Pubblichiamo la seconda e ultima parte (qui la prima) di uno studio sullo scritto Verso un manifatturiero italiano 4.0 il quale dà molti elementi utili, provenienti dal dibattito della borghesia italiana, a capire quali scenari si aprono con l’avanzare del nuovo modello industriale “4.0”.


Su Amazon e la necessità di approfondire la lotta.

Ammesso che l’analisi che si è appena conclusa abbia un nocciolo di verità, le implicazioni politiche derivanti dalla riorganizzazione del lavoro in Italia sono evidenti e non è compito di chi scrive dettare la linea: per ora, è sufficiente aprire un dibattito. Purtroppo non posso esimermi da abbozzare qualche conclusione politica. Innanzitutto vorrei partire da un’eccezione che conferma la regola, per così dire, ossia il piano Shipping with Amazon che da poco Jeff Bezos ha messo in campo, nel tentativo di internalizzare il trasporto delle merci. Questo va chiaramente contro la politica di outsourcing sopra delineata.

I vantaggi dell’esternalizzazione di intere funzioni di produzione[1] derivano dall’alta specializzazione delle aziende cui si appaltano quelle stesse funzioni: tale specializzazione permette all’azienda che esternalizza di risparmiare e di diminuire gli sprechi di una gestione meno efficiente. Non solo: come si è visto la parcellizzazione delle funzioni produttive in catene del valore, nazionali e spesso internazionali, permette ad un’azienda di scavalcare le organizzazioni sindacali, dividendo la classe lavoratrice per sfruttarla meglio, così da estrarne maggior plusvalore. Ora, in Italia Amazon ha un accordo annuale con Poste Italiane: Poste ha visto aumentare dallo scorso anno le consegne derivanti dall’accordo con la multinazionale americana, ma già l’amministratore delegato, Matteo Del Fante, avrebbe espresso i suoi timori circa i recenti piani di Amazon.[2] Del Fante teme che Amazon abbia usato Poste Italiane per allargare il proprio giro commerciale in Italia, per poi scaricare Poste appena possibile, attraverso un proprio sistema dei trasporti. Timore forse non del tutto “campato per aria”: se è vero che la funzione dell’outsourcing è quella sopra delineata, in Italia Amazon potrebbe avere un problemino con Poste Italiane: l’aumento della sindacalizzazione del settore. Le lotte eroiche dei facchini del SI Cobas, da appoggiare senza riserve, sono un bastone tra le ruote dei padroni, in primis di Amazon. L’aumento del livello del tenore di vita dei lavoratori delle aziende cui si esternalizzano le funzioni produttive non può che erodere il vantaggio economico per l’azienda che esternalizza, poiché ne incrementa i costi: a parità di costo, infatti, tanto vale reintegrare quello specifico ramo all’interno dell’azienda “madre”, incrementando la sincronizzazione dei processi di produzione (o di distribuzione, nel caso di Amazon). Le lotte della logistica, che in Italia rappresentano il settore più avanzato della classe operaia in questo momento, si trovano forse davanti ad un ostacolo prossimo venturo a cui urge prepararsi elevando il livello politico dello scontro. È evidente che qui non si tratta più di giuste rivendicazioni salariali, di aumento di diritti e di conquiste sindacali strappate e da strappare ancora attraverso le lotte, come hanno fatto e continuano giustamente a fare i lavoratori del sindacato maggioritario della logistica, il Si Cobas, appunto. Qui si tratta di mettere in discussione l’assetto dei rapporti capitalistici di produzione e non in teoria, come punto solo indirettamente legato alle lotte concrete e quotidiane, bensì come punto concreto e di immediata salvaguardia dei diritti fino ad ora conquistati: contro Amazon va posta la necessità di un approfondimento della lotta che non può essere solo sindacale, ma anche politica. Si pone la questione di allargare la solidarietà al di fuori della logistica, con tutti i lavoratori combattivi e critici anche di altri sindacati, e soprattutto di un’organizzazione politica di lavoratori in grado di opporre ad Amazon o aziende simili una visione del mondo diversa, rivoluzionaria, mettendo in discussione le logiche altrimenti inesorabili del capitale.

