aborto, gli attacchi ad essa sono passati da ulteriori tagli al servizio sanitario nazionale e alla chiusura dei consultori: una tendenza, va sottolineato, inaugurata dai governi di centro-sinistra. Inoltre, la stessa eliminazione del reddito di cittadinanza, in un paese dove la disoccupazione colpisce soprattutto le donne, va inquadrata come un attacco diretto a queste ultime. 

L’aspetto su cui l’impostazione di Meloni è andata maggiormente in difficoltà è stato però quello politico-ideologico, con l’impatto che ha avuto il caso del femminicidio di Giulia Cecchettin lo scorso autunno. In questo contesto, hanno avuto particolare risonanza le contraddizioni meloniane, come le dichiarazioni d’intento della premier contro il femminicidio (103 ne ha contati l’osservatorio di Non Una di Meno nel 2023), proprio mentre l’esecutivo stabiliva il taglio di oltre il 70% dei fondi alle Case delle Donne.

L’elemento contingente che ha accelerato la situazione è stata però, almeno in parte, la capacità di Elena Cecchettin (sorella di Giulia) di politicizzare in diretta TV l’assassinio della sorella, identificando il problema non nei “maschi violenti” in quanto tali, ma nel sistema patriarcale. Di fronte all’eco della denuncia, il governo ha infatti avuto difficoltà a reagire in maniera apertamente punitivista e reazionaria, privilegiando una misura che potesse accogliere anche le simpatie del centro-sinistra con l’introduzione nelle scuole di corsi di “educazione all’affettività” (provvedimento non a caso appoggiato dalla leader del PD Elly Schlein) di cui, alla fine, non si è fatto nulla per via della pressione dei settori cattolici reazionari dentro il governo, così come di quella di CEI e Vaticano da fuori. 

Si tratterebbe in ogni caso di una misura ipocrita: il patriarcato non è infatti un problema culturale, o una semplice questione psicologica, ma un sistema di oppressione di genere rafforzato e riprodotto dal capitalismo, come ci spiega Ariane Díaz in questo numero riprendendo le tesi di una pietra miliare del femminismo marxista, il libro della studiosa americana Lise Vogel “Marxism and the Oppression of Women” (mai tradotto in Italia). 

Tuttavia, quello che qui ci interessa notare è come la mobilitazione di massa sfociata nella grande manifestazione del 25 novembre a Roma contro le violenze di genere abbia rappresentato una delle principali incrinature mostrate dalla tenuta dell’esecutivo.

 

Cosa ci ha lasciato il 25 novembre?

Lo scorso 25 novembre le mobilitazioni in tutto il Paese, da Napoli a Milano, hanno riunito più di mezzo milione di persone in occasione della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. La rabbia seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ha fatto esplodere ancora una volta una marea viola, dimostrando, da un lato, l’urgenza di affrontare il problema della violenza patriarcale e, dall’altro, che ci sono centinaia di migliaia di donne pronte a intraprendere questa lotta. 

Tuttavia, ci si deve interrogare rispetto alla scarsa capacità del movimento di avere continuità: questo 8 marzo è infatti la prima piazza nazionale rilevante su tematiche di genere a cui assistiamo da oltre tre mesi, nonostante il grande potenziale che il 25 novembre aveva mostrato.

A tal proposito identifichiamo alcuni aspetti problematici: il primo è stata la scarsa politicizzazione che ha avuto quella manifestazione, fattore che ha permesso al governo, ma anche all’establishment mediatico di centro-sinistra, di neutralizzarne e in parte assorbirne i contenuti. Sicuramente questo è il portato del relativo riflusso che ha colpito negli ultimi anni il movimento femminista radicale e di classe, il quale è stato letteralmente spiazzato dall’enorme partecipazione che ha conosciuto il 25 novembre. Ci si deve tuttavia interrogare rispetto ad alcune ragioni che hanno impedito di uscire rafforzati da questa occasione, in primis la difficoltà a costruire una progettualità politica realmente autonoma da quella del centro-sinistra.

