Che influenza ha il cambiamento climatico nell’apertura dell’epoca contemporanea di crisi, guerre e rivoluzioni. Alcune idee per pensare alla crisi ambientale globale e al movimento per il clima da un punto di vista strategico.


Crisi climatica

La crisi climatica e le sue devastanti conseguenze – già in corso o potenziali -, sono un fatto innegabile. Il capitalismo come lo conosciamo si è sviluppato per secoli sulla base dello sfruttamento spietato della natura, appropriandosi delle sue risorse e trasformandole in merci o usandola come deposito di rifiuti. Tuttavia, la natura non può più svolgere questa duplice funzione imposta dal capitale. La necessità di una crescita costante e infinita da parte del capitale ha portato all’interruzione di un complesso ciclo naturale che ha richiesto milioni di anni per evolversi, causando, come direbbe Marx, una frattura nel processo interdipendente di metabolismo tra società e natura.

Il cambiamento climatico e la crisi dei cicli del carbonio, dell’acqua, del fosforo e dell’azoto, l’acidificazione dei fiumi e degli oceani, la crescente e accelerata perdita di biodiversità, i cambiamenti nei modelli di utilizzo del territorio e l’inquinamento chimico sono alcune delle terribili manifestazioni di una situazione del tutto inedita per l’umanità: la tendenza alla decomposizione delle sue condizioni naturali di produzione e riproduzione. Direttamente collegato a questa dinamica eco-distruttiva è il degrado sociale e materiale di centinaia di milioni di persone che soffrono per la miseria, la disoccupazione e il lavoro precario attraverso i quali il capitalismo assicura la propria redditività e riproduzione.

Il cambiamento climatico, ovvero il rapido aumento dei gas “serra” nell’atmosfera che genera un processo di “riscaldamento globale”, è un problema storico. Se prima della rivoluzione industriale c’erano 280 parti per milione (ppm) di CO2 nell’atmosfera, oggi ci avviciniamo a 420 ppm. È il risultato di un accumulo nel tempo. Ciò non significa che gran parte della CO2 provenga specificamente dalla metà e dalla fine del XIX secolo, anzi, probabilmente si tratta di una piccola parte. La metà di queste emissioni è stata prodotta a partire dalla metà degli anni ’90. Ma è stato a metà del XIX secolo che i combustibili fossili sono diventati la base della crescita capitalistica, un processo seguito dalla deforestazione (che ha gradualmente diminuito la capacità di riciclo della CO2) e da altre attività come gli allevamenti intensivi, responsabili di emissioni che aumentano la temperatura media globale.

Secondo diversi rapporti del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), se le emissioni di CO2 e di altri gas serra non saranno profondamente ridotte, fino a raggiungere lo zero entro il 2050 circa, l’obiettivo del vertice di Parigi del 2015 di non aumentare la temperatura di più di 1,5°C o 2°C si risolverà senza dubbio in un fallimento nel corso del XXI secolo. Il superamento di questa soglia comporta gravi conseguenze per lo sviluppo della vita sul pianeta, molte delle quali sono già sotto gli occhi di tutti: eventi meteorologici estremi che causano migliaia di morti; caldo eccessivo che genera incendi incontrollabili che devastano intere città; inondazioni massicce o siccità catastrofiche; scioglimento parziale delle calotte polari e innalzamento del livello del mare, ecc. Tutti questi effetti ricadono principalmente sui popoli più poveri del mondo, depredati dalle potenze imperialiste. Ma non solo su di loro, perché colpiscono anche i centri imperialisti.

Ad esempio, per fare riferimento solo ad alcuni dati relativi all’Europa e allo Stato spagnolo, lo scorso luglio la temperatura del Mar Mediterraneo ha raggiunto i 30ºC nelle zone vicine alle Isole Baleari, 6 gradi in più rispetto alle previsioni per quel mese e per tutto il mese di agosto, secondo i dati ufficiali dei porti statali. Sempre nel mese di luglio, in Portogallo è stata raggiunta la temperatura più alta mai registrata in Europa, con 48,8ºC. Questa ondata di calore ha avuto conseguenze terribili. Si stima che 2.124 persone siano morte a causa del caldo intenso in Spagna, il dato peggiore dal 2015, quadruplicando la mortalità dovuta alle alte temperature degli anni precedenti. Allo stesso tempo, diversi incendi simultanei hanno devastato centinaia di migliaia di ettari nell’Europa meridionale.

Tra le classi dirigenti ci sono due approcci fondamentali alla crisi climatica: quelli che la negano, fondamentalmente settori dell’estrema destra allineati con gli interessi del grande capitale dedito ai combustibili fossili e all’agrobusiness; quelli che accettano l’esistenza di una grave crisi e promuovono meccanismi di riconversione industriale, mitigazione e adattamento, o quello che è stato chiamato “capitalismo verde”. Questo campo comprende socialdemocratici, liberali e persino conservatori imperialisti, organizzazioni internazionali e ONG.

Sebbene il negazionismo continui a operare con forza e l’estrema destra si stia facendo bandiera di questo discorso, la logica del “capitalismo verde”, che combina neoliberismo, neokeynesismo e “economia verde”, è per il momento quella egemone. Anche se, come vedremo, le loro politiche finiscono per aprire la strada al rafforzamento delle posizioni negazioniste.

