Pubblichiamo la prima parte (qui la seconda) di uno studio sullo scritto Verso un manifatturiero italiano 4.0 il quale dà molti elementi utili, provenienti dal dibattito della borghesia italiana, a capire quali scenari si aprono con l’avanzare del nuovo modello industriale “4.0”. Il prossimo venerdì seguiranno le conclusioni dell’articolo.


Il dibattito economico e politico italiano si è recentemente concentrato sul tema della automatizzazione dei processi industriali e della futura (e attuale) disoccupazione tecnologica. Il piano industria 4.0, basato sulle direttive europee del piano Horizon 2020, ha dettato l’esigenza di aprire la discussione che, per un marxista, è fondamentale affrontare. Studiare gli sviluppi del capitalismo, infatti, non solo mette alla prova l’attualità del marxismo che, in quanto critico, come lo definiva Antonio Labriola,[1] è nell’analisi dell’attualità che dimostra la sua esattezza, ma serve anche a rendere ragione dell’attuale composizione di classe oltre che a prevederne la futura, offrendo così la bussola dell’attività politica. Ora, quelli maggiormente interessati all’industria 4.0 sono, naturalmente, i padroni e caso vuole che sia da poco uscito un libro dell’Associazione Italiana per la Ricerca Industriale (AIRI) scritto da Sesto Viticoli: Verso un manifatturiero italiano 4.0[2] e da questo si vuole partire.

Viticoli spiega che, a partire dal 2012, l’Italia ha iniziato ad applicare la politica industriale delineata da Horizon 2020 dalla comunità europea, attraverso l’istituzione di gruppi di lavoro tra università, enti pubblici ed aziende di diversi settori (areonautico, automobilistico, ecc.) per implementare la ricerca su svariate tecnologie e, soprattutto, per centralizzare e favorire lo scambio di informazioni. Le tecnologie che si vorrebbero implementare sono di due generi: da una parte riguardano la qualità dei prodotti, dall’altro i processi di produzione. Come nota lo stesso Viticoli, tuttavia, tale suddivisione è meramente didattica, nella misura in cui le varie tecnologie si intersecano tra loro.[3] Per quanto riguarda il primo genere, Viticoli parla soprattutto della bioeconomia (lo sviluppo di materiali ecologici) legata alla plastica e agli pneumatici, delle nanotecnologie e di quello che ama chiamare additive manufacturing, che per i poveri ignoranti significa stampa 3D. Non è qui il luogo per addentrarsi nei dettagli, pure interessanti, di queste tecnologie sui beni prodotti: va però notato che Viticoli ammette che i costi, almeno per la bioeconomia e le nanotecnologie, sono molto alti e che solo le grandi aziende possono permettersi di sostenerli. Che sia per la ricerca ancora non troppo avanzata[4] o per i problemi legati ai permessi vari per la commercializzazione di nuovi prodotti,[5] solo «le grandi aziende hanno terminato progetti R&D e prodotti innovativi».[6] Questo porta lo stesso Viticoli ad affermare che in Italia l’implementazione di queste nuove tecnologie, grazie all’industria 4.0, avrà ricadute sociali ed economiche rilevanti, dato il peso che nel nostro paese hanno le piccole e medie aziende.[7] Già da questi pochi elementi si può intuire che l’industria 4.0, se avrà successo, porterà come minimo ad una centralizzazione dei capitali[8] con ogni probabilità di proporzione più elevata della concentrazione operata dalle grandi imprese.

Il 13 luglio del 2016 Pasquale Cicalese faceva notare che Boccia, dopo esser stato eletto “a pelo” contro Vacchi alla presidenza di Confindustria, ha fatto sue alcune parole d’ordine dell’avversario, come il contratto di filiera.[9] E del resto anche Viticoli parla dell’eliminazione del contratto nazionale come passaggio fondamentale per il successo del piano indistria 4.0.[10] Tramite il contratto di filiera, il credito[11] e la maggior capacità tecnologica delle grandi imprese, è chiaro che Confindustria ha chiaro l’obiettivo di centralizzare il capitale in funzione di una maggior competitività globale, senza guardare in faccia a nessuno. Tale centralizzazione “a filiera”, per così dire, non è una novità, ma è mutuata dal ben rodato toyotismo giapponese: la Toyota infatti da anni ha sviluppato il black box parts system, che è poi la formazione di una controllata rete di fornitori che permette di esternalizzare buona parte della produzione.[12] In tale sistema i fornitori, spesso di piccoli dimensioni ed afferenti ad un’unica impresa che per lo più assembla i pezzi e fornisce loro aiuto in fase di progettazione, sono totalmente dipendenti dal loro unico cliente. Di più, nella misura in cui l’azienda che assembla ha necessità di produrre in poco tempo e col minimo di costi – dunque minimizzando ad esempio le scorte, attraverso il just in time –, obbliga i propri fornitori ad adottare il suo stesso sistema di organizzazione del lavoro, in maniera tale da implementare la sincronizzazione dei tempi di produzione in tutta la filiera: ecco che il contratto di filiera assume un’importanza fondamentale. Non si tratta più di una centralizzazione di capitale “classica”, per così dire, per cui una stessa impresa acquisisce direttamente branche nuove di produzione, bensì di una centralizzazione “orizzontale”: l’azienda madre controlla di fatto tutta una filiera produttiva, tutta una catena di valore. Naturalmente questo è proprio ciò che intende il nostro Viticoli quando, parlando degli obiettivi dell’industria 4.0, suggerisce anche «l’integrazione orizzontale attraverso reti di valore».[13]