Questo tema è stato completamente assente dalla stessa Assemblea nazionale di Non Una di Meno a Firenze dell’estate e dell’autunno scorsi. Qui, sebbene la dirigenza del movimento abbia giustamente problematizzato il tema della sempre più scarsa partecipazione agli spazi di discussione e alle attività, non si è realmente posta la questione di una chiara demarcazione dai partiti borghesi. 

Un altro aspetto che secondo noi la direzione di NUDM non ha sufficientemente messo all’ordine del giorno è quello dell’organizzazione democratica come mezzo per consolidare ed estendere il movimento. Impedire a partiti di estrema sinistra, collettivi e sindacati di portare le proprie bandiere alle manifestazioni lanciate da questo percorso non vuol dire evitare strumentalizzazioni, ma ostacolare un onesto confronto politico volto ad approfondire la linea del movimento, con l’effetto opposto di aumentare la possibilità di distorsioni… Da parte dei media dei grandi gruppi economici e dell’establishment politico. Al successo del 25 novembre non è inoltre seguito il tentativo di costruire un piano di lotta tramite la promozione di assemblee nelle scuole, nei sindacati e nei luoghi di lavoro. 

In una contingenza che ha visto mezzo milione di persone in piazza sull’onda dell’indignazione e della rabbia contro il patriarcato, radunare diverse migliaia di persone in assemblee in tutto il paese per continuare la mobilitazione con un piano di lotta contro il governo sarebbe dovuto essere un compito urgente, oltre che possibile. 

Nemmeno quelle correnti politiche e sindacali, che muovono critiche più o meno condivisibili alle posizioni dei gruppi dirigenti di NUDM, hanno però seriamente provato a farlo.

Questo 8 marzo deve quindi diventare l’occasione per discutere e avanzare attivamente in questo senso. Al dibattito sull’importanza della fusione tra classe lavoratrice e femminismo, tramite la costruzione e il rafforzamento dell’auto-organizzazione, nel quadro di una prospettiva anticapitalista, contribuisce l’articolo di Josefina L. Martinez sul rapporto tra la politica di Lenin (di cui quest’anno è il centenario della morte) e il movimento rivoluzionario delle donne. 

Come si legge nell’articolo, uno dei problemi che le donne comuniste affrontarono e discussero all’epoca della rivoluzione russa fu quello dell’oppressione nelle colonie dei Paesi imperialisti. In questo senso, è significativa la seguente citazione della bolscevica Aleksandra Kollontai:

Come possono gli operai britannici vincere la lotta se le colonie britanniche non si sollevano? Possono gli operai francesi vincere senza una rivoluzione nelle colonie francesi? Nessuna grande potenza imperialista può essere distrutta senza un’azione coerente nelle colonie di questa potenza. 

Da mesi, giorno dopo giorno, si registra in Palestina un terribile massacro che, al momento della stesura di questo articolo, ha già provocato la morte di quasi 30.000 persone, per lo più donne e bambini. L’obiettivo non è chiaramente il presunto “terrorismo”, ma l’intera popolazione, che è stata colpita da migliaia di bombe in ospedali, istituti scolastici, aree residenziali e persino campi profughi.

La questione dell’insurrezione e della liberazione nazionale, riportata in auge dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, non si può trattare in maniera isolata dalla liberazione dello sfruttamento capitalista e da tutte le oppressioni, dello schiacciamento dei paesi ex-coloniali da parte dell’imperialismo. Per questo rigettiamo l’impostazione nazionalista islamista di Hamas, che agisce in modo separato dalle stesse masse palestinesi che vorrebbe rappresentare, e che fa molto più affidamento sui presidenti e sui re dei paesi musulmani, e sulla diplomazia internazionale dominata dalle potenze occidentali, che non sul popolo palestinese stesso.

