Dell’approccio svedese laissez-faire al coronavirus avevamo già scritto in precedenza. Così come avevamo già segnalato come la Svezia fosse diventata un modello per la destra americana e per i negazionisti del covid, sia italiani che internazionali.

Dal punto di vista delle misure sanitarie, a parte le “raccomandazioni” circa il distanziamento e l’invito a restare a casa quanto possibile, le uniche novità degne di menzione, e introdotte tra Ottobre e Novembre con l’inizio della seconda ondata, sono probabilmente il divieto di assembramento di più di otto persone e quello di servire alcolici dopo le ore 22. Il governo e la Folkhälsomyndigheten rimangono invece contrari all’uso della mascherina*, una precauzione adottata da quasi tutti gli altri Paesi al mondo (eccetto Bielorussia e alcuni Paesi Africani).

La Folkhälsomyndigheten è l’agenzia di salute pubblica a cui il governo socialdemocratico ha affidato in pratica “pieni poteri” in materia Covid dall’inizio della pandemia. A dispetto delle sue valutazioni rivelatesi quasi sempre errate e soprattutto del numero dei contagi e dei morti, quintuplo o sestuplo rispetto agli altri Paesi scandinavi, la fiducia degli svedesi in questa istituzione viene data all’80-85%(!). L’epidemiologo di Stato Anders Tegnell (il cui ritratto campeggia persino in alcune mense pubbliche del Paese) è il volto della Folkhälsomyndigheten e della “via svedese” alla gestione della pandemia. Egli, il gruppo di esperti di cui è portavoce, il governo, il parlamento e, a quanto pare, l’80% degli svedesi ritengono che la mascherina (di qualsiasi tipo) sia superflua o possa risultare addirittura dannosa. A sostegno di questa argomentazione era stato diffuso nel Paese uno studio danese, il quale però rivelava solamente che la mascherina non impedisce l’entrata del virus dall’ambiente esterno, ma frena la fuoriuscita del virus dalle vie orali.[1] Trarre la conclusione che questo studio non mette in discussione l’utilità della mascherina, ma sottolinea soltanto che essa è realmente efficiente solo se indossata da tutti sembra quasi ovvio. Eppure nel Paese si è riusciti a far passare il messaggio secondo cui lo studio danese sarebbe una prova a favore della strategia laissez-faire svedese: lo studio è spesso citato da politici, giornalisti e normali utenti sui social per difendere l’operato del governo svedese e insinuare che l’obbligo della mascherina, introdotto nella maggior parte degli altri Paesi, non abbia alcun fondamento scientifico, ma sia piuttosto la misura “populista” data follemente in pasto dai governanti al popolo al fine di garantire un senso di sicurezza apparente.

Nel frattempo anche le scuole primarie rimangono aperte in presenza. Inizialmente la Folkhälsomyndigheten aveva dichiarato che i figli di genitori risultati positivi al covid sarebbero dovuti andare a scuola. Dopo alcune perplessità espresse dal sindacato degli insegnanti, almeno su questo punto i grandi “esperti” della strategia svedese hanno cambiato idea dichiarando che, per precauzione, anche i figli dei positivi devono rimanere a casa.

IL CAPRO ESPIATORIO DEI MIGRANTI

Il numero dei morti e quello dei contagiati, specialmente se paragonato agli altri Paesi scandinavi, non sembra essere dalla parte della strategia adottata dal governo svedese. Tegnell, come portavoce della Folkhälsomyndigheten, deve dare atto di ciò così come il governo che lo ha nominato deve dare atto del fatto che le terapie intensive sono, in alcune regioni, piene al 99%. [2]

Tegnell, non potendosi sempre crogiolare né potendo sempre e comunque trarre vantaggio dal clima di pace sociale e compromesso (al ribasso) della politica svedese, si trova a volte costretto a rispondere alle scomode domande dei giornalisti stranieri, tendenzialmente più critici verso la sua strategia rispetto ai giornalisti autoctoni (i media svedesi, infatti, sono tutti piegati alla pace sociale del governo di turno, molto più di quanto avvenga in qualsiasi altro Paese capitalista europeo).

