L’identità è una costruzione storica e sociale ed uno degli elementi primari attraverso i quali essa si costruisce è la sessualità e il genere. Questi sono alcuni degli aspetti più innovativi di cui fu foriera la psicoanalisi sin dai suoi albori ma sono anche quelli ben presto dimenticati ed oscurati dai suoi aspetti più conservatori, come il mitologema e il simbolismo fallocentrico che Freud pone alla base sia della“filogenesi” dell’umanità sia dell’ “ontogenesi” dell’individuo, a partire dal quale arriva a spostare, ad esempio, la causa della psicosi dall’uomo violentatore alla donna “deviata, seduttrice e bugiarda”.
Simbolismo che si riallaccia alla corrente lacaniana dove il Padre si fa Padrone e Legge, restringendo i luoghi dell’origine della psicosi: dall’ introiezione dei divieti imposti dalla società tramite i genitori alla sola famiglia, in quanto, come abbiamo detto, l’azione limitante è interamente a carico del Padre.
Negli ultimi anni assistiamo però ad una controtendenza, come è il caso del libro discusso di seguito nell’articolo, nella psicoanalisi che cerca di liberarsi sia dell’approccio deterministico del riduzionismo biologico proprio del cognitivismo comportamentista si a di quello strutturalista che ha finito per cristallizzare le strutture psichiche e renderle universali e astoriche. Questi approcci riduzionisti hanno finito per proporre dei modelli clinici incentrati sul binomio normale/diverso dove il secondo termine si identificava quasi sempre con patologico e sotto il quale quindi finivano per rientrare tutte le forme di “diversità” sessuale.
Il mettersi in questione della psicoanalisi, riuscire a scorgere i suoi stessi limiti: impostazione patriarcale e normalizzante è quanto di positivo si può scorgere in questo testo ma questa critica viene portata avanti solo ad un livello culturale. Ciò che manca in questa sorta di autocritica è l’osservazione indispensabile che la determinazione della sessualità e del genere non siano un fatto semplicemente culturale ma che dipende dalle necessità materiali basate su determinate relazioni sociali e quindi di produzione e riproduzione della società stessa che impongono che la prima sia affidata all’uomo e la seconda alla donna. Una tale profondità dello sguardo nella critica, quindi, può essere data solo se la psicoanalisi decide di incontrare il marxismo.
In Argentina, dall’anno 2015 e in seguito alla spinta di #NiUnaMenos, il movimento delle donne viene istallandosi nell’agenda dei dibattiti politici, sociali e accademici. Le massicce mobilitazioni contro i femminicidi hanno stimolato nuovamente dibattiti sul ruolo delle donne nella società attuale e aperto il cammino per la revisione della Legge di Interruzione Legale della Gravidanza portata per la prima volta quest’anno al Congresso dei Deputati.
Non è strano, allora, che alla luce di queste mobilitazioni siano sorti nuovi interrogativi nei campi del sapere riguardo le donne e la diversità sessuale: medicina, psichiatria e anche la psicologia; o che tutta una nuova generazione di studenti e docenti riprenda con rinnovata forza problematiche e questioni irrisolte per anni dimenticate.
Nella psicoanalisi questi dibattiti trovano spazio in controtendenza ad una corrente conservatrice che tende a pensare la costruzione del soggetto a partire da criteri patriarcali o eteronormativi, arrivando persino a dequalificare il movimento delle donne [2]. Nel quadro di una disciplina in crisi a fronte dell’avanzamento dell’approccio riduzionista biologicista delle neuroscienza e dei criteri di normalizzazione su cui si basano le Terapie Cognitivo Comportamentaliste, nel nostro paese esiste una forte predominanza del settore più conservatore della psicoanalisi lacaniana, che a partire dai presupposti teorici propri dello strutturalismo giunge ad un’altra forma di riduzionismo conservatore: l’universalità del Nome del Padre come simbolo del padrone, che si esplicita nelle questioni di genere, accentuando la crisi. E così nella Facoltà di psicologia della UBA (Università di Buenos Aires), la principale cattedra di psicopatologia incentra le sue elaborazioni sulla difesa della categoria di perversione usata con la finalità di interpretare come patologica la diversità sessuale e allo stesso modo interpreta la transessualità come psicosi [3].
