In occasione del Giorno della Memoria, pubblichiamo due articoli di approfondimento sulla complessa e terribile realtà capitalistica tedesca e mondiale che ha fatto da sfondo alla tragedia dei campi di concentramento e di sterminio, e che per convenienza politica viene messa ai margini o rimossa in una giornata come questa. Qui riportiamo uno scritto già apparso su Cortocircuito.


Proponiamo una parte di questo interessante pdf, dove si parla del rapporto fra Stati Uniti e Germania prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, come efficace integrazione al video che proponiamo: un video de “La storia siamo noi” che, con l’ausilio delle immagini, rappresenta un prezioso materiale contro semplificazioni e retoriche tipiche della Giornata della Memoria.

Buona visione (e lettura).

Negli anni Trenta, accanto al processo di compenetrazione Stato/capitale che caratterizzava le economie europea e statunitense, si verificò anche, parallelamente, un processo di osmosi e di internazionalizzazione del capitalismo mondiale. Da questa analisi appare più che evidente che il nazismo non era il risultato della «brutalità» e della «barbarie» del solo «popolo» tedesco o di una presunta anima bellicista insita nella tradizione germanica. Nel 1939 la macchina bellica nazista era forse il congegno economico meno «nazionale» che si potesse trovare sull’arena degli Stati che avevano partecipato alla Prima Guerra mondiale. L’economista Charles Bettelheim ha scritto che «si può dire che settori vitali dell’economia tedesca erano controllati (…), almeno parzialmente, dal capitale internazionale»[4]. La compenetrazione tra il capitale tedesco e il capitale cosiddetto «democratico» occidentale in Germania aveva raggiunto nel 1939, quando scoppiò la guerra, una fase molto avanzata.

Nel 1938 l’industria automobilistica ‒ essenziale per un’economia di guerra moderna ‒ presentava la seguente situazione: delle quattro maggiori case produttrici presenti in Germania (Daimler, Auto Union, Ford e Opel), la Ford (filiale della Ford statunitense) e la Opel (di proprietà dal 1929 dell’americana General Motors) producevano ben il 52% delle vendite in Germania[5]. Nel 1935, su richiesta dello Stato Maggiore nazista, la direzione della Opel, con sede a Brandeburgo, aveva realizzato un camion pesante che avrebbe dovuto essere «meno vulnerabile agli attacchi degli aerei nemici». Così, a partire dal 1937, l’Opel Blitz, prodotto a ritmi accelerati, equipaggiò l’esercito tedesco. Due anni dopo anche la statunitense Ford aprì, alla periferia di Berlino, una fabbrica di montaggio per automezzi destinati alla Wehrmacht. Gli affari andarono talmente bene che nel 1941, in piena guerra, Ford decise di aumentare il capitale della sua filiale tedesca, che lavorava per i nazisti, portandolo da 20 a 32 milioni di marchi.

Agli inizi del 1939 la General Motors adibì gli stabilimenti Opel di Rüsselsheim alla fabbricazione di aerei militari. Dal 1939 al 1945 quegli stabilimenti produssero, da soli, il 50% di tutti i sistemi di propulsione destinati allo Junkers 88, considerato come il miglior bombardiere della Luftwaffe.

Per l’esercito di terra, le filiali tedesche della General Motors e della Ford costruirono il 90% dei camion leggeri (i cosiddetti «Muli») e il 70% di tutti i camion pesanti e di medie dimensioni. Secondo i servizi segreti britannici, tali veicoli costituivano «la spina dorsale del sisstema di trasporto dell’esercito tedesco»[6].

In piena guerra, i trasferimenti e gli scambi di materiali continuarono tranquillamente tra il quartier generale di Detroit della General Motors, le varie filiali dislocate nei paesi alleati e quelle insediate nei territori dell’Asse. I registri contabili della Opel avrebbero in seguito rivelato che, dal 1942 al 1945, la fabbrica di Rüsselsheim aveva elaborato le proprie direttive di produzione e di vendita in stretto rapporto con gli stabilimenti della General Motors di tutto il mondo (Brasile, Olanda, Uruguay, Giappone, Hong Kong e Shanghai), nonché, ovviamente, con la sede centrale negli Stati Uniti.

Nel 1943, mentre gli stabilimenti statunitensi di quella multinazionale rifornivano l’aviazione USA, il gruppo tedesco costruiva i motori del Messerschmitt 262, uno dei primi caccia a reazione del mondo.

Dopo la guerra, sia la Ford che la General Motors riuscirono ad avere il risarcimento dei danni di guerra subiti dalle loro fabbriche situate nei territori controllati dall’Asse, dovuti ai bombardamenti alleati: nel 1967 la General Motors avrebbe infatti ottenuto dal governo statunitense ben 33 milioni di dollari, contro un solo milione ricevuto dalla Ford.

