L’uccisione di Mahsa Amin da parte della polizia morale iraniana ha scatenato una serie di proteste che a macchia d’olio si sono diffuse in tutto il paese causando secondo alcune stime una quarantina di morti e diversi centinaia di attivisti arrestati.


La morte di Mahsa racchiude una serie di contraddizioni sociali presenti da decenni all’interno del paese. Dall’obbligo di indossare il velo, all’essere parte di una minoranza nel paese (Mahsa era curda), fino alle tensioni sociali dettate dalla crisi economica che attanaglia il paese ormai da troppo tempo. 

Ma andiamo per ordine. Nella giornata di venerdì 15 settembre una giovane ragazza, Mahsa Amin, era stata fermata dalla polizia morale (Gasht-e Ershad), un organo del regime sciita iraniano istituito 17 anni fa che ha il compito di controllare ‘il retto comportamento secondo i precetti religiosi’, poiché a detta delle autorità iraniane non indossava bene il velo. 

Mahsa è stata arrestata e proprio al momento della sua detenzione, secondo molti testimoni, è stata picchiata e poi portata in una delle centrali di polizia della città della capitale Teheran. 

Mahsa da quella centrale di polizia è uscita per entrare in un ospedale della città per poi morire a causa delle percosse ricevute durante la detenzione. 

Il funerale della giovane donna è stata un’occasione per mostrare tutta la frustrazione della famiglia e dei presenti contro il regime degli Ayatollah ed hanno inneggiato alla caduta del dittatore e del clero che dal 1979 guida la repubblica islamica. 

Le proteste di piazza sintomo di malessere sociale

Al contrario di quanto si possa credere l’Iran è stato uno dei paesi che più si è mobilitato nell’ultimo decennio. Già nelle pagine della nostra rivista, avevamo parlato del ruolo che negli anni i lavoratori avevano assunto nel convogliare le diverse rivendicazioni sociali per far fronte alle misure politiche messe in atto dai vari governi. 

Già dal 2009, con il Movimento Verde (nato durante le presidenziali e dopo la rielezione di Ahmadinejad), la mobilitazione sociale aveva visto un incremento della qualità delle proteste con i lavoratori che ricoprivano gran parte delle proteste. 

Scioperi prolungati e proteste nelle piazze e nelle strade andavano di pari passo con quelle più ampie del movimento democratico che vedeva nella rielezione dei conservatori un pericolo per una svolta ancora più autoritaria del passato. 

Le ragioni delle mobilitazioni di questo ultimo decennio sono da ricercare dalla profonda crisi economica che attanaglia il paese e dall’incapacità dello stesso di fornire una valvola di sfogo alla crescente disoccupazione giovanile e alla perdita di posti di lavoro. 

Questo è evidente dagli indicatori economici che hanno un declino sostanziale del PIL pro-capite passato da 8.525 dollari nel 2010 a 2.756 del 2020 e un aumento della disoccupazione giovanile che è passata dal 23% del 2013 a quasi il 30% del 2021. 

Inoltre, gli effetti delle sanzioni imposte stanno giocando un ruolo centrale per l’economia iraniana soprattutto in termini di importazioni di beni primari, che soprattutto durante l’epoca del covid, erano strettamente necessari per le strutture ospedaliere e per la cura dei malati (l’Iran nella prima fase di pandemia è stato uno dei paesi con più contagi al mondo). 

Gli effetti delle sanzioni dell’imperialismo americano ed Europeo hanno funto da catalizzatore delle proteste a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio. 

Proteste che si sono rivolte, oltre alla natura repressiva del regime iraniano, anche alle politiche economiche attuate costituite da privatizzazioni del settore industriale statale e al taglio dei servizi. 

È da queste politiche che sono nati, ad esempio, due esperienze di consigli di fabbrica nel paese all’interno delle industrie di canna da zucchero Haft-Tappeh e quelli del Gruppo Industriale Nazionale Iraniano dell’Acciaio (INSIG, l’acronimo inglese). Qui i lavoratori hanno rivitalizzato e posto nuovamente al centro del dibattito l’idea delle Showras (consigli operai) e della conseguente gestione operaia dei luoghi di lavoro.

In questo quadro, vi è tuttavia da registrare che più è forte e radicale la mobilitazione e più si è registrata una reazione violenta da parte del regime. 

Non parliamo solo della reazione dello stesso verso questa esperienza operaia (i cui leader sono finiti in carcere e torturati), ma anche verso tutte quelle iniziative che soprattutto negli ultimi tre anni hanno animato le piazze del paese. 

L’uso della forza da parte del regime è di fatto la dimostrazione delle difficoltà dello stesso nel far fronte alla crescente crisi economica e di avere quel minimo di legittimità popolare.

Genere ed etnia all’interno dello scontro sociale

L’obbligo del velo e la lotta contro la polizia morale che controlla soprattutto le donne e il codice di abbigliamento obbligatorio sono temi caldi che da anni sono al centro delle proteste delle donne iraniane, ma con il regime attuale degli Ayatollah la repressione è aumentata esponenzialmente generando sempre più malcontento.

