Recensione al libro di Paolo Cognetti Giù nella valle, Einaudi, 2023, a cura di Matteo Cini e Gianni Del Panta.


La vittoria del Premio Strega è qualcosa che probabilmente cade a metà strada tra la benedizione e la tragedia nella carriera di qualsiasi scrittore. Se da un lato regala infatti una certa notorietà, che va oltre gli stretti confini degli addetti ai lavori e dei non molti lettori seriali, dall’altro rischia anche di imprigionare il vincitore in una spirale fatta di confronto ricorrente con il testo vincitore della competizione e di implicite aspettative di una sua eterna riproposizione, magari in forme e contenuti leggermente diversi. Con il suo ultimo libro, Paolo Cognetti prova a smarcarsi dall’ingombrante cliché che, dopo il grande successo de Le otto montagne, lo aveva costretto a essere necessariamente il narratore delle vette più alte. Lo fa voltando le spalle, spazialmente, alle cime alpine e scendendo giù nella valle, dove il sole si fa vedere di rado, e pioggia e nebbia sono le compagne principali di inverni grigi, uggiosi e con ben poca neve ormai. In maniera più sostanziale lo fa però con un deciso passo in avanti in termini di realismo. Se nei suoi precedenti scritti infatti, la montagna era un elemento di riferimento quasi fiabesco, vero e proprio rifugio, per quanto non necessariamente salvifico, rispetto alle dinamiche della metropoli, nell’ultimo testo invece questa, attraverso la sua valle, entra in relazione con la metropoli. Si tratta di un rapporto impari, di subordinazione, in cui la metropoli incalza e avanza a danno della montagna. La valle è l’avamposto della conquista. Allo stesso modo questa, pur essendo ormai integrata nelle dinamiche sociali produttive della metropoli, ne rappresenta la parte più marginale. Non è quindi altro rispetto alla metropoli, ma semplicemente la sua brutta copia.

Lo sguardo realista di Cognetti non si ferma però esclusivamente alla valle. Il vero salto avviene nella rappresentazione della montagna. Questa è sì raffigurata come riserva del vigore della natura, plasticamente resa dal sole che l’accarezza e da un clima più mite rispetto al freddo-umido che infesta il fondovalle. Al tempo stesso però non è né rifugio incontaminato né avamposto della resistenza. Rappresenta piuttosto quello spazio che ancora il capitale non ha conquistato. Il suo grado di opposizione, come rende noto progressivamente il libro, è nullo. Il centro produttivo detiene tutti gli strumenti e le risorse per sottomettere la montagna ai suoi fini speculativi, come nel caso della costruzione del nuovo impianto di risalita per gli sciatori di domani che porterà all’abbattimento di 5 mila piante sane. È il modello odierno della turistificazione della montagna: non più centro di riposo per periodi di villeggiatura estiva che duravano intere stagioni o quantomeno mesi, ma frenetici weekend più o meno lunghi dove la parola d’ordine è quella di “vivere al massimo l’esperienza”. Il traffico del fondovalle si lega quindi al pullulare di una serie infinita di ristoranti, bar, alberghi e negozi di sport per praticare qualsiasi forma di attività estrema. La critica di Cognetti a questo modello turistico non rappresenta il centro del suo romanzo breve. All’opposto, rimane appena accennata. Proprio per questo però il lettore ha la facoltà di tratteggiare a proprio piacimento i cambiamenti che interesseranno il piccolissimo paesino di montagna, un tempo probabilmente semi-sufficiente e poi rapidamente abbandonato dai suoi abitanti quando l’industrializzazione dei grandi centri produttivi del Nord Italia ha richiesto manodopera operaia in pianura nei primi decenni del secondo dopoguerra. Così come la precedente costruzione della strada che avrebbe dovuto portare benessere al paesino, trasformandosi invece in motore del suo spopolamento ulteriore e definitivo, il nuovo impianto di risalita non lo salverà. Qualcuno, come il protagonista del romanzo di Cognetti, trasformerà forse i vecchi ruderi ereditati dalla propria famiglia in tavole calde per i turisti, chiamandole ovviamente rifugi, per denotarne il carattere montano. Altri trasformeranno i propri immobili in case da affittare su Airbnb. Il paese in ogni caso non rinascerà in alcun modo. La millenaria società contadina-pastorale di montagna, rifugio in Val Sesia anche di minoranze perseguitate, è quindi destinata a scomparire per sempre, ammesso che non lo abbia già fatto. Qui troviamo probabilmente una delle immagini più belle che il libro offre: il parallelo tra l’alta montagna alpina e le comunità di nativi delle Americhe.

