Nonostante la “ripresina” sbandierata da più parti, i processi di ristrutturazione e crisi aziendali sono tutt’altro che scomparsi negli ultimi tempi. Anzi, il biennio 2017-2018 si è rivelato un “annus horribilis” da questo punto di vista: nel periodo in questione, infatti, il numero di tavoli aperti al Mise è aumentato sensibilmente, mentre il numero di lavoratori coinvolti ha superato il picco toccato nel 2016, con l’avvio datato lo scorso anno di trattative tra lo Stato e alcuni grandi gruppi, in realtà da tempo in difficoltà, come ILVA ed Alitalia.

 

Figura 1 Fonte: Ministero dello Sviluppo Economico

 

Si riaprono inoltre contenziosi che il MISE aveva depennato dalla sua lista, ma che sono tornati alla ribalta dopo che gli acquirenti delle aziende in crisi – infarciti di incentivi fiscali e soldi pubblici dietro promessa di nuovi investimenti – hanno finito per tradire tutte le aspettative. Come ammette lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico: “La gestione dei diversi dossier ha una durata temporale superiore all’anno (media ca. 28/30 mesi), con un numero non trascurabile che si “trascina” anche per 60 mesi (Alcoa, Lucchini, Termini Imerese, OM Carrelli, Gepin, Ideal Standard). Il 50% dei “casi” trattati si ripropone al tavolo ministeriale dopo aver risolto le cause [cosa che a sua volta avviene solo nel 58% degli episodi totali n.d.a.]”.

 

È la situazione, ad esempio, dei 500 lavoratori dell’Irisbus e della MenariniBus di Bologna ed Avellino, acquistate nel 2014 dalla cinese KianLong con il supporto di Finmeccanica, il cui impegno ad un piano di investimenti utile al recupero degli esuberi messi in campo dalla FIAT nel 2011 non si è ancora concretizzato. Sembrava invece essere andato tutto liscio per i 300 operai della ex-Pirelli di Figline (Firenze) dopo che nel 2014 la divisione cavi d’acciaio della multinazionale milanese era stata acquistata dalla Baekart, mantenendo la situazione occupazionale precedente. Sembrava essere andato tutto liscio almeno fino a venerdì scorso, quando il colosso Belga ha notificato senza preavviso – e a soli due mesi da una incoraggiante riunione di aggiornamento al MISE – 300 lettere di licenziamento.

 

Nel frattempo, dallo scorso gennaio ad oggi nuove vertenze si sono sommate a quelle accumulatesi in passato. Lo sanno bene i 300 lavoratori e lavoratrici della Invatec di Roncadelle e Torbole Casaglia (Brescia), colpiti tre settimane fa dalla decisione della Medtronic – multinazionale del biomedicale che ha acquisito il gruppo bresciano nel 2012 – di trasferire tutta la produzione in Messico, nonostante non si riscontrino problemi finanziari. Si trascinano poi da anni decine di altri casi, da quello molto noto delle acciaierie di Piombino (2000 lavoratori coinvolti; solo 700 quelli che pare verranno “salvati” dalla nuova proprietà), a quello meno conosciuto del Mercatone Uno, dove comunque sono oltre un migliaio i salariati ai quali per ridurre gli esuberi vengono proposti contratti part-time e annesse decurtazioni dello stipendio, mentre si tratta di una vertenza che si inserisce nella più generale crisi della grande distribuzione al dettaglio – segnata dall’espansione dell’E-Commerce e dalla stagnazione dei consumi interni – di cui stanno pagando le conseguenze anche i lavoratori di Auchan. Una rassegna – pur approssimativa come la nostra – delle crisi aziendali deve poi tenere conto dei recenti annunci di Marchionne rispetto alla riduzione della produzione dei motori a Diesel da parte di FCA e del trasferimento della Panda da Pomigliano alla Polonia, a cui è seguita la cassa integrazione a zero ore per 2000 lavoratori dello stabilimento in provincia di Napoli.

 

Di Maio “padre” dei lavoratori…o amico dei padroni?

Il tema delle crisi aziendali continua a tenere banco, oltre che per ragioni oggettive, anche in virtù dell’attivismo mostrato dal nuovo ministro del lavoro e dello sviluppo economico Di Maio nei confronti della questione. “Ci sono tante crisi aziendali sul territorio. Le affronteremo una ad una non risparmiandoci. Dobbiamo metterci più umanità e stare vicino a chi è più debole”. Queste le parole del leader grillino che ha inoltre promesso l’approvazione di una misura volta a proibire le delocalizzazioni per le imprese beneficiarie di incentivi pubblici, presto trasformatasi – dopo i rimproveri di confindustria – in una più blanda idea di sanzionare le aziende intenzionate a spostare la produzione.