I regimi islamisti,  come quello iraniano, propagandano come una conseguente emanazione del verbo del Corano l’obbligo del hijab con le relative punizioni violente sulle donne, ma questa è una falsità, in quanto questo non è mai esplicitamente detto all’interno del Testo ma si basa su libere interpretazioni, infatti prima della rivoluzione islamica del ‘79 in Iran non è che le donne non fossero musulmane. Questo passaggio aiuta a chiarire la strumentalizzazione dei regimi religiosi della religione al fine di perpetuare l’oppressione di genere e il controllo sociale; di fatti, non è un caso che fino ad ora gli scioperi delle donne non erano sostenuti da altri settori della popolazione iraniana.

L’uccisione di Mahsa Amin, si inserisce in questa dinamica di crisi, e ricorda molto quella di Neda Agha-Soltan, studentessa di filosofia e uccisa nelle manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad. 

Ma non è tutto. L’omicidio di Mahsa racchiude in sé anche una serie di contraddizioni sociali all’interno del paese che vanno dalla discriminazione e violenza contro le donne all’appartenenza etnica di minoranze come quella curda iraniana. 

Già nel 2008, uno dei rapporti di Amnesty International sulle condizioni sociali della minoranza curda in Iran, poneva l’enfasi sul fatto che questa minoranza negli anni subiva sempre più la repressione e la discriminazione da parte delle autorità centrali. 

Ma ciò che più colpisce del rapporto, è il fatto che esso ben riassume il fatto di essere donna e curda all’interno del paese: “le donne curde che lottano per i propri diritti si scontrano con un duplice ostacolo: fanno parte di una minoranza etnica emarginata e vivono in una società fondamentalmente patriarcale”.

Lo scontro e discriminazione etnica all’interno del paese (anche verso altre minoranze come quella ahzawi, turkmene e baluci) è strettamente collegata alla violenza dello stato che sfrutta a suo favore la divisione etnica per rafforzare, per quanto possibile, il proprio potere. 

Questo meccanismo, date le proteste di questi ultimi periodi, sembra non funzionare più e le mobilitazioni a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini ne sono la dimostrazione. 

Le proteste, trasformate in veri e propri assalti alle forze di sicurezza, si sono diffuse in tutto il paese. Già all’indomani dei funerali della giovane, diverse donne si sono tolte il velo e lo hanno bruciato nelle piazze sotto lo slogan “morte al dittatore”. 

Di fatto le proteste si sono catalizzate e sono andate ben oltre la questione del velo, ma si sono trasformate in una vera e propria contestazione che ha investito anche le zone rurali del paese che molto spesso, più conservatrici, erano rimaste al di fuori dalle rivendicazioni delle donne nel paese. 

Indicativa è la mappa delle proteste che si estendono dai grandi centri della regione curda, dai quali veniva Mahsa, alle grandi città fino alle zone rurali più remote 

Mahsa, giovane curda e proveniente da famiglia umile, ha di fatto risvegliato una serie di contraddizioni ormai latenti della società iraniana e ha catalizzato l’anima sociale e politica del paese. 

Una mobilitazione che ha scatenato la reazione brutale del regime iraniano che in meno di una settimana ha arrestato centinaia di manifestanti e ha ucciso, secondo alcune stime, una cinquantina di manifestanti tra i quali un’altra ragazza, che in questi giorni si era contraddistinta per il suo attivismo, Hadith Najafi

La violenza della polizia è corrisposta con la violenza dei manifestanti: molotov, bombe carta e incendi stanno caratterizzando gli scontri. 

Tale violenza è giustificata dal fatto che in questi ultimi periodi la polizia iraniana e, soprattutto quella morale, ha occupato sempre più le strade del paese. 

Tale presenza, come spiega Paola Rivetti sulle pagine di Global Project afferma che:

C’è una generale frustrazione della popolazione, da tempo alle prese con una crisi economica causata dalle sanzioni internazionali e dalla corruzione endemica delle istituzioni. Questa frustrazione è alimentata anche dal grande scollamento con la classe politica, che non presta più ascolto alle istanze delle persone. Tutto questo porta ad una crescente radicalizzazione della popolazione, che si manifesta soprattutto nella vita quotidiana.

La retorica del femminismo nostrano sulle lotte in Iran

La questione del velo è un tema che inizia nel XIX secolo nell’Egitto sotto colonizzazione britannica, alcuni leader arabo-mussulmani “progressisti” influenzati dai discorsi dei colonizzatori europei, che si battevano per i diritti delle donne come l’ istruzione, vedevano nell’ hijab il “simbolo dell’arretratezza culturale”.