L’immagine appare attraverso la giustapposizione della vita del protagonista e di quella di suo fratello, anima inquieta che ha trovato una sistemazione, non si sa quanto definita, in Canada. In un tardivo, modesto e apertamente paternalistico tentativo di riparare allo sterminio dei nativi che i coloni europei hanno condotto, il governo canadese ha istituito alcune “riserve” a loro dedicate. Come sottolinea il fratello, comunque, non importa quanto possono essere grandi queste aree. Le comunità native sono state annientate: il consumo frenetico e distruttivo di alcol, al pari di quanto fatto dagli ex montanari alpini adesso abitanti del fondovalle, ne sono la manifestazione. La polemica che ha tenuto banco per alcune settimane rispetto alla denigratoria immagine che Cognetti avrebbe fornito degli uomini della Valsesia, rappresentati come fumatori incalliti, immancabili frequentatori dell’osteria e disinteressati alla dinamica familiare, è quindi così mal posta che non merita attenzione alcuna. Non è infatti un elemento necessariamente reale, ma una semplice raffigurazione attraverso la quale leggere i cambiamenti intervenuti nel territorio e nei suoi abitanti.

Il realismo pessimista di Cognetti mostra però un pesante angolo cieco per l’incapacità di comprendere come la trasformazione dei fondivalle alpini in “lingue di cemento e asfalto che si allungano come tentacoli dalla metropoli” abbiano potenzialmente prodotto anche i becchini di questo modello. A nessun romanzo, tanto più se la forma scelta è quella breve, può essere chiesto di trasformarsi in un saggio che analizzi la nuova geografia del capitale. Stupisce però come Cognetti non tratteggi neanche sommariamente alcune manifestazioni di questo cambiamento. Mancando però di cogliere quale sia il soggetto collettivo che oggi abita alcuni dei fondivalle alpini, l’autore costringe il romanzo nel pessimismo e nell’impotenza più assoluti. Questo ci sembra anche confermato da alcuni suoi interventi recenti nel dibattito pubblico, dove ha sostenuto posizioni che rappresentano un misto tra inni ad una generica disobbedienza civile contro la turistificazione selvaggia della montagna, che per “adattarsi” al riscaldamento globale sposta sempre più in alto la quota sciistica, e azioni eclatanti e solitarie di montanari, nativi o acquisiti che siano, che non si rassegnano al corso degli eventi (Cognetti 2023).

Per comprendere cosa siano oggi le valli alpine – non tutte, si intende – è forse utile tornare al marzo del 2020, quando dopo la decretazione della zona rossa per il diffondersi della pandemia da Covid-19 a Codogno, non avvenne invece altrettanto in Val Seriana, nel bergamasco. Tale decisione, come le varie dichiarazioni ai magistrati da parte dei principali protagonisti della vicenda hanno pienamente confermato, è stato il prodotto delle straordinarie pressioni della Confindustria locale per evitare la chiusura delle attività produttive (De Felice 2024). L’elemento che è emerso, oltre ovviamente al completo disprezzo per la vita umana di fronte alla sete insaziabile di profitto, è la straordinaria concentrazione in Val Seriana di aziende di medio-grandi dimensioni, con un elevato grado di sviluppo tecnologico e rivolte principalmente all’export. Accanto a queste poi, un pulviscolo di piccole e piccolissime aziende in posizione subordinata. I comuni dove tutta questa forza industriale si concentrava erano quelli di Alzano Lombardo e Nembro: entrambi sotto la soglia dei 15 mila abitanti. In un numero precedente di questa rivista abbiamo analizzato nel dettaglio questa nuova geografia della classe lavoratrice (Caciagli e Del Panta 2022). Per quanto non sia un fenomeno recentissimo, rappresenta un elemento di grande differenziazione rispetto al modello fordista, dove la classe lavoratrice impegnata nella produzione si trovava concentrata là dove erano concentrate le fabbriche: ovvero, nei grandi centri urbani. Questi ultimi erano tre cose assieme: agglomerati di produzione; spazi di vita della classe operaia; ed infine mercato nel quale circolavano e venivano consumate le merci. La fine del modello fordista, che si fondava sulla concentrazione spaziale all’interno di un solo, gigantesco agglomerato industriale di tutte o quasi le fasi della produzione, ha dato vita ad una nuova geografia di classe. Questa si è caratterizza per la centralità delle aziende di dimensioni medio-grandi che controllano una filiera molto estesa alle loro spalle e che sono spesso site in zone periferiche o semi-rurali. Quello che abbiamo visto emergere negli ultimi decenni è quindi l’industrializzazione della campagna e dei fondivalle alpini.