Finora parole, ma ci sono anche dei fatti, come la nomina a capo di gabinetto del ministero dello sviluppo economico di Vito Cozzoli, burocrate di Stato (e delle organizzazioni calcistiche internazionali) di lunga data, salito alla ribalta delle cronache durante l’ultima legislatura per aver aiutato la multinazionale francese Total ad ottenere lo sblocco dei lavori del Giacimento di Tempa Rossa in combutta con il governo Renzi. Tra i sottosegretari designati dal nuovo ministro, poi, si annoverano Michele Geraci, economista di fama internazionale e per anni in forza per le principali “banche d’investimento a livello mondiale” (come dichiara con orgoglio nel suo curriculum); al suo fianco Dario Galli, politico di carriera in quota centro-destra e già consigliere di amministrazione di Finmeccanica, azienda di Stato che come abbiamo visto è implicata nella vertenza dei lavoratori della ex-Iribus e Menarinibus.

Insomma, ammesso e non concesso che si voglia procedere ad un decreto anti-delocalizzazioni non lo scriverebbero di certo i lavoratori, bensì funzionari rodati e pienamente organici alla classe capitalistica come quelli appena citati. In effetti, il governo Giallo-verde potrebbe ritirare fuori dal cassetto un progetto di legge depositato l’anno scorso a firma del leghista Giorgetti, nel quale si stabiliva che le imprese intenzionate a delocalizzare avrebbero dovuto restituire allo Stato tutti i benefici fiscali ottenuti nel corso del tempo, oltre a subire dazi del 10% sulle merci reimportate dagli stabilimenti ricollocati.

A spostare la produzione all’estero tuttavia non ci pensano solo le multinazionali straniere, ma anche i padroni nostrani e i settori di media imprenditoria del nord che rappresentano la reale base sociale della Lega, la quale non a caso si è prodigata per favorire i processi di internazionalizzazione delle imprese, come attesta – solo per fare un esempio – la creazione di un fondo apposito da parte della Regione Lombardia guidata ieri da Maroni ed oggi dal collega Fontana. Se dunque proporre un provvedimento del genere di fronte ad un parlamento dove il Carroccio era escluso dalla maggioranza non costava nulla, ripresentarlo oggi, quando potrebbe ottenere i numeri, comporterebbe l’insorgere di tutta una serie di pressioni che finirebbero inevitabilmente per vanificarne la sostanza. Peraltro, il comma forse più incisivo del disegno in questione – quello dei dazi – implicherebbe una rottura unilaterale con i trattati europei che, al di là della retorica, il nuovo governo non ha nessuna intenzione di mettere in discussione.

Secondo alcune indiscrezioni, d’altro canto, Di Maio e soci starebbero già ripiegando su una proposta ben più moderata, in base alla quale la restituzione dei contributi per le imprese che delocalizzano si applicherebbe solo alle aziende al di sopra dei 1000 dipendenti e solo nel caso spostassero la produzione prima di 3 anni dall’erogazione degli incentivi (Sole24Ore 24\06\2018); praticamente la stessa legge vigente in Francia, paese in cui però non esiste la ridicola clausola in base alla quale basta aspettare 36 mesi ed un giorno per potersene andare impunemente e dove ciò-nonostante le delocalizzazioni sono state il doppio di quelle avvenute in Italia dal 2002 al 2016 (114 contro 64, tenendo conto solo dei casi nei quali i lavoratori che hanno perso il posto sono stati oltre 100; M. Gaddi, N. Garbellini, “I Processi di Delocalizzazione in Europa”.)

La questione delle delocalizzazioni, inoltre, rappresenta solo una parte ridotta di quella più generale delle crisi aziendali, la gestione delle quali costituisce a sua volta solo una piccola frazione delle attività svolte da una struttura burocratica come il MISE. Quest’ultimo, infatti, dedica la gran parte delle sue energie a dirimere le controversie tra capitalisti e soprattutto ad elaborare strategie per aiutarli a “competere” (vedi alla voce fare più profitti tramite crediti, agevolazioni fiscali, partecipazioni etc.); un orientamento che inevitabilmente si traduce in legami finanziari ed anche personali molto stretti tra i padroni e l’istituzione in questione, la cui “aura” di neutralità nel conflitto capitale-lavoro non può dunque reggere ad un’analisi attenta.

