Proponiamo un articolo, elaborato dal collettivo Marxpedia, di approfondimento sulla complessa e terribile realtà capitalistica tedesca e mondiale che ha fatto da sfondo alla tragedia dei campi di concentramento e di sterminio, e che per convenienza politica viene messa ai margini o rimossa in una giornata come questa.


Si mandano a memoria le formule astratte, quello che il cervello non può capire ma solo ricordare. E l’unico destino di quello che si impara a memoria é che presto o tardi verrà dimenticato. Nome peggiore quindi non poteva essere scelto per il 27 gennaio: giorno della memoria. Ci dicono che sia importante non dimenticare. Ed è con questo spirito genuino che probabilmente migliaia di persone hanno partecipato a quella giornata. Non abbiamo nulla contro le migliori intenzioni di questa partecipazione, ma ad un giorno della memoria noi preferiamo una vita di comprensione. A tanti discorsi commossi, preferiamo alcune domande dirette: a chi giovava l’esistenza dei campi di concentramento, quali ne furono la cause? Quale movente economico finì per crearne uno psicologico? Se la risposta è “l’irrazionalità dell’uomo”, rimarrebbe da spiegare perché questa irrazionalità si sia potuta palesare con tanta violenza proprio a metà del secolo scorso e in quelle forme. Se accettiamo la tesi dell’ “irrazionalità”, rimaniamo disarmati di fronte al fenomeno il quale per definizione non avrebbe né spiegazioni nè rimedi razionali.

C’è poi chi spiega l’esistenza dei campi di concentramento come l’ultimo capitolo di una discriminazione secolare a cui sono stati sottoposti gli ebrei. Tralasciamo il fatto che nei lager non morirono solo ebrei, ma zingari, comunisti, omosessuali, oppositori politici, handicappati e anche semplici clochard ecc. Ma anche se fosse, il punto rimarrebbe sempre spiegare perché tale pregiudizio religioso abbia potuto assumere tali forme.

Il materialista Labriola diceva che “le idee non cadono dal cielo”. In questo caso, dovremmo dire: gli incubi non sorgono dagli inferi. Sorgono sul terreno della lotta di classe e dei processi economici. E questo avviene indipendentemente da quale sia l’opinione che ne ha l’uomo, dalle motivazioni ideali, etiche, religiose di cui riveste le proprie azioni. Non ci interessa quale fosse la malsana convinzione che muoveva il singolo maniaco nazista, quale riteneva fosse il suo presunto fine, ma la base sociale su cui tali convinzioni si poterono sviluppare. Perché, a ben vedere, causa ed effetto ci appaiono spesso invertite. I campi di concentramento non sorgono per la presenza di un pregiudizio religioso. Ma furono pregiudizi religiosi e razziali ereditati dalla storia precedente a fornire la copertura ideale di un fatto economico e sociale presente.

Nel suo sviluppo supremo, la produzione capitalista supera le barriere del mercato nazionale. Ogni borghesia sviluppata tende ad estendere in forma imperialista il proprio dominio su altri mercati e colonie. Non può esistere capitalismo senza imperialismo, come non può esistere sviluppo dell’industria e della finanza capitalista senza militarismo e dominio sul mercato internazionale. Ma nel suo particolare sviluppo, la Germania era diventata una potenza industriale quando Francia e Gran Bretagna avevano già ampiamente occupato lo spazio coloniale. L’industria tedesca poteva continuare la propria ascesa solo rimettendo in discussione l’equilibrio su scala internazionale. Solo questo spiega la particolare aggressività del militarismo tedesco e non chissà quale caratteristica genetica delle genti tedesche.

Il nazismo non fece altro che fornire un programma possibile alla borghesia tedesca per lanciare la propria sfida per il controllo del mercato mondiale. La teorizzazione della superiorità della razza ariana, così come della conquista dello spazio “ad est”, non erano nient’altro che le giustificazioni aberranti di un compiuto programma di unificazione del mercato europeo sotto lo stivale dell’imperialismo tedesco.