Quando Tegnell risponde ai giornalisti stranieri solitamente farfuglia. Un esempio è di qualche settimana fa. Alla domanda della giornalista RAI sul perché il numero dei decessi in Svezia fosse sei volte più alto di quello della Norvegia (”Come spiega l’alto numero di decessi?”), Tegnell avanza una sopraffina tautologia: “Il nostro numero di decessi era alto in primavera perché era alto, ma ora non è così elevato, anche se è elevato” (cit.). (Pur tenendo conto delle difficoltà nel comparare le statistiche di diversi Paesi, risulta piuttosto sensato il paragone della Svezia con il resto della Scandinavia, per via delle similitudini come la bassa densità abitativa, il clima e alcuni tratti antropologico-culturali, come il “distanziamento sociale” già inscritto nei modi di fare dei nord-europei. Per queste ragioni il paragone con la Norvegia o con la Danimarca è uno dei principali motivi di imbarazzo per l’autorità sanitaria svedese).


Tuttavia, una delle esternazioni più interessanti dal punto di vista politico concerne l’idea che sta prendendo piede in questi giorni: se da un lato si tende a negare che la crisi sanitaria in Svezia sia più grave di quella degli altri Paesi, al tempo stesso, si cerca di attribuire la colpa a fattori esterni alla strategia stessa, ad esempio ai migranti. Nel solo mese di Novembre ci sono state 985 vittime in Svezia (97 per milione di abitanti: la popolazione totale è di circa 10 milioni), 128 in Danimarca (22 per milione di abitanti: la pop. totale è di circa 5 milioni), 69 in Norvegia (13 per milione di abitanti: p. totale è di circa 5 milioni), 49 in Finlandia (10 per milione di abitanti: p. totale è di circa 5 milioni). Durante un’intervista televisiva a Anders Tegnell è stato nuovamente chiesto da una giornalista (questa volta svedese), il motivo della differenza nel numero di decessi tra questi Paesi.
La sua risposta è stata che in Svezia, come in altri paesi europei dove ci sono state molte vittime del Covid-19, ci sono “gruppi di immigrati che hanno avuto un ruolo importante nel diffondere il contagio” (sic).
”Nelle scorse settimane”, nota Simone Scarpa (docente di Sociologia a Umeå), ”la stessa spiegazione era stata già proposta da alcuni commentatori televisivi della pandemia, notoriamente schierati ’a sinistra’ (ad esempio Agnes Wold, Jonas Ludvigsson e Sven Román)”.

Nessuno che abbia fatto notare che molti immigrati in Svezia hanno lavori a bassa qualifica che non gli permettono di lavorare da casa perché devono lavorare a contatto con altre persone, hanno salari bassi e vivono spesso in appartamenti affollati, in quartieri periferici dai quali sono costretti a prendere i mezzi pubblici per spostarsi, in città dove nessuno indossa le mascherine. “Avendo avuto a che fare per motivi lavorativi con molti di loro”, ci racconta Scarpa, “non mi stupisce il silenzio dei tanti studiosi che nelle università svedesi si occupano di immigrazione e relazioni etniche. Mi domando solamente quale sarà il loro ruolo nella società svedese quando questa trasformazione ‘Visegrád-iana’ sarà completata. Probabilmente continueranno come se nulla fosse con i loro studi su quanto è brutta e cattiva l’UE”.

Ieri il quotidiano Expressen ha criticato l’ipotesi, espressa tra gli altri anche da Anders Tegnell—secondo la quale il più alto numero di decessi per COVID-19 in Svezia sarebbe da attribuirsi alla più alta percentuale di immigrati nel paese. Infatti, nota il giornalista di Expressen, il numero di decessi è stato molto più alto nella regione settentrionale svedese del Norrland, che negli altri paesi nordici. Il Norrland ha più o meno la stessa densità di popolazione e la stessa percentuale di immigrati (non europei) di Danimarca, Finlandia e Norvegia, ma ha avuto un numero di decessi 4-5 volte superiore.
Il giornalista di Expressen ha quindi chiesto un commento all’articolo durante la conferenza stampa di ieri, che non è stata presieduta da Anders Tegnell ma dalla sua “vice” Karin Tegmark Wisell. Secondo lei, Tegnell non ha proposto una spiegazione mono-causale, dal momento che sono sicuramente intervenuti molti fattori contemporaneamente, inclusi quelli demografici. Per ciò che concerne la teoria dei “migranti-untori”, ha dato man forte al collega specificando che “non conta tanto l’attuale percentuale di immigrati in Svezia quanto i viaggi che questi immigrati hanno effettuato nei paesi di provenienza e le loro interazioni con familiari e conoscenti nei Paesi di provenienza. Sappiamo infatti che il virus era già presente in altri paesi prima di raggiungere la Svezia. Inoltre la demografia del Norrland è molto eterogenea, vi sono aree con un alto numero di decessi e aree con un basso numero di decessi. È necessario esaminare la ragione di queste differenze tra le diverse aree del Norrland. Sono intervenuti senz’altro molti fattori ma uno dei fattori potrebbe essere stato l’alto numero di viaggi all’estero degli immigrati, anche se si tratta di una ipotesi che deve ancora essere verificata facendo un confronto con altri paesi”.
Nonostante Tegnell abbia riconosciuto di essersi espresso male a questo proposito, la Tegmark Wisell ribadisce che i viaggi all’estero degli immigrati hanno avuto un ruolo importante (!), anche se bisogna tenere presente anche le condizioni in cui gli immigrati vivono in Svezia, le quali potrebbero aver avuto un ruolo importante nel diffondere il contagio (per esempio sovraffollamento, etc.). “[…] In pratica le analisi delle autorità sanitarie svedesi non sono altro che una versione più elaborata dei meme di Salvini”, osserva Scarpa.