Il movimento di donne mette in evidenza quella che era già un urgenza per la disciplina stessa: se si vogliono riscattare nella psicanalisi i suoi apporti più sovversivi ed emancipatori per la psicologia, è necessario problematizzare le sue posizioni riguardo al genere e alla sessualità.
In questa cornice, la raccolta realizzata da Irene Meler [4] costituisce proprio questo tentativo di riscatto della psicoanalisi facendola dialogare con gli sviluppi degli studi di genere e con il pensiero femminista in generale.
Quello che hanno in comune le diverse autrici ed autori, oltre all’essere psicoanalisti, è “la convinzione del carattere storico e sociale e pertanto contingente delle soggettività” [5], cercando così di evitare di cadere in criteri di salute mentale che rendano patologico tutto quello che differisce dal modello egemonico, come è accaduto con la comunità omosessuale o trans. Questo implica, come scrive la Meler nella prefazione, che…
“il confronto teorico con i modelli concettuali che hanno ridotto la comprensione dello psichismo a deterministici presupposti biologici [che] si articola necessariamente con la messa in discussione di posizioni strutturaliste astoriche che prevedendo l’esistenza di invarianti universali per non ricadere negli stessi schemi moderni prestabiliti, che caratterizzarono inizialmente il riduzionismo biologicista [6].”
Così, si cerca di trovare apporti dall’antropologia, dalla sociologia e dalla filosofia per evitare entrambi i riduzionismi. Politicamente, l’obiettivo è combattere “per la parità tra i generi. La visibilizzazione, la desnaturalizzazione e sconfiggere le forme di oppressione basate sulle differenze sessuali come parte di un compromesso democratizzatore” [7].
L’ordine simbolico patriarcale messo in questione
Il libro raccoglie differenti dibattiti di attuale interesse circa l’intreccio tra psicoanalisi e genere: infanzia trans, aborto, violenza “familiare” [8], relazioni amorose, violenza di genere e abuso sessuale infantile, tra gli altri. Affronta anche il ruolo del movimento femminista e della diversità sessuale nella costruzione di nuove concettualizzazioni, facendo perno sulla trasformazione culturale come possibilità della messa in discussione del patriarcato e come resistenza alle imposizioni del capitalismo.
Irene Meler analizza le convergenze e le discordanze tra i generi, dalle problematiche della vita coniugale in relazione alla separazione tra il desiderio e l’attaccamento e l’industrializzazione delle relazioni, fino ad arrivare alle nuove forme di relazione nella postmodernità; le pratiche swinger, le relazioni tra donne adulte e uomini più giovani, nuove forme di divorzio, etc. Introduce poi a sua volta una critica alla visione eteronormativa propria dello strutturalismo lacaniano attraverso la quale vengono pensate le relazioni sessoaffettive tra generi, volendo includere in questa prospettiva anche quelle che si pongono fuori dal binarismo femminile-maschile. Secondo le sue parole siamo di fronte al rischio di reiterare criteri di normalizzazione adattiva già obsoleti, o adottare di questi una correzione politica acritica che non riconosce le difficoltà e le sofferenze di coloro che non vengono presi in considerazione” [9].
Enuncia così una proposta basata sull’accompagnamento come posizione che deve avere l’analista.
Ana Maria Fernandez dibatte sul terreno della sessualità, discutendo contro posizioni che amalgamano identità di genere, sesso biologico, desiderio, pratiche e piaceri ( ciò sarà ripreso anche per coloro che trattano di “Infanzia Trans”). L’autrice interroga il concetto di differenza sessuale nella psicoanalisi a partire dalla categoria “diversità” e critica il pensare alla sessualità in chiave identitaria, secondo il sesso del partenaire, così si definisce l’identità attraverso un’ unica caratteristica della persona.
