Oltre ad aver aperto la sezione “Orizzonti” nell’ultima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, l’uscita del film “Sulla mia Pelle”, che racconta le ultime ore del povero Stefano Cucchi, è stata accolta con un misto di rabbia e commozione da tanti, soprattutto da compagni d’ogni orientamento. In effetti si tratta di un’opera molto cruda e coinvolgente, anche grazie alla magistrale interpretazione di Alessandro Borghi in grado di suscitare un forte senso di empatia nei confronti del protagonista.

Scontata invece la veemente irritazione dei sindacati di polizia, partendo da Tonelli, ex SAP (Sindacato Autonomo di Polizia ed oggi parlamentare con la Lega) passando da Franco Maccari (Federazione Sindacale di Polizia) per arrivare a Donato Scapece (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) tutti uniti nel condannare un film che probabilmente nemmeno hanno visto.

Non è la prima volta che il cinema tratta un argomento come la repressione poliziesca e i relativi abusi, basti pensare al capolavoro di Mathieu Kassovitz “L’Odio” del 1995. Film del genere sono importanti, oltre che per il loro valore artistico, nella misura in cui ci spingono a riflettere sul significato e sull’entità della violenza statale.

Secondo le statistiche dell’associazione Antigone tra il 2000 e il 2018, 2.830 persone sono morte nelle strutture penitenziarie; non sono disponibili cifre disaggregate rispetto a coloro i quali sono morti in seguito a sevizie etc., ma è significativo che il 70% dei decessi sono rappresentati da persone che si sono tolte la vita. Lecito domandarsi quante volte la dicitura “suicidio” sui certificati di morte non sia una copertura per qualcosa d’altro… Almeno alla luce di vicende come quelle di Cucchi, “caduto dalle scale”, come dissero i suoi aguzzini – tutti assolti – per giustificare gli ematomi sul corpo del ragazzo.

Dalle stesse indagini rispetto alla morte del giovane geometra romano, peraltro, sono emerse testimonianze che confermano l’esistenza di una “prassi collaudata” nelle carceri italiane; l’ex moglie di uno dei carabinieri indagati – Raffaele D’Alessandro – ha infatti confermato in procura il contenuto di una telefonata: “Ricordo che Raffaele mi parlò di un violento calcio che uno di loro aveva sferrato al Cucchi. Preciso
che Raffaele raccontava che il calcio fu sferrato proprio per provocare la caduta. Quando
raccontava queste cose Raffaele rideva, e davanti ai miei rimproveri, rispondeva: ‘Chill è
sulu nu drogatu e’ merda’! Raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che erano stati arrestati o che comunque avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo in particolare che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari,anche se non si trattava di pestaggi di questo livello.”

La realtà qui brevemente tratteggiata non è però un caso, ma dipende dalla natura essenzialmente di classe dello Stato, la cui funzione è quella di reprimere e di controllare, attraverso il sistema di detenzione, il “disagio sociale”, costantemente riprodotto dal capitalismo. Come mostra sempre il report della fondazione Antigone la maggiorparte dei detenuti appartengono alle fasce di reddito più basse e alle minoranze etniche, una quota molto consistente dei quali (20.000) “è dentro” per scontare pene inferiori ai tre anni, ovvero a causa di reati legati alla droga e alla micro-criminalità, quindi in ultima analisi alle leggi che penalizzano in maniera assurda il possesso di sostanze stupefacenti, anche leggere, e gli effetti della povertà. Non stupisce insomma che la violenza nelle carceri sia così pervasiva – e che se ne sappia così poco – dato che a essere reclusi sono i settori sociali più indifesi e vulnerabili di fronte a un apparato poliziesco i cui membri sono educati alla criminalizzazione dell’“emarginato”, oltre ad essere spesso reclutati tra i peggiori sadici.

È utile a tal proposito ricordare come gli apparati dell’attuale Stato borghese siano sostanzialmente in continuità, come strutture e uomini, con quello fascista; e non avrebbe potuto essere altrimenti, con buona pace di chi inneggia alla “Costituzione”, essendo stata quest’ultima prodotto dello stesso compromesso con la borghesia che – tradendo la spinta rivoluzionaria della resistenza – condusse Togliatti (ministro della giustizia nel 47) ad amnistiare i fascisti e a lasciarli nelle loro posizioni all’interno della burocrazia, della magistratura, dell’esercito e della polizia [1].

Roger

[1] Su questo tema si rimanda all’ottimo libro di Cesare Bermani, L’Amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Feltrinelli, 2016.

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.