Integrazione orizzontale: come sono democratici i nostri industriali (nel senso del PD)! La sincronizzazione dei tempi della filiera produttiva e la riduzione delle scorte al minimo attraverso il just in time richiede, com’è intuibile, un alto grado di adattamento degli operai, che, nel caso, devono esser pronti a fare straordinario e ad aumentare i ritmi di lavoro, nella misura in cui l’azienda programma di aumentare la produzione e, quindi, di aumentare il flusso delle materie prime nella produzione. Si sa che le macchine, secondo la teoria marxista, sono costi fissi: che le si utilizzi al massimo o non le si utilizzi proprio, i costi di manutenzione, ad esempio, sono i medesimi. Proprio per l’alta flessibilità del sistema just in time, che permette di aumentare o diminuire i ritmi di produzione a seconda delle necessità del mercato, gli sforzi ricadono maggiormente sulla forza lavoro: non è infatti interesse dei padroni avere spese fisse alte (con macchinari all’avanguardia che sfornano grandi quantità di pezzi)[14] senza sfruttarne al massimo la capacità produttiva e rischiando che la sincronizzazione della filiera salti, creando colli di bottiglia in un qualche punto della catena.

Scrive Ohno che «l’aumento dell’efficienza e la riduzione dei costi non sono necessariamente la stessa cosa»,[15] dunque «il tact-time[16] […] deve essere calcolato al contrario, partendo dal numero di pezzi che devono essere prodotti», quindi a seconda delle richieste flessibili del mercato e non del livello tecnologico delle macchine in sé. Ecco allora che, da un lato, si sfrutta più a fondo la forza lavoro attraverso i calcoli ergonomici dei movimenti[17] e l’aumento dei ritmi a seconda delle necessità,[18] dall’altro si investe in tecnologie che non intervengono di per sé sulla quantità di pezzi prodotti, bensì sulla sincronizzazione dei ritmi ed il controllo della produzione, incidendo non poco sul lavoro e la vita degli operai. Ecco perché Viticoli scrive che l’industria 4.0 si deve basare sulla produzione di macchine intelligenti, «metodi e standard per l’automazione e integrazione di sistemi produttivi complessi in grado di gestire produzioni on demand e just in time» e tecnologie IT per collegare in tempo reale i processi produttivi di una filiera con le informazioni derivanti dal mercato afferenti alla domanda dei prodotti.[19] Per AIRI è fondamentale implementare le tecnologie IoT (Internet of Things), ossia quei dispositivi che collegano le macchine l’una all’altra attraverso internet, così da poter controllare e regolare tutta la filiera produttiva all’istante: ad esempio se c’è un collo di bottiglia a valle della filiera, automaticamente le macchine rallenteranno a monte. Queste sono le macchine intelligenti, che poi non sono che un’evoluzione dei dispositivi automatici che sin dagli anni ’50 si utilizzano in Toyota, grazie a cui un macchinario si blocca a seconda di parametri programmati e dettando automaticamente i tempi agli operai che vi si applicano. Attraverso lo IoT «l’azienda può individuare i colli di bottiglia, gestire la tempistica del rilascio di più parti nel sistema, o programmare i carrelli per prelevare merci definite […]. Il monitoraggio di questi flussi offre alle aziende l’opportunità di ottimizzare le catene di fornitura e di evitare scorte o creare un eccesso di inventari».[20]

La tecnologia IoT, dunque, a cui tanto punta il progetto di Industria 4.0, non si basa tanto sullo sviluppo di tecnologie che portano ad un aumento del capitale fisso, per dirla in termini marxisti, ma piuttosto punta ad aumentare il plusvalore estratto mediante un aumento del livello – sempre per dirla con Marx – della cooperazione, cioè implementando l’organizzazione del lavoro ed automatizzandone sempre di più il controllo. In questo modo «nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo di produzione totalmente oggettivo, che il lavoratore trova davanti a sé come condizione materiale di produzione già pronta».[21] Del resto la volontà espressa da Amazon di implementare una tecnologia che, mediante dei braccialetti, possa controllare i movimenti degli operai, si inserisce proprio in questa visione, anche se forse non si presenta proprio bene come i borghesi illuminati che blaterano di industria 4.0.