Irene Fridman, da parte sua, segnala come la costituzione dell’identità delle donne si da principalmente attraverso le relazioni amorose, mentre per gli uomini si configura in funzione delle funzioni di potere e prestigio. Questo permette di affermare che gli uomini estraggono plusvalore dalle donne sfruttando le loro capacità amorose, ovvero usufruendo delle loro capacità relative allo svolgimento dei compiti di riproduzione sociale [10].
Le identità transgenere appaiono in questo libro attraverso l’approccio alla questione dell’infanzia trans. Facundo Blestcher ci mostra una visione non patologica della stessa in opposizione con la visione della costituzione delle diverse identità a partire dalla caduta del Nome del Padre, posizione adottata dalla psicoanalisi lacaniana. Debora Tejer, tratta anch’essa di questa tematica, e partendo da una prospettiva clinica postpatriarcale illustra la necessità di seguire decostruendo e mettendo a nudo i modi storici di determinazione dell’identità e della psicosessualità. L’autrice ci presenta il problema di quali strumenti usare per intervenire all’interno del campo della psicoanalisi di fronte alle richieste che si presentano nelle istituzioni così come nella clinica individuale, e prevede che questi strumenti devono riguardare tre aspetti: le legislazioni vigenti in Argentina, i nuovi modi di essere, nascere e desiderare, e le sfide cliniche.
Il dibattito sull’aborto non è assente. Martha Rosenberg è l’incaricata di confutare la “sindrome postaborto”, la quale parte da una generalizzazione assoluta sui supposti effetti traumatici di questa pratica. L’autrice descrive l’aborto come una pratica che chiama in causa il mandato sociale della maternità come obbligo imposto alle donne, una posizione che permette l’apertura ad un altro modo della soggettivazione e costruzione dell’identità di genere.
Da parte sua, Mabel Burin approccia ad alcune problematiche di “crisi delle soggettività tradizionali” come il vincolo madre/figlia (e i concetti correlati di “muro”, “tetto”, “labirinto di cristallo”), la precarietà lavorativa e crisi delle mascolinità e, ancora, l’ampliamento del repertorio desiderante a partire dalla lotta delle donne, soprattutto delle più giovani.
In fine, Eva Giberti situa le origini della violenza familiare nella situazione di oppressione e subordinazione delle donne, principalmente considerando le esperienze dei settori popolari. Problematizza il luogo assegnato alle donne ovvero il ruolo di adempiere alla cura come presupposto destino biologico, per sviluppare da lì la filosofia del “Programma di attenzione alle vittime di violenza familiare” creazione dello stesso a carico dell’autrice nel anno 2006, creando una nuova categoria, “affidamento”, dove l’equipe di professionisti si pongono di fronte alle donne che soffrono questa problematica come un supporto/sostegno sul quale possono confidare e sentirsi accompagnate per intraprendere e portar avanti l’intero processo legale.
Residui non metabolizzati della psicanalisi
Sebben il libro si pone all’interno della cornice psicoanalitica, lo fa per introdurre la necessità della critica a quegli aspetti conservatori della teoria di Freud rispetto al genere e alla sessualità, visto l’ impatto delle problematiche di genere. Riportiamo di seguito due esempi tratti dal libro.
Il lavoro di Pilar Errázuriz Vidal ha il merito di cercare di storicizzare il problema della costruzione soggettiva sotto il patriarcato in relazione alla costituzione storica della società patriarcale da una prospettiva freudiana critica. Mette in discussione la mitologia speculativa patriarcale del creatore della psicoanalisi, il suo “mito fallocentrico dell’origine dell’umanità” [11] (il mito dell’ orda primitiva e dell’instaurazione della legge del padre in Totem e tabú). Questa storicizzazione permette di ubicare le origini storiche del pregiudizio maschilista di Freud sulla costruzione soggettiva “normale” femminile (complesso di castrazione e invidia del pene, equazione “bambino-pene” etc.).