Negli ultimi tre decenni, tutte le politiche di protezione ambientale, i controlli, i costosi vertici e i grandi obiettivi di riduzione delle emissioni hanno fallito miseramente. Per fare un esempio, dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel 1997, è stato rilasciato nell’atmosfera il 50% del totale delle emissioni di CO2 avvenute dall’inizio dell’era industriale (nel 1750) e solo il 10% è stato emesso negli ultimi sette anni. Dopo il vertice di Parigi (2015), sono stati registrati i maggiori aumenti delle emissioni di CO2 nella storia del capitalismo.

Nonostante questi fallimenti, le grandi potenze capitalistiche stanno cercando di trovare una via d’uscita. Così, qualche anno fa, sia in Europa che negli Stati Uniti, ha cominciato a risuonare l’idea del “Green New Deal”, con riferimento al New Deal di Franklin D. Roosevelt, la svolta nell’agenda politica con cui gli Stati Uniti affrontarono la Grande Depressione e la disoccupazione di massa tra il 1933 e il 1939.

L’idea del green deal è apparsa, da un lato, come una risposta al peggioramento del cambiamento climatico; dall’altro, come una narrazione progressista che rivendicava l’idea di democrazia sociale e di cooperazione internazionale. Prima con la crisi finanziaria del 2008 e attraverso le varie proposte dei Verdi al Parlamento europeo; poi nel Partito Laburista britannico e nell’ala sinistra del Partito Democratico statunitense (con Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez), fino alle rivendicazioni di nuovi movimenti sociali guidati da giovani come Fridays for Future, Extinction Rebellion e il Sunrise Movement negli Stati Uniti.

Negli ultimi anni si è affermata in Europa quella che potrebbe essere considerata una versione conservatrice di questa politica. Nel novembre 2019 il Parlamento europeo ha dichiarato l'”emergenza climatica” e nel dicembre 2019 il “Patto verde europeo” è stato adottato come programma di governo dell’UE. Di cosa si tratta in concreto? Un pacchetto di misure politiche ed economiche per una transizione verde, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 per soddisfare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Il pacchetto comprende misure che riguardano il clima, l’ambiente, l’energia, i trasporti, l’industria, l’agricoltura e la finanza sostenibile, tutte strettamente collegate tra loro.

Il Patto Verde è stato introdotto attraverso varie leggi, come la legge sul clima del giugno 2021, che stabilisce un mandato vincolante per raggiungere zero emissioni nette e la neutralità climatica entro il 2050, con un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni del 55% nel 2030 rispetto al 1990. Gran parte di questi obiettivi sono stati inclusi nel pacchetto legislativo “Fit for 55” proposto dalla Commissione nel luglio 2021. Il nome si riferisce all’obiettivo intermedio di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 rispetto al livello del 1990. Tra le misure più importanti vi sono l’inasprimento delle direttive sull’efficienza energetica e sulle energie rinnovabili nell’industria, nei trasporti, nell’edilizia, nell’agricoltura, ecc. e le misure per eliminare le emissioni dei veicoli con il divieto di utilizzare motori a combustione interna nel 2035.

Questo pacchetto di leggi comprende un “Fondo sociale per il clima” che, insieme ad altri fondi dell’UE, mira a mitigare l’impatto sociale di queste misure. In altre parole, cercano di evitare che la politica ambientale capitalista si intrecci con i conflitti di classe e con lo sviluppo di proteste come quelle dei “gilet gialli” in Francia. Ma come, non doveva essere un piano per la prosperità della società nel suo complesso? No, non lo è.

Razmig Keucheyan, intellettuale marxista svizzero-francese, ha scritto un libro molto interessante con un titolo azzeccato: “La natura è un campo di battaglia“. Sono d’accordo con questa idea. È opinione diffusa che, per affrontare la crisi ambientale, l’umanità debba unirsi e superare le sue divisioni. Questo discorso è promosso dai partiti e dai governi ambientalisti, sia di destra che di sinistra. Anche intellettuali post-coloniali come Dipesh Chakrabarty affermano che la crisi ecologica permette all’umanità di diventare per la prima volta “soggetto” della storia, al di là delle sue divisioni di classe, genere, razza, ecc. In altre parole, rispondere come specie alla minaccia climatica, perché se avanza non c’è scampo per nessuno, ricco o povero che sia. Secondo Keucheyan, questa idea è sorprendente, proveniendo dagli studi postcoloniali, che sono specializzati nella contestazione di tutte le forme di universalismo.

L’idea che la natura sia un “campo di battaglia” si basa su un assunto che è l’opposto di questo consenso: il cambiamento climatico è un prodotto del capitalismo e, già solo per questo motivo, è difficile pensare che riunire la specie umana intorno a obiettivi comuni possa essere il modo per risolvere la crisi. Al contrario, la soluzione viene dalla radicalizzazione delle opposizioni, dalla contestazione del capitalismo e dalla lotta di classe. Da un lato, perché l’umanità non subisce le conseguenze della crisi ecologica nello stesso modo. La classe operaia, i contadini poveri, le persone razzializzate, i poveri delle città, soffrono decisamente di più di questa crisi rispetto ai ricchi e ai capitalisti, che hanno condizioni migliori per adattarsi e, tra l’altro, fanno affari straordinari con le “politiche verdi”. Dall’altro, perché il capitale è incapace di trovare una via d’uscita progressiva dalla crisi.