Un obiettivo che necessitava uno sforzo bellico e produttivo senza precedenti. Non si trattava solo di vincere qualche paese con rapide avanzate militari, ma di concepire una occupazione ed una unificazione permanente dell’Europa. Siamo abituati a considerare la guerra tra Stati o eserciti come uno scontro esclusivamente militare, basato su tattiche, potenza di fuoco e qualità dei comandi. Ma la superiorità militare nasce sul terreno della superiorità produttiva e prima di diventare militare, lo scontro si gioca sul terreno della produttività del lavoro.

Era necessaria prima di tutto la completa pace sociale nelle retrovie e la possibilità di sfruttare senza limiti la forza lavoro. Il primo obiettivo del nazismo non poteva essere quindi nient’altro che l’annichilimento delle organizzazioni della classe, di qualsiasi espressione organizzata e cosciente del movimento operaio. Subordinati forzatamente alla propria borghesia, il lavoratore e il disoccupato tedesco dovevano scaricare la propria rabbia verso un nemico esterno. La presunta comunanza di interessi del padrone e dell’operaio tedesco riuniti nella razza ariana, base ideologica della pace sociale nazista, dovevano riflettersi nell’assunzione di un nemico comune.

Nato quindi inizialmente su basi  direttamente politiche e indirettamente economiche, il razzismo di massa nazista trovò però la sua applicazione più maniacale nelle problematiche economiche legate allo sforzo bellico. Il ghetto e il campo di concentramento furono la risposta ultima alle necessità della macchina produttiva capitalista sotto massimo sforzo.

L’industria doveva produrre senza sosta, mentre il proletariato, il disoccupato e il ceto medio tedeschi erano lanciati in divisa a conquistare e ad occupare il resto d’Europa. Lo Stato doveva incamerare enormi quantità di capitali, senza  potersi finanziare sul mercato internazionale. Tassare oltre modo la piccola borghesia tedesca, per non parlare di quella grande, poteva significare per il nazismo tagliare il ramo su cui era seduto e provocare pericolose crepe nelle propria base sociale di riferimento. Un problema immane anche per una potenza militare e industriale come quella tedesca.

Erano necessarie quindi materie prime a basso costo, capitali a costo zero e un’intensificazione senza precedenti dello sfruttamento della mano d’opera, con la doppia difficoltà di non poter disporre di ampi settori del proletariato mobilitati al fronte. Se le conquiste militari fornirono le materie prime, il razzismo fornì una riposta a buona parte del resto del problema.

Le leggi razziali non a caso in Germania, e anche in Italia, predisponevano precise limitazioni all’accesso al lavoro salariato da parte di ebrei e altre “razze” e un preciso censimento dei loro beni. Al momento opportuno, questo censimento fu la base per l’espropriazione di interi settori della piccola e media borghesia. Una sorta di tassazione forzata per sostenere le casse dello Stato in guerra.

In condizioni “normali”, il capitalista si “limita” ad impossessarsi delle ore di lavoro di un operaio, in cambio di un salario sufficiente – in teoria – a sostentarlo e a farlo ritornare il giorno seguente al lavoro. In condizioni “normali” lo Stato capitalista si impossessa della ricchezza prodotta attraverso la tassazione. Ma per le ragioni spiegate, il meccanismo doveva raggiungere il suo estremo e dimensioni senza precedenti. Lo Stato e il padrone nazista non dovevano disporre solo della forza lavoro e delle tasse dell’operaio e dell’artigiano ebreo, ma della loro stessa persona, di qualsiasi loro bene. La prigionia era il punto d’arrivo finale di questo meccanismo. Il campo di concentramento ne era la razionalizzazione ultima e sistematizzata su basi industriali.

Nel 1942 il capo dell’ufficio economico e amministrativo delle Ss, Pohl, emana una circolare in cui ribadisce il carattere essenzialmente produttivo dei campi di concentramento. L’annientamento dei detenuti doveva avvenire per “sfinimento da lavoro”.