A sua volta Juan Carlos Volnovich analizza come l’elaborazione freudiana fu in grado di scorgere la sessualità infantile, di dare parola alle donne di fronte ai loro disturbi e mise in questione la barriera tra normalità e patologia propria del sapere medico psichiatrico, ma allo stesso tempo incorse nella smentita dell’esistenza dell’abuso sessuale realmente commesso. E segnala che pur essendo un elemento presente sin dall’inizio della riflessione freudiana solo “di recente stiamo cominciando a visualizzare la densità del conflitto e la grandezza del problema” [12]. A partire da pressioni patriarcali di ogni tipo (dai familiari fino all’establishment medico-psichiatrico) Freud, a compimento dei pregiudizi patriarcali, trasla la causa della nevrosi dall’uomo che compie l’abuso alla donna “seduttrice e bugiarda” e dal padre perverso alla madre seduttrice [13] nel momento stesso in cui apre il cammino –afferma Volnovich– per la teorizzazione sul complesso di Edipo, la sessualità perverso-polimorfa e la repressione, le fantasie, etc. [14]. “La controversia attuale circa l’ ASI [abuso sessuale infantile] e la cosiddetta ‘sindrome di alienazione parentale’ sono residui non metabolizzati delle storpiature di allora” [15].
Aspetti critici e la necessità di incorporare l’approccio marxista
Possiamo dire che il libro permette l’apertura di dibattiti e di apportare elementi validi per una messa in discussione dei settori più conservatori della psicoanalisi –principalmente quello lacaniano–, la costruzione di identità di genere estranea a quella eteronoma senza ricadere nella categoria del patologico, l’approdo a problematiche attuali come l’aborto visto da una prospettiva di salute pubblica, i cambiamenti nelle relazioni vincolanti e la messa in discussione della famiglia monogamica, così come l’oppressione verso le donne intesa come modo di costruzione di soggettività particolari.
Ciò Nonostante, ci sono aspetti critici che emergono dalla lettura di questo testo. Rispetto alla critica che si avanza nei confronti dell’Ordine simbolico Patriarcale, alle letture fallocentriche e ordinate attorno al concetto lacaniano del Nome del Padre, sebbene siano corrette, è necessario segnalare che questi autori vedono il patriarcato solo come un istanza culturale. Alcuni di essi confondono l’oppressione delle donne sulle quali ricadono maggiormente i compiti di riproduzione sociale, con lo sfruttamento da parte degli uomini, considerandoli quindi come nemici di queste (un esempio ne è l’estrazione di plusvalore alla quale si riferisce Fridman).
È necessario stabilire per superare questa prospettiva, una lettura marxista che problematizzi la relazione esistente tra patriarcato e capitalismo, tra genere e classe; solo così sarà possibile vedere che perché vi sia un orizzonte di trasformazione possibile è necessario mettere in questione le basi profonde dello sfruttamento sui cui si organizza questo sistema, che determinano il tipo di società patriarcale, e che vanno oltre i discorsi e i simbolismi. Noi ci riferiamo all’intricata relazione tra i compiti di riproduzione sociale relegati all’ambito del privato, e i compiti di produzione sociale (lavoro), terreno d’origine del plusvalore, che permette di poter pensare ad un nemico comune agli uomini e alle donne: la classe capitalista e il suo Stato [16]. Rilevare con questi dibattiti solo la componente culturale lascia a margine il fatto che la costruzione delle soggettività non è solo il prodotto di cambiamenti nelle coordinate simboliche ma anche di trasformazioni sociali, politiche, economiche e della vita materiale dei soggetti. I progressi nella legislazione vigente come inizio per poter pensare ad un superamento nella attuale pratica della psicologia son un punto de appoggio necessario ma insufficiente, giacché questi progressi non si sono tradotti parallelamente alla realtà della vita quotidiana a cui si riferiscono. L’uguaglianza davanti la legge, non corrisponde all’uguaglianza nella vita.