Quando si parla di sviluppo tecnologico e di industria 4.0, bisogna aver ben chiaro di cosa si parla. Da un lato l’implementazione della qualità dei prodotti favorisce l’istituirsi di veri e propri monopoli “democratici”/“orizzontali”, dall’altro lo sviluppo delle tecnologie IT, a cui il progetto dà importanza preminente, si inserisce nel rapporto sociale che, per Marx, caratterizza il rapporto tra capitale variabile e costante. L’obiettivo è di dividere i lavoratori per filiera e programmarne automaticamente lo sfruttamento. La tecnologia delle macchine intelligente serve a sviluppare e puntellare il dominio delle relazioni sociali capitalistiche dentro e fuori la fabbrica, licenziando chi non serve e sfruttando di più chi rimane al lavoro: il vecchio adagio “lavorare meno, lavorare tutti” a parità di salario è oggi più attuale che mai.

Note

[1] «comunismo critico – questo è il vero suo nome, e non ve n’è altro di più esatto per tale dottrina» (Antonio Labriola, in memoria del Manifesto). Chi blatera di leggi immutabili del marxismo si può definire, gentilmente, un kantiano. Ma tra le righe bisognerebbe leggere “cialtrone”. Preservare il cuore rivoluzionario del marxismo è sempre cosa buona e giusta, ma non al prezzo di diventare imbecilli.

[2] Sesto Viticoli, Verso un manifatturiero italiano 4.0, Guerini: Milano, 2017.

[3] Cfr. ivi, p. 56.

[4] Cfr. Ivi, p. 58.

[5] Cfr. ivi, p. 68.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. ivi, p. 48.

[8] Che non è di per sé creazione/accumulazione/concentrazione di nuovo capitale, bensì «il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto» (Karl Marx, Il Capitale I, tomo 3, a cura di Delio Cantimori, ed. Riuniti, Roma: 1970, pp. 74-76).

[9] Cfr. Pasquale Cicalese, Perchè Confindustria scarica le piccole imprese.

[10] Cfr. Viticoli, Verso un manifatturiero italiano 4.0, op. cit., p. 50.

[11] Sempre Cicalese fa notare che per le piccole e medie imprese (PMI), spesso alquanto indebitate, sarà difficile poter accedere al credito per effettuare i dovuti investimenti. Le nuove regole del Comitato di Basilea, infatti, obbligano le banche che erogano denaro ad aziende in sofferenza con rating inadeguato ad accantonare una somma adeguata: il che non incoraggia certo il credito ad un gran numero di PMI.

[12] Takahiro Fujimoto, The evolution of a manufacturing system at Toyota, New York, Oxford University Press: 1999, p. 129.

[13] Sesto Viticoli, Verso un manifatturiero italiano 4.0, op. cit., p. 44.

[14] «Se un’attrezzatura acquistata negli anni Venti è ancora ben conservata e può ancora garantire un’aliquota operabile (la frazione di tempo in cui la macchina funziona conformemente ai suoi compiti) vicina al 100 per cento e se può sostenere il carico produttivo assegnatole, il valore della macchina non è diminuito neanche di un centesimo […]. La mia conclusione è che, se viene fatta una corretta manutenzione, la sostituzione di un vecchio impianto con un impianto nuovo non è mai conveniente». Così scrive il padre del toyotismo, Taiichi Ohno, in Lo spirito Toyota: il modello giapponese della qualità totale. E il suo prezzo (1978), Einaudi: Torino, 2004, p. 92. Naturalmente nulla di nuovo per un marxista, che sa che i padroni sostituiscono le macchine agli operai solo quando è loro conveniente.

[15] Ivi, p. 87.

[16] È la misura della lunghezza del tempo, in minuti e secondi, necessaria a fare un pezzo del prodotto.

[17] Anche per quanto riguarda l’utilizzazione dei macchinari, «automated equipment is adopted selectively by tacking cost, performance, and ergonomics into account, rather than by aiming at the highest assembly automation ratios that are technically possible» (T. Fujimoto, The evolution, op. cit., p. 233).

[18]Per fare un esempio nella storia della Toyota sui frutti del maggior sfruttamento del lavoro: «produrre piccole quantità [alla volta] implica il fatto di non poter protrarre troppo a lungo lo stampaggio di uno stesso componente. Per rispondere alla vertiginosa varietà dei tipi di prodotto, lo stampo deve essere cambiato spesso; conseguentemente, le operazioni d’installazione devono essere eseguite molto rapidamente […]. Nel 1940 i cambi di stampi alla Toyota richiedevano due o tre ore. Mentre il livellamento produttivo si affermava negli anni Cinquanta, i tempi di installazione si riducevano a meno di un’ora e poi fino a quindici minuti. Alla fine degli anni Sessanta, essi erano scesi a soli tre minuti» (Ivi, p. 58).

[19] S. Viticoli, Verso un manifatturiero, op. cit., pp. 76-77.

[20] Ivi, p. 81.

[21] K. Marx, Il Capitale I, T. 1, La città del Sole, Napoli: p. 421.

 

Matteo Pirazzoli

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.