Il programma del Patto Verde prevede che le imprese e le società responsabili dell’attuale crisi ecologica sviluppino, attraverso sussidi statali, le infrastrutture per uscire dal disastro, facendo pagare alla classe operaia e ai settori popolari i costi della transizione ecologica. Perché, nonostante la retorica, la chiave del patto verde è la speculazione, il trasferimento delle rendite a vari settori capitalistici e la promozione dell’austerità per le maggioranze popolari. Vediamo alcuni esempi.

Come il capitalismo affronta le crisi? Nel libro citato, Keucheyan sostiene che ciò avviene attraverso la finanziarizzazione e la guerra. In effetti, la generazione di capitale fittizio consente al capitalismo di rinviare e attenuare temporaneamente le conseguenze delle contraddizioni della produzione capitalistica fino al loro scoppio (come abbiamo visto con la crisi del 2008). Toccheremo più avanti il tema della guerra e del suo funzionamento nel capitalismo. Ma come viene finanziarizzata la natura? Con tutti i tipi di prodotti finanziari legati alla natura o alla biodiversità: mercati del carbonio, carbon bond, derivati sul clima, assicurazioni sul rischio o obbligazioni contro le catastrofi.

Che l’obiettivo del Green Deal non sia quello di fermare le emissioni è dimostrato dal mercato del carbonio, che permette alle aziende di continuare a emettere più del dovuto acquistando diritti di emissione da altre aziende. Questo meccanismo promuove un processo speculativo spettacolare. Nel 2021, una notizia ha evidenziato che la speculazione è responsabile dell’aumento dei prezzi delle quote di emissione di anidride carbonica (CO2) che le società di generazione devono acquistare per bruciare gas, olio combustibile o carbone per produrre elettricità. In questo modo le società elettriche hanno giustificato ulteriori aumenti dei prezzi dell’elettricità. In altre parole, il profitto dei capitalisti viene mantenuto e così le emissioni. Questa dinamica continuerà senza sosta. Nel gennaio di quest’anno, un giornale specializzato nel settore energetico ha riportato che i prezzi della CO2 negli Stati Uniti potrebbero salire a 215 dollari per tonnellata entro il 2030 e aumentare di 50 volte entro il 2050.

Che i governi capitalisti stiano facendo pagare alla classe operaia e ai poveri i costi della transizione non lo dicono solo i marxisti. Lo dice anche la Banca di Spagna. In un rapporto pubblicato a maggio ha avvertito che “le famiglie con minori risorse avranno più difficoltà a far fronte alla transizione verde”, perché i diritti di emissione di carbonio stanno già rendendo l’energia più costosa e le tasse ecologiche comportano anche costi più elevati per le famiglie più povere. Nel frattempo, nel bel mezzo dell’ondata di caldo, un deputato di VOX [partito di estrema destra in Spagna, ndt] diceva che se le persone non avevano l’aria condizionata o non potevano permettersela, dovevano andare in chiesa per rinfrescarsi. E ora nel Regno Unito si dice alla gente che se non può permettersi il riscaldamento, deve andare in biblioteca.

Non è solo sulla questione energetica che si nota questo fenomeno. Due mesi fa un articolo del Guardian riportava che in Gran Bretagna, con il pretesto del Patto Verde, i supermercati stanno eliminando le date di scadenza per “ridurre la produzione di rifiuti”. Il capitalismo produce ogni tipo di merce senza alcuna pianificazione, sia che riesca a venderla sia che non riesca a venderla, cosicché milioni di tonnellate di cibo vengono buttate via ogni giorno in tutto il mondo. E come possono pensare di limitare questa logica completamente irrazionale? Vendendo ai poveri consumatori cibo scaduto, ottenendo nel contempo maggiori profitti. È perverso.

Nel campo dell’alimentazione, il capitalismo verde promuove anche lo sviluppo di un nuovo mercato per la produzione di proteine alternative molto seducente, perché non comporta alcun danno agli animali e può produrre prodotti a base vegetale che assomigliano alla carne. I progressi in questo settore sono ovviamente auspicabili. Ma nelle mani delle multinazionali capitaliste, dietro questa retorica c’è una corrente profondamente reazionaria: generare “alternative” alimentari per le persone che non possono e non potranno mai mangiare carne – non a causa del cambiamento climatico, ma perché sono povere.

Il piano per imporlo alla popolazione è semplice: accelerare l’attuazione delle misure di Green Deal come se fosse una scossa. Sono molte le aziende che dipendono da questa accelerazione. Non per niente le grandi banche come Goldman Sachs sono diventate grandi propagandiste e lobbiste per l’accelerazione del Green Deal. Ad esempio, l’accelerazione dell’obiettivo di zero emissioni per il trasporto marittimo di merci (e il pagamento obbligatorio dei diritti di emissione per le merci da e verso l’UE o gli Stati Uniti) accelererà la concentrazione globale delle attività intorno a tre o quattro grandi compagnie mondiali, come MSC, Maersk o Cosco. La stessa dinamica che accompagna la spinta alle auto elettriche o all’energia solare. E poiché il Green Deal è stato progettato per svilupparsi attraverso i “processi di mercato”, cioè la speculazione e la finanziarizzazione, ciò che inevitabilmente produce è il caos capitalistico e lo sperpero irrazionale delle risorse. Per fare un altro esempio, in Spagna il 70% dei progetti fotovoltaici non viene completato dopo l’accesso alla rete.