Non deve allora stupire se la stessa gestione ministeriale delle crisi aziendali è influenzata molto più dall’esigenza di creare le condizioni migliori per gli investitori che da quella di tutelare i lavoratori, una realtà che l’ascesa di Di Maio alla guida del dicastero non può cambiare in maniera sostanziale, né è espressione di una sincera volontà in questo senso, come dimostrano le nomine filopadronali ai vertici della struttura analizzate in precedenza. Il leader grillino, peraltro, nella stessa dichiarazione in cui promette il contrasto alle delocalizzazioni e maggiore “umanità” nei confronti degli operai, ha tenuto a sottolineare che “le crisi aziendali non sono sempre colpa delle imprese”. Certo, il sistema capitalistico si avvita ormai da un decennio in una crisi strutturale, ma è chiaro che lavoratori e capitalisti non sono sulla stessa barca: un’azienda avvia un processo di ristrutturazione per salvaguardare i propri profitti, mentre gli operai – sulla cui pelle lo stesso padrone si è arricchito – finiscono nella miseria. È evidente, perciò, che quando il vice-premier si esprime in questo modo sta chiarendo in maniera molto esplicita da che parte sta.

 

I lavoratori non hanno santi in paradiso

È perfettamente comprensibile che dopo decenni di arretramenti, controriforme sul lavoro e una crisi devastante sopportata dai salariati senza l’appoggio di forze politiche in grado di fornirgli un’alternativa di classe, la retorica paternalista di Di Maio possa suscitare molte illusioni. I lavoratori, tuttavia, devono avere chiaro che non hanno santi in paradiso e che per difendere il proprio posto di lavoro possono affidarsi solo propria forza. Una forza che spesso nemmeno sanno di avere, anche per responsabilità delle burocrazie sindacali, il cui obiettivo più o meno dichiarato quando si apre una vertenza si limita all’ottenimento di buone-uscite, di qualche prepensionamento, o di un intervento “risolutivo” del MISE. Si tratta invece di non transigere nella difesa dei posti e delle condizioni di lavoro, estendendo le lotte e portandole alle estreme conseguenze, facendo i conti con una realtà che parla chiaro; come abbiamo visto la stragrande maggioranza delle crisi aziendali si trascina per lungo tempo o si riapre nel giro di qualche anno, e non potrebbe essere altrimenti…

 

Perché mai, infatti, una multinazionale che ha come orizzonte il mercato mondiale dovrebbe avere a cuore le sorti dei lavoratori di una singola fabbrica in un singolo paese? Perché mai un capitalista dovrebbe comprare gli impianti di un concorrente in difficoltà facendo gli investimenti necessari a salvaguardare l’occupazione, quando per accaparrarsi una nuova fetta di mercato gli basta aumentare i livelli di saturazione degli impianti già posseduti e coprire il resto con una ristrutturazione del nuovo acquisto? Perché mai quando la profittabilità del capitale, dopo 10 anni di crisi, non si è ancora ristabilita, i padroni dovrebbero impegnarsi in seri progetti di investimento, a maggior ragione sapendo che nessuno gli chiederà mai conto degli incentivi fiscali e di tutte le agevolazioni ottenute a fondo perduto? Perché mai lo Stato e i partiti dell’attuale spettro parlamentare (dal centro-destra, al centro-sinistra, fino a leghisti e pentastellati) dovrebbero “salvare” le aziende in crisi varando provvedimenti più seri delle solite elargizioni di denaro pubblico, quando coloro ai quali davvero rispondono sono banchieri e industriali? A tutte queste domande i lavoratori devono controbattere: perché mai se il padrone se ne vuole andare non possiamo tenerci la fabbrica che – noi, non il padrone – facciamo funzionare ogni giorno? Perché mai di fronte a una situazione di crisi dovremmo limitarci a digerire le proposte del Ministero dello Sviluppo economico, quando anche noi possiamo fare un’ “offerta che non si può rifiutare”? Perché mai dovremmo limitarci a chiedere la cassa integrazione straordinaria quando potremmo occupare gli impianti e rivendicarne la nazionalizzazione sotto il nostro controllo?

 

Django Renato

 

Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.