A questa prospettiva, si fa evidente la necessità di ripensare una teoria della costruzione soggettiva non riduzionista, che parta dal carattere storico dell’essere umano, il che implicherà un’appropriazione critica della psicoanalisi che tenga conto le concezioni filosofiche , storiche e politiche che stanno al di sotto della teoria al fine di riscattare i suoi nuclei di verità e i suoi aspetti liberatori. La esplicitazione di questi fondamenti, per mezzo di un esercizio in un certo senso “decostruttivo”, è in gran parte assente nella formazione accademica e nella riflessione attuale di vari esponenti della psicologia – ciò ostacola non solo la comprensione delle diverse teorie psicoanalitiche ma soprattutto un dibattito intellettuale onesto–; e costituisce un merito del libro. Ma crediamo che per portare fino in fondo questo compito sia necessario riprendere il dislogo tra psicoanalisi e marxismo [17]. Finalmente, c’è da sottolineare che la lettura del libro apporta un contributo alla necessità, anch’essa urgente, e che si evince da quanto fin ora sviluppato: rifondare la preparazione universitaria e l’esercizio professionale in psicologia da una prospettiva di genere trasversale.
Melina Michniuk
Yohia Cardoso Marino
Traduzione da Izquierdadiario.es
Note:
[1] Meler, Irene (comp.), Paidós, 2017. Si tratta di una pubblicazione collettiva che riunisce dibattiti ed elaborazioni nella cornice del Foro de Psicoanálisis y género dell’ Asociación de Psicólogos di Buenos Aires.
[2] Si veda, per esmpio, Duarte, Juan, “Violencia de género y el psicoanálisis en cuestión”, La Izquierda Diario, 12/09/2016.
[3] Si veda, Aguirre, A. y Herón, P., “Schejtman y el remake de la patologización de la diversidad sexual”, La Izquierda Diario, 07/10/2016. In merito si può leggere la rivista Ancla 1, septiembre 2007, e le seguenti, edita dalla cattedra presso cui è in carica Fabián Schejtman. Lì si scrive: “alla liquidazione della ‘psicopatologia psicoanalitica’ sperata dal relativismo nominalista e storicista, politicamente corretto, in voga in questi giorni, che trova una sponda favorevole e solidale nelle richieste ‘democratiche’ delle lobbies che decidono periodici ritocchi nella classificazione dei moderni manuali di diagnostica e di statistica, rispondiamo con la fiducia nella realtà del sintomo”.
[4] Op. cit.
[5] Ibidem, p. 18.
[6] Ibidem, p. 19.
[7] Ibidem, p. 20.
[8] Dalla prospettiva di coloro che hanno scritto questo articolo, la violenza di genere non è una questione che si riduce all’interno del nucleo familiare ma ha a che fare con un complesso di relazioni sociali che legittimano l’oppressione di un gruppo su un altro e che sono avallate dallo Stato.
[9] Meler, op. cit., p.228.
[10] Fridman, Irene, “Donne ed Uomini di fronte alle condizioni politiche dell’amore. Tra autonomia e solitudine”, en Meler, op. cit.
[11] Meler, op. cit., p.114.
[12] Meler, op. cit., p. 321.
[13] E le sue deviazioni, come l’accento sulla madre in autori quali Klein o Winnicott (e sua “madre sufficientemente buona”).
[14] Meler, op. cit., p. 315.
[15] Ibidem, p. 320.
[16] Sul tema si raccomanda la lettura dell’articolo di Paula Varela in questa stessa rivista.
[17] In particolare dalla prospettiva sviluppata da Lev Vygotski. Si veda Duarte, J., “Vygotski e le chiavi per un’appropriazione critica della psicoanalisi”, in La psicoanalisi e la rivoluzione d’ottobre, Bs. As., Topía, 2017. La rivista e l’editoriale Topía propongono di ripensare “ la sinistra Freudiana”, a partire da questo dialogo.
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