Una lettura che colleghi la relazione che intercorre tra territorio e riproduzione della classe lavoratrice è determinante per due ragioni. Da un lato, permette infatti di evitare la trasformazione in un’entità quasi metafisica della metropoli, come sembra accadere al libro di Cognetti in alcuni passaggi. Dall’altro, ci fornisce il potenziale attore che può sconfiggere un modello di sviluppo che non può che portare alla devastazione delle montagne, e non solo. Questo attore, nella prospettiva che questa rivista difende, è la classe lavoratrice. Non per una mera riproposizione di quanto potrebbe suonare come una formula vuota, ma per il riconoscimento che la classe lavoratrice detiene una posizione strategica all’interno della società capitalista (Turci 2023). È per questa ragione principale che questa rappresenta il soggetto che deve necessariamente guidare quel processo di trasformazione radicale che porti al superamento del modello di sviluppo odierno. Tutto questo non significa ovviamente sostenere che la classe lavoratrice possa fare tutto da sola. Necessità di alleati e truppe di riserva pronte ad assisterla nel suo scontro con il capitale, come ad esempio il movimento ecologista. Il romanzo, per una questione di contestualizzazione storica e non certo di scelta dello scrittore, siamo infatti ad inizio degli anni duemila, non mette in scena la questione della crisi climatica. Ma nella montagna di oggi sappiamo che questa assume un’assoluta centralità. Agli intellettuali della città, ai Cognetti, ad Elisabetta (moglie del protagonista del romanzo e figura che ricorda Cognetti stesso) e a tutti coloro che nelle valli alpine si sono stabiliti, alle attiviste ecologiste o a chi coglie semplicemente la fascinazione per un vecchio mondo montano in pericolo di vita, si pone la questione di riconoscere cosa in mezzo alla valle non partecipa al banchetto del capitale imbastito sul crinale della montagna. Riconoscere cioè che non c’è unicità e compattezza né in valle né in città, ma che esiste al loro interno una forza in grado di spezzare gli ingranaggi della devastazione ambientale. Al riguardo, il romanzo di Cognetti rimane silente.

Matteo Cini e Gianni Del Panta

Questo articolo fa parte del numero 7, ottobre 2023, della rivista Egemonia.

Riferimenti bibliografici

Caciagli C e G Del Panta (2022) “La scomparsa delle fabbriche? Appunti sui cambiamenti nella geografia di classe in Italia”. Egemonia 2(2): 43-57. Disponibile a: lavocedellelotte.it/2022/02/28/la-scomparsa-delle-fabbriche-appunti-sui-cambiamenti-nella-geografia-di-classe-in-italia.

Cognetti P (2023) “Io, ambientalista, tra petardi e molotov contro lo scempio dello sci sul Cervino”. La Repubblica. Disponibile a: repubblica.it/cronaca/2023/11/08/news/lo_scrittore_paolo_cognetti_chiamatemi_ecoterrorista_ma_lotto_contro_lo_scempio_dello_sci_sul_cervino-41982632.

De Felice D (2024) “Covid, sono basito dalle intercettazioni sulla creazione delle zone rosse a Bergamo”. Il Fatto Quotidiano. Disponibile a: ilfattoquotidiano.it/2024/02/07/covid-sono-basito-dalle-intercettazioni-sulla-creazione-delle-zone-rosse-a-bergamo/7435672.

Turci G (2022) “La classe lavoratrice e le sue posizioni strategiche: la base della forza operaia e le sue possibili strategie”. Egemonia 2(3): 22-31. Disponibile a: lavocedellelotte.it/2022/07/10/la-classe-lavoratrice-e-le-sue-posizioni-strategiche-la-base-della-forza-operaia-e-le-sue-possibili-strategie.

Nato nel 1995 a Firenze, dove ha studiato Fisica e ha militato nei collettivi universitari fiorentini. Dal 2022 dottorando a Bologna in Dinamica del Clima, in particolare si occupa di Tipping Points climatologici.

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).