La liberazione della Palestina, così come degli altri paesi schiacciati dall’imperialismo, sarà un movimento rivoluzionario della popolazione operaia e subalterna, a partire dalle donne, o non sarà. In questo senso, sconfiggere il sionismo è impensabile se non si supera la contrapposizione tra popoli e religioni: essere “internazionalisti”, soprattutto in questo caso, significa reclamare la classe operaia e la popolazione oppressa su scala internazionale come agente della propria liberazione, non la diplomazia internazionale o gli attuali governi complici dell’imperialismo. Non si si tratta per i palestinesi di resistere isolati contro Israele, ma di lottare insieme alle masse popolari dei paesi della regione ‘araba’: contro il sionismo, contro l’imperialismo e contro i propri governi sfruttatori, repressivi e complici di sionismo e imperialismo.

Solo un grande movimento di questo tipo potrà scalzare l’egemonia delle correnti islamiste e stimolare con forza una rottura del fronte interno sionista a partire dai settori strategici della classe operaia israeliana, dalle donne e dalla gioventù oppresse dal nazionalismo religioso reazionario.

Lo Stato colonialista di Israele, che aveva già trasformato Gaza nella più grande prigione a cielo aperto, ora vuole trasformarla in un cimitero per convertirla nell’ennesima area colonizzata.

In Italia, come nel resto dei Paesi europei in cui le donne si stanno sollevando, è fondamentale mettere in atto tutte le azioni collettive in nostro potere per denunciare e fermare tutto ciò. Questo, in un momento in cui alcune organizzazioni che si dichiarano impegnate per l'”intersezionalità delle lotte” rifiutano di prendere una posizione chiara e coerente sulla Palestina, come se fosse una questione al di fuori della lotta femminista. È’ invece urgente far rivivere la tradizione antimperialista della lotta delle donne e delle persone LGBT+: il discorso e le politiche reazionarie sulle questioni di genere sono infatti interconnesse con la retorica dello scontro di civilità e la propaganda islamofoba pro-sionista. A loro volta, tali dispositivi ideologici rappresentano un’importante stampella dell’imperialismo, operando come strumenti di divisione della classe lavoratrice, che nelle metropoli occidentali è sempre più queer e meticcia.

Non esiste un vero orizzonte emancipatorio per le donne mentre migliaia di persone sono brutalmente oppresse in un genocidio di tale portata; mentre ci illudiamo di vivere in “paradiso”, che in realtà copre un regime di apartheid genocida, filo-imperialista e profondamente patriarcale; mentre le donne palestinesi, come sempre quando ci sono crimini contro l’umanità, sono doppiamente colpite da questa violenza criminale. Lottiamo per una Palestina libera, laica, operaia e socialista, dove arabi ed ebrei possano vivere insieme in pace, nel quadro di una Federazione delle repubbliche socialiste del Medio Oriente, una prospettiva che approfondiamo nella rivista con l’articolo di Mattia Giampaolo, in un confronto critico con le varie posizioni sulla soluzione alla questione palestinese. 

Questo 8 marzo, in occasione della Giornata internazionale della donna, la solidarietà internazionale con la Palestina chiama a raccolta tutte le donne e le femministe che lottano contro l’oppressione patriarcale, razzista, coloniale e contro lo sfruttamento capitalistico. Tale lotta nutre la nostra forza per combattere anche contro il governo xenofobo di Meloni e Salvini, contro le sue politiche di aggiustamento nei confronti delle donne e de* lavorator*.

 

 Il pane e le Rose, redazione Egemonia

Questo articolo fa parte del numero 7, ottobre 2023, della rivista Egemonia.

"Il pane e le rose" nasce nel 2019 e riunisce militanti della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) e indipendenti che aderiscono alla corrente femminista socialista internazionale "Pan y Rosas", presente in molti paesi in Europa e nelle Americhe