Per concludere, la socialdemocrazia svedese in crisi non solo è stata in grado di affidare la questione corona a un gruppo, a quanto pare, di pseudo-scienziati il cui esperimento sociale (quello di una immunità di gregge pre-vaccino) viene pagato in primis dalle classi meno abbiette, dai lavoratori, dai precari e dai migranti, ma si è rivelata, non solo attraverso questo gruppo di pseudo-scienziati, ma anche attraverso i suoi giornalisti, la sua stampa e i suoi esponenti politici, persino in grado di esternare e diffondere nel Paese i più beceri argomenti razzisti e sciovinisti.

Chi abbia già letto i nostri articoli a tema Svezia, saprà che queste tendenze razziste e/o scioviniste/nazionaliste non sono affatto estranee né alla socialdemocrazia odierna né alla sua storia (la Svezia rimane del resto il primo Paese al mondo ad aver fondato nel 1922 il primo istituto statale per la biologia della razza). Il lettore consapevole avrà avvertito come un deja-vu nel leggere ciò che abbiamo appena riportato e non ne rimarrà particolarmente scioccato. Inoltre, da questa e da tutte le altre analisi precedentemente proposte emerge un impegno che abbiamo come marxisti, e che non nascondiamo, cioè quello di cercare di raccontare la verità sulla Svezia, sulla politica e sulla società svedese, che per troppi anni sono state ingiustamente “mitologizzate” da molta parte della sinistra riformista mondiale. Questo a causa, probabilmente, di una confusione ideologica che regna anche oggi, circa la definizione e la relazione tra i concetti di libertà e emancipazione, ma anche più banalmente l’idea di cosa sia il socialismo.

Ovviamente la “nostra” verità è quella dal punto di vista della classe lavoratrice: ciò che il modello svedese ha da insegnare alla classe operaia è che la socialdemocrazia non può rappresentare un futuro desiderabile e che essa ha ben poco a che vedere con la solidarietà e l’uguaglianza di una società senza classi e molto più con un individualismo “post-moderno” con tinte rosso-brune di statalismo, nazionalismo e sciovinismo.

*(Aggiornamento del 19/12: A distanza di ventiquattro ore da un’intervista in cui il sovrano reggente Carl Gustav Hubertus ha lamentato la drammatica perdita di vite umane, il governo svedese, pur non ammettendo il fallimento della strategia, ha deciso di raccomandare, nessun obbligo dunque, l’uso della mascherina sui mezzi pubblici).

Matteo Iammarrone, corrispondente dalla Svezia per Lavocedellelotte.it


Fonti:
[1]  https://www.svt.se/nyheter/inrikes/ingen-storre-skillnad-i-skydd-mot-corona-med-munskydd-visar-dansk-studie
[2] https://www.reuters.com/article/health-coronavirus-sweden-hospitals-idUSKBN28J23taid=5fd10c030bc2ea000145b656&utm_campaign=trueAnthem%253A%2520Trending%2520Content&utm_medium=trueAnthem&utm_source=twitter&fbclid=IwAR2FVebP8BIudVZ7bfd34Z6Vf7sdo0jg4T_Oyy6hidXSeuxddJxC2jWuwTM

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.