Un altro esempio ci viene fornito dal caso della International Business Machines Corpora- tion, la celebre IBM statunitense, che era proprietaria di molte fabbriche in Germania e nel resto d’Europa, i cui stabilimenti venivano addirittura considerati come un importante elemento dello sforzo bellico tedesco. Detentrice del 94% delle azioni della Munitions Manufacturing Corporation, essa fabbricava anche per gli Alleati bombardieri, cannoni e parti di motore per aerei. Questo sforzo a favore del «mondo libero» gli avrebbe fruttato un guadagno di oltre 200 milioni di dollari. Nel frattempo, la holding svizzera della IBM continuò, per tutta la guerra, a ricevere i profitti delle fabbriche del gruppo dislocate in Germania, mentre quelle situate vicino a Parigi, a Corbeil-Essonnes, sarebbero state amministrate fino alla Liberazione da un capitano delle SS.7

L’esempio della IBM ci chiarisce anche perché molte fabbriche tedesche non venivano bombardate, mentre invece si radevano al suolo interi quartieri operai. Il capo del personale del gruppo canadese della IBM Frank MacCarthy, che era membro dell’equipaggio di un bombardiere della Royal Air Force britannica, nel corso di una missione sulla città di Sindel- fingen sganciò le sue bombe a caso per evitare di colpire una fabbrica dell’IBM.8

Anche per quanto riguarda i rifornimenti petroliferi, fondamentali per una nazione moderna in guerra, i nazisti dipendevano da industrie di proprietà delle «democrazie occidentali». Fino a quando i tedeschi iniziarono a produrre petrolio sintetico, il 53,5% del petrolio distribuito in Germania era controllato da tre monopoli: la Standard Oil (USA), la Shell (Regno Unito) e la Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie (IG Farben). Quest’ultima non era un’impresa puramente tedesca in quanto un gran numero di sue azioni, per un totale di parecchi milioni di dollari, era posseduto da varie banche statunitensi, tra cui la Chase National Bank (il cui azionista di maggioranza era John D. Rockefeller) e la J.P. Morgan Bank, nonché dalla tedesca M.M. Warburg Bank.9

Per avere un’idea dell’importanza della IG Farben ‒ la quale, sia detto per inciso, era l’industria che fabbricava il famoso Zyklon B, il gas mortale utilizzato dai nazisti nelle camere a gas ‒, basti pensare che nel 1932 essa era l’azienda chimica più importante del mondo:

controllava 400 compagnie tedesche e 500 imprese commerciali, e possedeva ferrovie, miniere di carbone e fabbriche in parecchie decine di paesi. Va inoltre tenuto presente che questa holding, come altre d’altronde, non ha mai smesso di sovvenzionare il partito nazista.

Quando la macchina bellica nazista, in piena guerra, ebbe la necessità di una maggiore quantità di petrolio, si pensò si produrlo attraverso l’idrogenizzazione del carbone. A tale scopo si addivenne ad un accordo tra tra le tre società summenzionate (e cioè Standard Oil, Shell e IG Farben) per la produzione di questo tipo di petrolio, con la partecipazione nell’affare di un terzo per ciascuna di esse.

Anche la multinazionale statunitense International Telephone & Telegraph (ITT), che possedeva importanti imprese sul suolo tedesco, partecipò allo sforzo bellico di Hitler. Solo per fare un esempio, nel 1938 la Lorenz-ITT, con l’accordo di Hermann Göring, rilevò il 28% del capitale dell’azienda aeronautica che avrebbe costruito il Focke-Wulf, un micidiale cacciabombardiere che fece strage dei convogli alleati. Non solo: dal 1941 al 1944 oltre metà della produzione delle fabbriche spagnole della ITT fu destinata a sostenere lo sforzo bellico nazista. E dagli USA, sempre attraverso la Spagna, la ITT trasferì alla Germania, almeno fino al 1944, materie prime fondamentali per la produzione bellica. Si è detto che il presidente di tale società, Sosthenes Behn, «è talvolta criticato in alcuni circoli politici americani», ma «sa che può contare sull’appoggio totale degli ambienti militari».10 Mentre i Focke-Wulf che la ITT statunitense aveva contribuito a fabbricare mitragliavano le truppe e i convogli alleati, la stessa ITT perfezionò, per i bombardieri americani, la messa a punto di un sonar ad alta frequenza destinato ad intercettare i sottomarini tedeschi. Behn avrebbe ricevuto nel 1946, dalle mani del presidente Harry S. Truman, una medaglia al merito per il suo contributo allo sforzo militare statunitense. Forte dei suoi diritti, la ITT sarebbe riuscita anch’essa ad avere dal governo USA 27 milioni di dollari come risarcimento dei danni subiti dalle fabbriche del Focke- Wulf che erano bombardate dagli aerei alleati.

Occorre poi aggiungere che Alfried Krupp non era il solo a fornire all’esercito di Hitler l’acciaio per i suoi cannoni. Anche la statunitense U.S. Steel, proprio grazie ai Krupp, riuscì a realizzare durante la guerra grossi profitti in Germania, facendo funzionare le sue fabbriche nella regione della Ruhr.11

Nell’industria elettrica ed elettrotecnica, il capitale straniero investito in Germania ammontava al 23% del capitale complessivo. Nella Siemens tedesca c’erano capitali britannici e svizzeri. La summenzionata ITT controllava in quel periodo ben venti società. Nel 1933 l’industria del vetro era controllata all’80% dal capitale straniero, ma quattro anni dopo, nel 1937, tutta l’industria vetraria era passata in mano al gruppo belga Solvay e alla francese Saint-Gobain. Il trust britannico-olandese Unilever aveva una buona partecipazione nell’industria della carta. Per completare il quadro, va sottolineata l’esistenza di stretti legami tra molte banche tedesche, britanniche e statunitensi.