Questo discorso è stato rotto dalle femministe arabe che ponevano la contraddizione che queste politiche erano servite solo a vietare il velo in molti paesi occidentali senza però portare a reali miglioramenti sul piano dei diritti delle donne, che negli stessi paesi che dovrebbero “diffondere democrazia” in realtà le donne musulmane vengono razionalizzate e marginalizzate. 

Nel femminismo liberale è tradizione sentirsi portatrici dei valori democratici, tipico di un apparato ideologico che non rompe con i paesi colonialisti che si sentono di dover diffondere la democrazia anche con le armi. Questa tara porta a cascata tutta una serie di posizioni che elevano la nostra cultura dimenticandosi delle atrocità che noi siamo stati capaci -e lo siamo tutt’ora- di perseguire in nome della religione soprattutto contro le donne.

Oggi, dove in occidente il femminismo liberale è sempre più interno alle istituzioni  tanto che molti esponenti dei governi borghesi -che non sono insoliti alla repressione- ne portano in alto la bandiera, hanno chiamato alla scandalo per il livello repressivo del regime iraniano, senza però appoggiare le proteste ma cavalcando un forte pregiudizio islamofobo.

Anche perché il metro di giudizio della chiamata alla democrazia contro i regimi religiosi non è lo stesso per quegli stati che per questioni petrolifere ed economiche hanno relazioni più forti con gli Stati Uniti. Un chiaro esempio del razzismo di certe dichiarazioni è l’enfatizzazione dell’aspetto fisico della giovane Hadith Najafi, descritta dai principali media come ‘la bionda iraniana che si lega i capelli con la coda’, quasi a voler dire che in fin dei conti, alcune iraniane ci assomigliano e non sono poi così diverse da noi.

In questo quadro si è creata un’immagine della donna musulmana debole, che va salvata, conservando, anche in questo, quest’animo patriarcale da cui non si riesce a rompere; ma soprattutto svalutandone la storia, la tradizione e il dibattito interno ad un femminismo dinamico che discute profondamente su se stesso e sviluppando posizioni differenti, come che un “femminismo mussulmano” può esistere oppure no, ma che sicuramente si pone contro il femminismo egemone occidentale bianco – riproducendo sull’abito del femminismo questa svalutazione manipolatoria machista  per difendere i propri interessi.

Se pensiamo ai processi, seppur fallimentari, che hanno caratterizzato la rivoluzione islamica del ‘79 e la resistenza al nuovo regime instauratosi, oltre a momenti molto radicali di organizzazione dei lavoratori come ad esempio con le occupazioni delle fabbriche, vediamo un investimento delle donne fortissimo in queste lotte e partecipazioni enormi alle manifestazioni contro l’obbligo di indossare il velo come nella data dell’8 di Marzo giorno internazionale per i diritti delle donne, contesto in cui addirittura diversi settori femministi si radicalizzarono verso proposte di gruppi militanti marxisti.

Questo per rompere da dentro tutto l’apparato ideologico del femminismo liberale bianco che essere musulmane equivale ad accettare l’oppressione più di quanto lo significhi essere cattoliche.  Questi settori descrivono le donne iraniane, come accade spesso anche ai migranti in lotta, come vittime invisibili di un governo autoritario. Che le donne in Iran siano vittime di un sistema repressivo è abbastanza risaputo, tuttavia non sono né invisibili e né impotenti.

Il lato più “progressista” del panorama femminista invece solidarizza con questi movimenti mentre rivendica che il velo vada messo al bando in nome della laicità e dell’eguaglianza impedendo così ad una donna di esprimere liberamente parte della sua cultura senza però muoversi allo stesso modo per altre religioni, come per esempio pretendere che in Italia non ci siano i crocifissi nelle aule di scuola.

Le lotte in Iran oggi, soprattutto in Italia dove al governo salirà probabilmente per la prima volta una donna al governo e questa è di ispirazione di estrema destra che giornalmente strumentalizza la xenofobia per distogliere l’attenzione su i veri criminali e responsabili delle condizioni di miseria in cui sempre di più cadiamo, ci possono solo aiutare a denunciare l’ipocrisia della solidarietà di molte donne, femministe, che però non hanno nessun interesse reale per la vittoria di questi movimenti né in Iran né nei propri paesi e non abbiamo sicuramente niente da insegnare a queste donne.

Anzi dovremmo noi riprendere la rabbia delle comunità iraniane per l’uccisione di Mahsa Amini per condannare gli atti repressivi, le violenze di stato, i femminicidi, le violenze sui posti di lavoro e le donne morte a causa di questo come Luana D’Orazio morta solo a 22 anni. Perché, per quanto le condizioni siano diverse, il responsabile è lo stesso: il sistema patriarcale e capitalista.

 

Scilla Di Pietro, Mattia Giampaolo 

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.

Nata a Napoli il 1997, già militante del movimento studentesco napoletano con il CSNE-CSR. Vive lavora a Roma. È tra le fondatrici della corrente femminisa rivoluzionaria "Il Pane e Le Rose. Milita nella Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) ed è redattrice della Voce delle Lotte.