Questa accelerazione porta con sé anche un rinnovato discorso di austerità, promosso dai livelli più alti. La Parte 3 del Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC, pubblicato nel 2022, si concentra sulle strategie di mitigazione dei cambiamenti climatici. Da un lato, insiste nuovamente sull’eliminazione dell’uso del carbone, sulla riduzione della combustione di petrolio e gas, e così via. Ma il documento pone l’accento sul “cambiamento degli stili di vita“, promuovendo il consumo di “diete sane a base vegetale, riducendo lo spreco di cibo e il consumo eccessivo, sostenendo prodotti riparabili e più duraturi, spegnendo il riscaldamento, il telelavoro e il carpooling”. In altre parole, il discorso reazionario che attribuisce la responsabilità della risposta alla crisi climatica globale all’azione individuale dei consumatori, che di fatto significa promuovere l’impoverimento della classe lavoratrice con misure la cui portata, secondo lo stesso rapporto, è enormemente limitata (non andrebbe oltre la riduzione del 5% delle emissioni totali).

Questo discorso, che va avanti da tempo, è stato radicalizzato dalla guerra. Improvvisamente, il neoliberale Emmanuel Macron sembra aprire la strada alla prospettiva della decrescita con il suo discorso sulla “fine dell’abbondanza”. Con la guerra, l’AIE e l’UE promuovono misure per ridurre il consumo di petrolio e gas della Russia. Cosa propongono? La stessa ricetta dell’IPCC: abbassare il riscaldamento e usare meno l’aria condizionata, abbassare la temperatura della caldaia, fare telelavoro, fare car pooling, andare in bicicletta, usare i mezzi pubblici e non viaggiare in aereo. In altre parole, che siano le famiglie dei lavoratori a ridurre i consumi, non le aziende o i settori più ricchi della popolazione.

 

La guerra

La guerra in Ucraina ha cambiato radicalmente la situazione mondiale. La nostra opinione è che questa sia una guerra reazionaria. Per questo i nostri slogan sono “no Putin, no NATO”, per il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina, per lo scioglimento della NATO, contro le sanzioni e contro il riarmo imperialista. La nostra posizione internazionalista è a favore dell’unità internazionale della classe operaia e di una politica indipendente in Ucraina per affrontare sia l’occupazione russa che la dominazione imperialista.

Il risultato immediato della guerra è il massacro e la distruzione subiti da milioni di persone in Ucraina, le migrazioni di massa, la persecuzione e il rafforzamento del governo di estrema destra di Zelensky, ma anche le difficoltà imposte al popolo russo dalle sanzioni. Allo stesso tempo, con il pretesto della guerra, si è scatenata una nuova politica militarista imperialista guidata dalla NATO. Tutti gli Stati europei stanno aumentando i loro bilanci militari. L’ultimo, lo Stato spagnolo, con i bilanci concordati da PSOE e Unidas Podemos, che vogliono presentare come i più importanti “bilanci sociali” della storia, come abbiamo denunciato come CRT.

La guerra è un prodotto inevitabile delle dinamiche del capitalismo imperialista. L’esaurimento delle risorse, la necessità di assicurarne il controllo e la distribuzione, le dispute sulle zone di influenza geopolitica sono alla base delle tendenze alla guerra. Storicamente, la distruzione generata dalla guerra ha permesso al capitalismo di rilanciare nuovi cicli di accumulazione su nuove basi. Il boom del secondo dopoguerra si spiega solo con il livello di distruzione lasciato dal conflitto mondiale. Questa logica si applica anche alla crisi climatica.

Come sono collegati il cambiamento climatico e la guerra? Keucheyan sviluppa un argomento su cui lavoriamo da tempo e che abbiamo esposto in altri articoli: anche la guerra si sta intrecciando sempre più con l’ecologia. Secondo molteplici studi, da qui al 2050 la crisi ambientale genererà catastrofi naturali di ogni tipo, scarsità di risorse vitali, carestie, destabilizzazione dei poli o di intere aree geografiche, migrazioni di massa e “rifugiati climatici” a decine o centinaia di milioni. Da ciò gli Stati capitalisti si aspettano l’emergere di “guerre verdi” o “guerre climatiche”. E si stanno preparando militarmente. Questo è ciò che Nick Buxton, Ben Hayes e altri, nel loro libro “Climate Change SA”, chiamano “gestione militarizzata” del cambiamento climatico. Per più di un decennio, gli Stati e gli eserciti imperialisti del mondo, a partire dagli Stati Uniti, hanno prodotto rapporti e documenti sul cambiamento climatico e sulla strategia militare. Allo stesso tempo, migliaia di aziende capitaliste si preparano a offrire una vasta gamma di servizi (logistica militare, sorveglianza delle frontiere, fornitura di mercenari, ecc.

Ma se questa è la prospettiva a medio termine, nell’immediato la guerra si intreccia anche con la questione ambientale e le politiche degli Stati in questo campo. Nel contesto della guerra in Ucraina e delle sue conseguenze, in particolare la crisi energetica e la crisi della produzione e della distribuzione dei combustibili fossili, le profonde contraddizioni del “capitalismo verde” sono apertamente in mostra.

Come abbiamo detto, sostenuti dalla guerra, i principali Stati dell’UE vogliono accelerare le misure del Patto verde per ridurre la dipendenza da gas, petrolio e carbone russi. Giorni dopo l’attacco russo all’Ucraina, il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha dichiarato che “l’energia rinnovabile è l’energia della libertà”. Lo ha fatto nello stesso momento in cui la Germania stava compiendo una svolta storica verso il militarismo che non si vedeva dagli anni Trenta.