Pochi, allora, denunciarono la collusione tra il capitale cosiddetto «democratico» e quello cosiddetto «totalitario». In Italia certamente nessuno, per quanto ne sappiamo. In Francia, il giornale trotskista La Vérité segnalò invece (ma invano) nel 1944 il passaggio, alla frontiera tra la Spagna e la Francia, di treni-cisterna pieni di benzina diretti verso la Germania. Il giornale in questione rivelava che la vendita ai tedeschi del petrolio proveniente, in pratica, da società statunitensi, non era un caso isolato. In esso si può infatti leggere:

(…) Abbiamo già segnalato l’invio di aerei americani alla Germania attraverso il Portogallo. (…)

Dei compagni ritornati dalla Germania ci chiedevano: «Perché le grandi fabbriche tedesche di prodotti chimici non vengono bombardate?

Mentre 150 000 lavoratori, donne e bambini di Amburgo sono stati carbonizzati, perché le fabbriche della LEUNA, ad esempio, restano sempre in piedi?»

Siamo ora in grado di dare la risposta. Il fatto è che I PRODOTTI CHIMICI TEDESCHI VENGONO SCAMBIATI CON MINERALI SPECIALI AMERICANI dei quali il Reich ha bisogno per la sua industria bellica. Dei compagni fidati ci informano che questo baratto si effettua regolarmente attraverso la Spagna.12

Si deve inoltre aggiungere che anche il Messico «democratico» e «progressista», sotto la guida del presidente Lázaro Cárdenas, vendette petrolio alla Germania in guerra senza che gli Stati Uniti, che erano al corrente del traffico, vi si opponessero.

Una prima riflessione che è possibile fare a partire da tutto ciò è la seguente: una guerra, e a maggior ragione una guerra moderna come la Seconda Guerra mondiale, non può essere condotta senza mezzi tecnici ed economici adeguati, e questi mezzi vengono forniti dal capitale, indipendentemente dalla sua nazionalità. L’esercito nazista era equipaggiato in buona parte con mezzi forniti dal capitale cosiddetto «democratico», e moltissimi automezzi militari e carri armati tedeschi erano alimentati da benzina fornita dalle compagnie occidentali «democratiche».

Per inciso, vorrei aggiungere che, dal 1939 al 1941, anche la Russia fornì alla Germania nazista ben 900mila tonnellate di petrolio, 100mila tonnellate di cromo, 500mila tonnellate di minerali di ferro, 2,5 tonnellate di platino e un milione di tonnellate di granaglie.

Un’altra considerazione da trarre è che il capitale tedesco di quel periodo era condizionato da quello degli Alleati molto più di quanto lo stesso capitale tedesco potesse condizionare quello occidentale.

Ma, al di là di queste considerazioni, e come si può desumere dai pochi dati che ho citato, la Seconda Guerra mondiale non fu affatto un conflitto tra il totalitarismo, la «barbarie nazista», e la democrazia, anche se formalmente si presentava sotto tale veste. Dietro allo scontro militare c’era lo scontro tra le varie frazioni del capitale mondiale, indipendentemente dall’assetto proprietario di questo capitale.

 

Note

4 Charles Bettelheim, L’économie allemande sous le nazisme. Un aspect de la décadence du capitalisme, vol. 1, Maspero, Paris [1979], p. 95. [Questo lavoro di Bettelheim era stato originariamente pubblicato nel 1946 dalla Librairie Marcel Rivière et Cie. di Parigi. Di esso esiste una traduzione italiana: L’economia della Germania nazista, Mazzotta, Milano 1973, nella quale la citazione qui riportata figura a p. 87 ‒ N.d.r.]

5 La maggior parte dei dati qui forniti sono ripresi da Josef Lador-Lederer, Capitalismo mondiale e cartelli tedeschi tra le due guerre, Einaudi, Torino 1959, nonché da Charles Levinson, Vodka-Cola, Vallecchi, Fi- renze 1978.

6 Citato in C. Levinson, op. cit., p. 217.

7 Ibidem, p. 214.
8 Ibidem.
9 Ibidem, p. 220.

10 Ibidem, p. 215.

11 [Il capitalismo statunitense] ricambiò poi Alfried Krupp subito dopo la fine della guerra. L’uomo che lo graziò al Tribunale di Norimberga, dove l’imprenditore sedeva come imputato per crimini di guerra, si chiamava John Jay McCloy. Alto commissario statunitense in Germania [a partire dal settembre 1949, negli anni Trenta McCloy era stato, guarda caso, consigliere legale della IG Farben tedesca].

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