Scrive Pohl a Himmler:

La guerra ha causato un netto cambiamento nella struttura dei campi e ne ha radicalmente modificato i compiti riguardo all’impiego degli internati. L’internamento per ragioni esclusivamente di sicurezza, educazione o prevenzione non ha più ragion d’essere. Il suo centro di gravità si è infatti spostato verso l’economia. Ciò che adesso è in primo piano, e vi sarà sempre più, è la mobilitazione di tutti gli internati in grado di lavorare, anzitutto per le esigenze belliche, quindi per le incombenze della futura pace. Da tale concezione risulta la necessità di adottare provvedimenti miranti alla trasformazione dei campi di concentramento in organizzazioni più adatte ai bisogni economici, mentre nella loro forma precedente rappresentavano solo un interesse meramente politico”

I “carcerati preventivi” non erano nient’altro che macabre liste di collocamento di questa forza lavoro schiavistica. Concentrati nei ghetti, gli ebrei potevano rapidamente essere inviati alla “produzione”. Il numero di internati per ragioni produttive cresce non a caso con l’aumento dello sforzo bellico: 60.000 nel 1941, 115.000 nell’agosto del 1942, 160.000 nell’aprile del 1943 a 160.000 nel maggio, 200.000 nell’agosto del 1944. Nascevano officine dentro e attorno ai campi di concentramento e campi di concentramento attorno alle aziende. Si servirono della mano d’opera gratuita aziende come Wolkswagen, Krupp e Siemens. I responsabili dei diversi campi dovevano rendere conto di quanto profitto producevano.

Alle scene cinematografiche di detenuti sbattuti irrazionalmente da una parte all’altra all’arrivo nei campi, andrebbe sostituita l’immagine veritiera e agghiacciante di una meticolosa classificazione della mano d’opera. I campi si servirono di uno dei primi database informatici della storia, per lo meno su scala di massa. L’Ibm strinse un’alleanza economica e strategica con i nazisti per fornire loro la tecnologia necessaria a “archiviare” tutte le informazioni demografiche necessarie a controllare la popolazione e in seguito a selezionare i detenuti. Il cosiddetto sistema Hollerith si basava su rudimentali schede forate che permettevano di archiviare le capacità lavorative degli schedati e dei detenuti. I codici della Hollerith permettevano di riconoscere o catalogare all’arrivo in un campo le funzioni di un detenuto: carpentiere, medico, artigiano, metalmeccanico ecc.

Tutto ciò che era un costo o ostacolava il lavoro andava eliminato: cibo, pause, sonno. La mano d’opera inutilizzata o inutilizzabile, superflua, andava eliminata e smaltita. Ed il cerchio si chiudeva trasformando i morti in materia prima. Un poliziotto ebreo polacco impiegato dai tedeschi descrive così “la razionalizzazione economica” estrema dell’opera di sterminio:

per il conseguimento dello scopo va mobilitato il minor numero possibile di tedeschi; (…) gli stessi ebrei devono aiutare i tedeschi a eseguire questo sporco lavoro; (…) altri ebrei devono sistemare i ghetti abbandonati; (…) i cadaveri degli ebrei devono esser sepolti da altri ebrei; (…) tutti i beni mobili, l’oro, i dollari, i gioielli devono cadere in mano ai tedeschi; (…) i corpi di tre milioni di persone vanno trattati come una materia preziosa, ad esempio come concime naturale, oppure bisogna trarne il grasso; al tempo stesso non vanno lasciate tracce sotto forma di cimiteri; (…) va impedito agli ebrei di trovare aiuto nel quartiere polacco”.

Come già detto, gli ebrei furono la maggioranza relativa dei detenuti, non gli unici. Perché il nazismo non solo sterminò ebrei, rom, omosessuali, comunisti ecc. ma costruì sopra questo sterminio una macchina da profitto capitalista. Solo sotto questa luce, il nazismo ci appare per quello che è: non una ricaduta barbarica, una parentesi orrenda, nella marcia immacolata del capitalismo verso il progresso. Ma è al contrario uno dei distillati più puri di questo sistema. Un sistema che nelle sue manifestazioni più estreme riporta in vita il padrone di schiavi, l’uomo del Medioevo, e li dota delle tecnologie più avanzate.
Non sempre il capitalismo genera il nazismo, ma è nel capitalismo che troviamo basi, germi e spiegazioni della follia nazista.

Se lo capiamo, non lo dimentichiamo.

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