Alla fine di febbraio, Kadri Simson, politico estone e commissario UE per l’energia, ha dichiarato che “nel breve termine, dobbiamo diversificare ulteriormente le nostre forniture di gas dalla Russia e assicurarci che tutti gli operatori del mercato rispettino le regole”. Ma in definitiva, la soluzione migliore e duratura è il Green Deal: spingere le energie rinnovabili e l’efficienza energetica il più velocemente possibile”.

Analizziamo questi elementi in modo più dettagliato. La crisi energetica è globale e precede la guerra in Ucraina. Il gas, il carbone e il petrolio – almeno quello convenzionale – si stanno esaurendo e ci sono Paesi la cui dipendenza dall’uno o dall’altro combustibile fossile sta creando enormi crisi, come l’India, lo Sri Lanka, il Libano, eccetera, a causa dell’aumento del costo delle “condizioni di produzione” del capitalismo. I combustibili fossili che il capitalismo utilizza per svilupparsi sono un prodotto finito della natura. Questa è quella che l’ecologista marxista americano James O’Connor ha definito la seconda contraddizione del capitalismo, quella tra capitale e natura: il capitale ha bisogno della natura per riprodursi, ma non ha altra scelta che esaurirla. La prima contraddizione, come definita da Marx, è quella tra capitale e lavoro, che porta storicamente alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma entrambe le contraddizioni si alimentano a vicenda, dice O’Connor: una porta a crisi ricorrenti, l’altra rende più costose le condizioni per la riproduzione del capitale, il che accentua queste crisi.

La guerra ha fatto fare un salto di qualità alla crisi energetica. Ma come sempre, il capitalismo cerca di trarre profitto dalle crisi. Come dice Robert Fletcher, cerca di “capitalizzare il caos”. Uno sguardo alla stampa economica mostra che la proliferazione delle imprese “verdi” è enorme. Dagli investimenti nelle energie rinnovabili, alla produzione e raffinazione del litio per le batterie delle auto elettriche – che ricevono miliardi di sussidi – fino alla ristrutturazione degli edifici per ridurre la quantità di energia sprecata. Uno studio afferma che gli edifici europei utilizzano circa il 40% dell’energia totale consumata dal blocco, anche se questo dato potrebbe essere esagerato dagli stessi costruttori che vedono i lucrosi affari che possono fare.

Con la guerra è nato un altro grande business: il gas americano che arriva via nave. Secondo la Commissione europea, da marzo le esportazioni globali di GNL verso l’Europa sono aumentate del 75% su base annua a causa delle sanzioni imposte alla Russia. La maggior parte proviene dagli Stati Uniti, che hanno triplicato le loro esportazioni. Finora l’UE ha rifiutato il gas di scisto statunitense perché più costoso di quello russo e più inquinante. Inoltre, la maggior parte di essa viene prodotta con il fracking, o fratturazione idraulica, che è vietato in Germania. Ma questo non impedisce loro di acquistare gas dagli americani, ovviamente. Anche se in ottobre alcuni membri del governo tedesco si sono lamentati dei prezzi “astronomici” del gas fornito da Paesi “amici” come gli Stati Uniti.

Quello che voglio ribadire è che la guerra radicalizza l’irrazionalità stessa del capitale, che segue la propria logica fino a estremi impensabili. Quale migliore esempio di questa irrazionalità del sabotaggio dei gasdotti NordStream I e II? Un attacco che, senza addentrarsi in speculazioni, secondo tutti gli analisti seri può essere stato compiuto solo da uno Stato. A mio avviso, dal punto di vista della Russia, l’interruzione permanente delle forniture di gas dalla Russia alla Germania non ha alcun vantaggio, né tattico né strategico. Soprattutto perché la decisione di interrompere il flusso dalla Russia è già stata presa sul suo lato del confine. Per gli Stati Uniti e l’Ucraina, invece, è così. Il fatto è che, volente o nolente, la Germania non potrà più ricevere il gas russo tramite questo gasdotto. Dal punto di vista ambientale, gli attacchi al Nordstream sono del tutto controproducenti. Come se non bastasse, l’attacco di NordStream ha prodotto la più grande fuga di metano della storia, secondo un rapporto delle Nazioni Unite.

Allo stesso tempo, stiamo assistendo a un ritorno al consumo di carbone, in totale contrasto con la politica del “capitalismo verde”. A luglio, il capo del governo della Sassonia, il conservatore Michael Kretschmer, ha dichiarato allo Spiegel che “la transizione energetica così come era stata pianificata è fallita” e che la chiusura “prematura” delle centrali a carbone di lignite, che può essere la più inquinante, ma è prodotta internamente in Germania, è stata un errore ed è la chiave dell'”economia di guerra”. In effetti, senza opporsi al patto verde, la maggior parte dei Paesi europei ha fatto una brusca virata verso il carbone di fronte all’interruzione delle forniture di gas russo. Secondo Saad Al-Kaabi, CEO di QatarEnergy, oggi la combustione del carbone sta raggiungendo i livelli più alti dal 2014. Il problema è che il progetto di aprire centrali termiche – come stanno già facendo la Germania o l’Austria – è minacciato niente meno che dalla carenza di carbone. Per questo motivo le importazioni di carbone dall’Australia sono state raddoppiate, la Grecia sta raddoppiando la sua produzione di carbone e così via.

