Ritorno a scrivere volentieri di Black Mirror, uno dei più noti esempi di suggestione filosofica (e potenzialmente politica) di quello che è ormai un fenomeno diffusissimo: le serie tv, il loro successo, apprezzamento e consumo sopratutto da parte dei giovani, spesso non più in TV (come suggerirebbe la parola), ma piuttosto di fronte a un portatile, il più delle volte nella solitudine di uno streaming serale. Certamente come marxisti avremmo bisogno di un confronto serrato e onesto sia sull’arte (e il suo ruolo all’interno del processo rivoluzionario), sia sul significato di fenomeni di questo tipo, che il mainstream classificherebbe come “tendenze di consumo” e che per il loro impatto sociale travalicano largamente lo stesso problema della relazione tra arte e politica. Il dibattito che si potrebbe aprire sull’interpretazione delle serie tv è dunque solo un appendice di un confronto più ampio che avremmo bisogno di aprire su artisti, arte e mercificazione della stessa in rapporto agli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici. In questo secondo articolo proporrò alcune considerazioni su US Callister,  un altro episodio che ho scelto per la sua rilevanza.

Per come appare all’esterno, quest’episodio presenta delle affinità con Fiteen Milion Merits che avevo analizzato nel precedente articolo: un meccanismo tirannico, un gruppo di lavoratori-schiavi rassegnati e un personaggio ribelle che guida gli altri verso la liberazione e la fine (definitiva?) dell’asservimento. In questo caso però le cose sono forse un po’ più complicate: il tiranno ha un volto, un corpo identificabile e l’aspetto stereotipato di quello che definiremmo un nerd. Il meccanismo di sfruttamento non è “ovunque”, ma solo nello spazio preciso delle stanze di una nave spaziale: una realtà virtuale parallela plasmata dal tiranno secondo i suoi desideri, e nella quale lui, ovviamente, gioca la parte del comandante infantilmente arrogante e al di sopra di tutto. La nave del comandante-nerd ha certamente meno affinità con la società capitalistica presa nel suo complesso, rispetto alla fabbrica di punti di Fiteen Milion Merits che potrebbe essere invece facilmente vista come una rappresentazione generica del conflitto capitale-lavoro. Allora come può essere letto questo gioco malvagio voluto dal nerd cattivo in cui i personaggi-servi sono plasmati dalla realtà (attraverso la copia del loro DNA)?

Si può probabilmente leggere la critica a una “degenerazione” egoistica e individualistica: il carattere infantile del comandante ha probabilmente molto a che vedere con gli atteggiamenti di Trump o del dittatore della Corea del Nord.

Ma ciò che è più interessante notare è  come questa volta, proprio questa volta, il finale sia lieto. In Fiteeen Milion Merits, non c’era un “mondo migliore” all’esterno della realtà virtuale. Tutti dovevano accumulare punti pedalando le cyclette e l’unica via di emancipazione (il talent show) non era che un appendice propagandistica dello stesso sistema di sfruttamento. In questa drammatica distopia, il protagonista finiva per adattarsi. No way out. Nessuna via d’uscita. Questo il messaggio. In US Callister  invece i personaggi finiscono per “prendere il comando” rimanendo nella realtà virtuale ed esiliando il comandante in una parte di universo inaccessibile. Il finale è insomma lieto. E a mio parere non è un caso. Sulla base del messaggio di Fiteen Milion Merits, in Us Callister ci è concessa la fruizione di un finale lieto perché il cattivo è identificabile, la realtà di sfruttamento è una realtà parallela e gli “schiavi” in questione non sono che un piccolo gruppo minoritario di “sfortunati” (l’equipaggio della nave). Grazie a queste premesse, la liberazione è finalmente possibile. Quando invece il cattivo non ha un volto preciso e l’oggetto di sfruttamento è una massa intera, un’intera classe sociale diremmo, il finale lieto è una prospettiva assolutamente remota o, peggio, impossible da mettere in pratica. Finirà male, vorrebbe dirci Charlie Brooker incoraggiandoci probabilmente alla rassegnazione, molto male. E voi ribelli non avrete altra strada che l’adattamento. (Noi ovviamente non siamo d’accordo).

 

Redattore della Voce delle Lotte, nato a Napoli nel 1996. Laureato in Infermieristica presso l'Università "La Sapienza" di Roma, lavora come infermiere.