 

Sulla divisione dei lavoratori e sull’intersindacalismo.

Il modello del just in time e delle catene orizzontali sopra delineato potrebbe essere un’arma a doppio taglio per i padroni. Da un lato, come si è già accennato, la parcellizzazione delle funzioni produttive nelle catene del valore contribuisce alla parcellizzazione anche della classe operaia, approfondendone potenzialmente la crisi sindacale e politica già in atto almeno in una fetta maggioritaria della stessa. I metodi del toyotismo, che stanno alla base di industria 4.0, hanno come presupposto l’assenza di sindacati anche minimamente combattivi[3] e la scientifica divisione della classe lavoratrice nei diversi stabilimenti delle catene di valore, sfruttando la diversità delle tipologie contrattuali, ma anche le differenze sessuali ed etniche per disincentivare l’unità della classe, creando veri e propri stabilimenti ghetto.[4] La tendenza a creare stabilimenti per stranieri è oltretutto già evidente, in relazione sempre al comparto della logistica. Davanti ad una parcellizzazione e divisione della classe lavoratrice del genere, i sindacati (specie le burocrazie pachidermiche confederali) probabilmente si ritroverebbero spiazzati: qui entrano in gioco i rivoluzionari interni al sindacato. Noi comunisti sappiamo bene che l’unità della classe non è necessariamente l’unità all’interno di una sigla sindacale: il compito di un rivoluzionario è quello di catalizzare la connessione dei lavoratori al di là delle sigle sindacali, al di là delle contestazioni “di bottega” (per quanto alle volte comprensibili, ma sempre da combattere) tra singole sigle, quello di favorire l’unità nella lotta dei lavoratori. Davanti ad uno spiazzamento dei sindacati, dunque, il compito dei comunisti potrebbe essere in prospettiva più accentuato, favorendo un legame più stretto tra il livello della lotta economica e di quella politica: non dobbiamo certo morire a causa delle contraddizioni che necessariamente accompagneranno la crisi sempre più profonda delle burocrazie sindacali (più o meno grandi), bensì tentare di essere protagonisti nel superamento della loro empasse, rompendo con le logiche “puramente sindacali”. Inoltre – e qui sta il doppio taglio della lama del just in time – la diminuzione delle scorte e l’aumento delle responsabilità della forza lavoro nell’andamento regolare della produzione fa sì che le lotta possano essere molto più distruttive per i padroni, seppur più difficili da organizzare all’inizio. Lo sciopero delle mansioni, i ritardi provocati dai lavoratori su singoli anelli della catena del valore, possono provocare molti più danni al padrone, dato che si andrebbe a rompere con l’azione politica e sindacale una sempre più elevata ed importante sincronizzazione della produzione.

 

Note

[1] Nel caso di Amazon si parla di esternalizzazioni afferenti al capitale commerciale, dunque improduttivo di plusvalore. Tuttavia, nella misura in cui Amazon si sforza di assorbire una quota più ampia possibile di plusvalore prodotta dalle branche produttive dell’economia, il senso della presente esposizione non cambia. Non è questo il luogo per approfondire la differenza tra capitale produttivo ed improduttivo.

[2] https://www.corrierecomunicazioni.it/digital-economy/amazon-lo-scorpione-pungera-la-rana-poste/

[3] Cfr. Tony Smith, Technology and capital in the age of lean production: a marxian critique of the “new economy”, State University of New York Press, Albany: 2000, p. 72. Non è questo il luogo per tracciare una storia (pure interessante) del toyotismo, ma si pensi che i nuovi metodi di sfruttamento della Toyota hanno potuto essere implementati solo dopo la sconfitta epocale di uno sciopero ad oltranza eroico dei lavoratori, nel 1952. La sconfitta di quello sciopero ha spezzato i sindacalisti rivoluzionari e comunisti interni alla Toyota, favorendo una più generale marginalizzazione dei rivoluzionari all’interno della società Giapponese avvenuta proprio in quegli anni.

[4] Cfr. Ivi, p. 66.

 

Matteo Pirazzoli

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.