Come si può notare, il patto verde non riguarda la riduzione delle emissioni. Un recente rapporto dell’International Renewable Energy Network (REN21) afferma che, nonostante la crescita senza precedenti dell’energia eolica e solare, il sistema energetico è ancora dominato dai combustibili fossili, a livelli quasi pari a quelli di dieci anni fa. Con la guerra e l’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, nonostante la retorica, la situazione è solo peggiorata.

In cosa consiste dunque la politica del capitalismo verde? Da un lato, aprire nuove nicchie di accumulazione capitalistica e imporre maggiori difficoltà ai settori popolari, in modo che siano loro a pagare i costi della transizione. D’altra parte, con la guerra, diventa una giustificazione per il nuovo militarismo imperialista. Quest’ultimo aspetto è molto importante, perché ci sono settori ambientalisti che accettano il discorso del “capitalismo verde” e della “transizione energetica” contro il gas russo, quando invece dietro ci sono gli interessi dell’imperialismo tedesco, francese e statunitense. In questo senso, come ho già detto, il patto verde europeo è già parte integrante del nuovo militarismo.

In un recente editoriale dello Spiegel si legge che “gli europei devono fare i conti con il fatto che l’esercito è ancora un fattore della politica del XXI secolo”, che gli Stati europei “devono diventare economicamente indipendenti dal petrolio e dal gas russo”. Se serviva un altro argomento per l’espansione massiccia delle energie rinnovabili, Putin lo ha fornito con la sua guerra contro l’Ucraina” e il “rafforzamento delle sue forze armate”, anche per diventare meno dipendente dagli Stati Uniti. Il Partito Verde tedesco, che fa parte del governo insieme alla SPD e ai liberali, è forse il maggior promotore di questo discorso cinico e reazionario.

 

Rivoluzione

Qual è la via d’uscita da questa situazione a partire dagli interessi degli sfruttati? Questo ci porta all’ultimo asse: la rivoluzione. La Terza Internazionale definisce l’epoca imperialista come l’epoca delle crisi, delle guerre e delle rivoluzioni. Se qualcuno avesse dei dubbi sul fatto che queste condizioni non solo sono ancora attuali, ma si sono intensificate, basta guardare i giornali per una settimana. Ma la verità è che se la crisi e la guerra sono immediatamente percepibili, la rivoluzione in quanto tale non è ancora all’orizzonte.

Di recente abbiamo assistito a grandi rivolte, come in Sri Lanka, Tunisia, Haiti, Iran e Libano. Su un altro piano, oggi l’inflazione, esacerbata dalla guerra e dalla crisi energetica, ha generato un enorme movimento di sciopero nel Regno Unito, in Germania e si è poi sviluppato anche in Francia. Vedremo se accadrà anche in Spagna, anche se la burocrazia sindacale e i riformisti di Unidas Podemos stanno facendo di tutto per impedirlo. Ora, se non abbiamo ancora assistito a rivoluzioni sociali in senso classico, le condizioni oggettive per il loro sviluppo non mancano e si stanno riattualizzando più che mai.

In questo senso, credo sia necessario aggiungere un’altra dimensione alla definizione dell’era della Terza Internazionale: la catastrofe climatica. La crisi ambientale e le sue conseguenze rappresentano uno dei grandi problemi strategici per la rivoluzione del XXI secolo, ma non l’unico. Qual è l’oggetto della nostra strategia? Che tipo di alleanze di classe si devono stabilire? Quale organizzazione politica? Qual è il ruolo dello Stato?

Un anno fa ho tenuto una conferenza all’Università Complutense in cui ho posto la domanda E se il cambiamento climatico generasse rivoluzioni?. Questa domanda un po’ provocatoria si riferiva a un dibattito con le idee di Andreas Malm, giornalista e attivista svedese specializzato in dibattiti sul cambiamento climatico. Il punto più forte del pensiero di Malm è proprio quello di sollevare il problema del cambiamento climatico introducendo la dimensione della strategia rivoluzionaria e molte delle questioni da lui stesso sollevate in precedenza, sostenendo quello che definisce “leninismo ecologico”; il punto più debole è che non porta le proprie ipotesi alle loro ultime conseguenze.

In un testo intitolato “A Revolutionary Strategy for a Burning Planet” (Una strategia rivoluzionaria per un pianeta in fiamme), Malm (2018) afferma che “non ci vuole molta immaginazione per associare il cambiamento climatico a una rivoluzione”. In realtà, l’establishment globale ci sta pensando da tempo. La CIA, ad esempio, già nel 2013 aveva affermato nel suo “Global Threat Assessment” che gli eventi meteorologici estremi eserciteranno una forte pressione sul mercato alimentare, “ispirando rivolte, disobbedienza civile e vandalismo”. In altre parole, se i governi non sono in grado di soddisfare le esigenze di base della popolazione a causa delle catastrofi climatiche, possono svilupparsi crisi politiche e ribellioni antigovernative.

Questa idea è la base su cui Malm stabilisce quattro possibili configurazioni tra rivoluzione e cambiamento climatico: 1) Rivoluzione come sintomo, cioè come rivolta di fronte a uno shock climatico; 2) Contro-rivoluzione e caos come sintomo, cioè una via d’uscita reazionaria rispetto alla prima; 3) Rivoluzione per curare i sintomi, cioè per imporre misure di adattamento al cambiamento climatico; e 4) Rivoluzione contro le cause, cioè contro il sistema capitalista. È qui che Malm è più suggestivo, riprendendo Lenin (1917) e il suo famoso testo “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa”. La prospettiva di Lenin è che la classe operaia deve prendere il potere statale in modo rivoluzionario per combattere la catastrofe e la fame. In effetti, la rivoluzione proletaria in Russia ha adottato tutta una serie di misure che hanno fatto uscire il popolo russo dall’arretratezza e dalla miseria, il cui punto di partenza è stato la distruzione dello Stato capitalista autocratico, la costruzione di uno Stato operaio di transizione e l’espropriazione dei capitalisti e dei proprietari terrieri.

È a questo punto che Malm, come ho detto prima, non va fino in fondo, ma finisce per trovarsi in una posizione ambivalente tra un certo feticismo dell’azione diretta (come sviluppa nel suo libro “How to dynamite a pipeline”) e l’esercitare pressioni sui governi affinché agiscano. Andare fino in fondo con un’idea suggestiva come quella del “leninismo ecologico” implicherebbe la definizione di una strategia rivoluzionaria e di un soggetto che la porti avanti, ossia la classe operaia che egemonizza l’insieme dei settori popolari sfruttati e oppressi. Malm è scettico su questa prospettiva. In una recente intervista pubblicata su Contretemps (2022), sostiene di non credere all’idea che il movimento sindacale organizzato possa essere il principale motore del fronte climatico, ma che “il principale motore della lotta per il clima sarà ed è un movimento per il clima che non è definito dalla classe”.

Il cambiamento climatico e altre catastrofi naturali possono essere uno straordinario catalizzatore per la lotta di classe, anche se ovviamente non agiranno in modo isolato dal resto dei fattori economici, sociali e geopolitici. In altre parole, combinata con la crisi capitalistica e la guerra, la crisi climatica può essere il terreno di coltura per la lotta rivoluzionaria. Ma perché questa lotta sia vittoriosa, la classe operaia deve costituirsi come soggetto egemonico e dotarsi di una propria strategia.

Prima di affrontare quest’ultimo aspetto, va detto che nell’immediato le misure di transizione verde capitalista possono anche generare lotta di classe. Il movimento dei Gilet Gialli in Francia ne è stata una clamorosa espressione. Una grande mobilitazione nata come protesta contro l’aumento dei prezzi dei carburanti (giustificato dal governo e dalle aziende con l’aumento della carbon tax), l’ingiustizia fiscale e la perdita del potere d’acquisto. Non si tratta del primo movimento di questo tipo o di sezioni specifiche della classe operaia che si ribellano alle conseguenze delle politiche “verdi” degli Stati capitalisti. Ora in Francia Arcelor Mittal vuole sostituire i suoi altiforni per ridurre le emissioni. E lo farà con miliardi di aiuti pubblici provenienti dal piano di investimenti Francia 2030 e da Bruxelles. Il corollario di ciò sarà probabilmente un licenziamento di massa dei lavoratori.

Stiamo assistendo a nuovi fenomeni anche in settori della piccola borghesia. Gli allevatori dei Paesi Bassi sono in rivolta contro le misure del Patto Verde che prevedono la chiusura delle aziende agricole e la riduzione del 30% del numero di capi di bestiame per dimezzare le emissioni di ossido di azoto. Molti di coloro che si mobilitano sono borghesi degli strati medio-bassi, ma anche piccoloborghesi con aziende agricole più piccole, attaccati da una politica che in questo e in altri casi facilita la concentrazione del capitale e liquida i piccoli produttori. Il problema è che, in assenza di un programma alternativo, questi movimenti vengono capitalizzati dall’estrema destra.

Lo stesso sta accadendo in Germania a diversi livelli. Un recente sondaggio afferma che il 52% dei tedeschi ritiene che il Patto verde aumenterà la frattura sociale e la disuguaglianza e il 49% che peggiorerà la propria situazione personale; il 52% nella Germania orientale. Ora il governo tedesco ha appena annunciato che prenderà in prestito 200 miliardi di euro (il 5% del PIL) per ridurre le bollette energetiche di famiglie e imprese. In altre parole, invece di far pagare le società miliardarie, le si sovvenziona con il debito pubblico, in modo che l’aumento dei prezzi non si ripercuota sulla popolazione e non scateni disordini contro la guerra e l’inflazione.

 

Tirare il freno d’emergenza

Il problema è quindi come proporre un programma e una strategia di indipendenza di classe di fronte all’agenda del “capitalismo verde” e del militarismo imperialista, che offra una via d’uscita alla sofferenza delle maggioranze sociali. Perché se la risposta non viene data dalla classe operaia, finirà per essere data dall’estrema destra. Per esempio, la nostra opposizione al militarismo imperialista include l’opposizione alle sanzioni contro la Russia. Perché? Perché i capitalisti stanno facendo pagare alle masse le loro dispute geopolitiche, non solo in Europa ma anche in Russia, con difficoltà crescenti.

In breve, senza un’incursione dispotica negli interessi e nelle proprietà dei grandi capitalisti non c’è via d’uscita, questa è l’idea di base. Per questo dobbiamo dire che non ci può essere una vera transizione verso una matrice energetica sostenibile e diversificata senza espropriare l’intera industria energetica sotto la gestione democratica dei lavoratori, insieme ai comitati dei consumatori e degli utenti popolari, allo stesso tempo ci opponiamo al militarismo e al continuo stanziamento di miliardi per armarsi fino ai denti per approfondire la guerra e continuare a saccheggiare altri popoli.

L’efficienza energetica di case ed edifici non può essere trasferita alle famiglie dei lavoratori, mentre le imprese edili vengono sovvenzionate e ricevono contratti miliardari per ristrutturare le città. È necessario un programma di lavori pubblici per costruire rapidamente infrastrutture per le energie rinnovabili, case resistenti al clima ed efficienti dal punto di vista energetico, e così via. Allo stesso modo, per evitare che la piccola borghesia rurale venga conquistata dall’estrema destra, occorre proporre l’esproprio della grande proprietà terriera e la riforma agraria, sostenendo al contempo l’espulsione delle imprese imperialiste nei Paesi semicoloniali e promuovendo l’abolizione del debito estero in questi Paesi.

O nel caso dei trasporti, non si può ridurre l’inquinamento senza espandere il trasporto pubblico gratuito e di qualità a tutti i livelli per ridurre il trasporto individuale, con la prospettiva di arrivare alla nazionalizzazione e alla riconversione tecnologica sotto il controllo dei lavoratori di tutte le aziende di trasporto e delle automobili. E che non si può sviluppare una nuova matrice produttiva industriale senza l’esproprio dei grandi gruppi, la riduzione della giornata lavorativa e la distribuzione dell’orario di lavoro senza tagli salariali.

È chiaro che questo non è il programma sostenuto dalle maggioranze oggi, ma la stessa lotta di classe pone gli scenari per lo sviluppo di un tale programma. La difesa della salute e delle condizioni di vita della popolazione a volte apre la strada, come dimostrano le lotte in Argentina contro le miniere inquinanti. O le operazioni à la Robin Hood della CGT in Francia, che ha promosso riallacci all’energia nei quartieri poveri. Da qui emergono le alleanze di classe che devono essere sviluppate. Oppure l’esempio della lotta della Total di Grandpuits, in Francia, che nel 2021, di fronte alla chiusura dello stabilimento – mascherata da una politica verde mentre si spostavano più operazioni in Africa – la forza lavoro ha cercato l’unità con il movimento ambientalista e ha proposto una riconversione ecologica della fabbrica. In questo momento in Francia i lavoratori delle compagnie petrolifere Total ed ExxonMobil sono in sciopero contro l’inflazione.

Se la classe operaia, la vera classe produttrice della società, si dota di un programma e di una politica egemonica e non corporativa, è l’unica classe che può occuparsi di articolare di un’alleanza sociale in grado di scongiurare la catastrofe in cui ci sta portando il capitalismo. Perché diciamo questo? Perché la classe operaia, che non si riduce all’idea stereotipata degli operai in tuta blu, ma a un ampio settore di coloro che devono vendere la propria forza lavoro in cambio di un salario, è quella che occupa quelle che chiamiamo “posizioni strategiche” nella produzione e nella riproduzione. Può bloccare tutto e anche iniziare a ricostruire la società su nuove basi. Per questo diciamo che è la classe operaia che può guidare egemonicamente un’alleanza con tutti gli oppressi.

Per realizzare tale programma, tuttavia, è necessario mettere in campo una strategia rivoluzionaria che affronti con decisione i responsabili del disastro, comprese le burocrazie sindacali che sono i puntelli dei regimi capitalistici e che agiscono come veri e propri ‘gendarmi’ all’interno del movimento operaio. Una strategia che permetta a una parte maggioritaria della classe operaia e della popolazione di prendere in mano la situazione come unica via d’uscita possibile. E questo, purtroppo, non nasce spontaneamente. È necessario costruire un’organizzazione politica rivoluzionaria che, sulla base delle lezioni della lotta di classe del passato e del presente, lotti consapevolmente per questa prospettiva.

La lotta di classe e la battaglia per la costruzione di partiti rivoluzionari oggi è fondamentale se si vuole elevare le lotte parziali – siano esse strettamente legate alle questioni ambientali, o relative alla miriade di drammi sociali vissuti dalla maggioranza della popolazione – al piano della lotta politica, per trasformare le idee rivoluzionarie in “forza materiale”.

La posta in gioco è la costituzione di una sinistra rivoluzionaria che non si limiti alla routine sindacale o all’attivismo nei movimenti, o all’intervento elettorale con un programma “minimo” per poi finire per capitolare nel neo-riformismo; né alla generica propaganda socialista avulsa dalla pratica reale, ma che lotti attivamente per la costituzione di una grande organizzazione rivoluzionaria della classe operaia che si trasformi in un soggetto egemone.

Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia. Se mettiamo quest’idea nella prospettiva del XXI secolo, come dice Walter Benjamin, le rivoluzioni sono forse “il gesto con cui la razza umana che viaggia su quel treno getta il freno d’emergenza”. Lottiamo per costruire un partito rivoluzionario che lotti affinché la classe operaia egemonizzi l’insieme dei settori sfruttati e oppressi per impadronirsi di questo freno d’emergenza.

 

Diego Lotito

Articolo già comparso su Contrapunto

Questo articolo fa parte del numero 4, autunno 2022, della rivista Egemonia.

È nato nella provincia di Neuquén, Argentina, nel 1978. È giornalista e redattore della sezione politica di Izquierdadiario.es. Co-autore di "Cien años de historia obrera en la Argentina 1870-1969". Attualmente risiede a Madrid ed è membro della Corriente Revolucionaria de Trabajadores y Trabajadoras (CRT) dello Stato spagnolo.