Questo venerdì, 23 settembre, il movimento ecologista ritorna nelle strade per il “climate strike”, data ormai imprescindibile per l’autunno, con l’aggravarsi di una crisi tanto sociale quanto ecologica. All’alba delle elezioni, questa mobilitazione può servire per ribadire la necessità di rivendicazioni politiche radicali, in grado di offrire prospettive sul cambiamento sistemico di cui abbiamo bisogno per ribaltare la traiettoria distruttiva sulla quale ci ha messo il capitalismo.


Sono passati ormai vent’anni dalla Conferenza di Rio, momento nel quale, per la prima volta, si decise di pensare un piano d’azione internazionale coordinato al fine di ridurre le emissioni di CO2, per contenere l’effetto serra, causa primaria del riscaldamento del globo. Da quel momento, le emissioni sono aumentate del 60%, e gli effetti del riscaldamento climatico sono diventati ormai una realtà con riscontri tangibili nella quotidianità di tutte le persone del pianeta. Quest’estate abbiamo detto più volte che “non è l’estate più calda della nostra vita”, ma quella “più fredda del resto della nostra vita”: usciamo da mesi di secca per ampissime aree del mondo, esondazioni terrificanti come quella che ha devastato il Pakistan giusto pochi mesi fa (e per la quale ora dilagano malattie come il dengue e il colera), e assistiamo quotidianamente alla distruzione del nostro ecosistema, mentre le istituzioni continuano a proporre misure di facciata quali iniziative di consapevolezza e “quote green” (come ad esempio nel caso di concessioni di spazi naturalisticamente rilevanti ad aziende con scopi estrattivisti, in cambio della promessa di piantare alcuni alberi in tali zone, il cui aspetto cambierà per sempre, con tutto ciò che ne consegue). Il capitalismo cerca di dare risposte inique e storicamente irrilevanti: lo sviluppo delle tecnologie necessarie per il completamento di tante delle misure necessarie ad attuare piani per il “capitalismo verde” è arretrato, e anche qualora venisse portato a compimento, implicherebbe la devastazione della produzione alimentare di decine di paesi del terzo mondo (come ad esempio varrebbe per la proposta di stoccaggio della CO2 in riserve sotterranee, pensate con ogni probabilità per essere piazzate sotto a terreni coltivabili e foreste in paesi del terzo mondo, le quali sono già a forte rischio di sparire). Tutto questo, mentre ancora chi ha macinato profitti per anni dai processi di devastazione ambientale rifiuta di vedere la realtà: è proprio l’accumulazione ad oltranza di capitale che mette freno a qualsiasi possibilità di avanzamento reale nella lotta contro la crisi climatica. In questo vediamo quindi la natura reale della crisi che ci troviamo ad affrontare: si tratta di una crisi ecologica quanto di una crisi sociale, economica e politica, in cui ancora si prova a proporre un misto di soluzioni individuali (come la regolazione dello stile di vita degli individui, chiaramente quelli più poveri in primis) e scelte di mercato, quando in realtà è il sistema che è marcio alla radice. Il 71% delle emissioni è prodotto da 100 delle aziende energetiche del mondo, non da coloro che tutti i giorni si sentono ripetere mantra riguardo al proprio consumo energetico.

Il peso di questo disastro è sorretto dagli oppressi di tutto il mondo, e non è più un segreto. La borghesia, a livello nazionale e internazionale, è solo in grado di offrire risposte accondiscendenti nel migliore dei casi, e repressione nel peggiore (per mano della classe politica che ne difende gli interessi). Mentre il mondo va a fuoco, si continuano a concedere terreni e garanzie all’industria alimentare di massa e alle aziende del settore petrolchimico. Attivist* e militant* di tutto il mondo vengono vessat* e arrestat*, come nel caso dei movimenti di tutela dei territori e dei diritti delle Prime Nazioni indigene del Nord America, dove l’estrazione di gas naturale e petrolio impenna ogni semestre, nonostante le false promesse dei governi di Canada e Stati Uniti di fermare questo processo. I principali fiumi del mondo, e le aree ad essi adiacenti, subiscono un pericolosissimo processo di essiccamento, con ricadute disastrose per tutt* coloro che dipendono da essi per la propria sopravvivenza. Il sistema è interconnesso, e funziona attraverso collegamenti transnazionali tra governi e aziende. La stessa ENI, oggi, continua a portare avanti le proprie attività distruttive nel delta del Niger, e alcune delle principali aziende attive nel settore dei combustibili fossili spendono ogni anno milioni di euro per coprire le proprie tracce, dietro la sponsorizzazioni di eventi e summit sulla “conservazione dell’ambiente”, dove altro non si discute se non di aria fritta, proprio per la natura di chi supporta tali momenti. I governi borghesi e le aziende lavorano sodo per mantenere la propria stretta sui sistemi che li sorreggono, per questo il movimento deve armarsi delle necessarie strategie per combatterli: una delle forze principali della mobilitazione che, ormai da quattro anni, rivendica una reale giustizia ambientale e sociale, è stata la capacità di agire in maniera transnazionale, formando legami e stimolando importanti discussioni tra categorie di oppressi che necessitano di mettere in rete il proprio campo d’azione. Il legame che si è creato, ad esempio, tra il movimento operaio in Cile e le comunità indigene, durante le mobilitazioni che hanno portato alla caduta del governo di Sebastian Pinera, e che ha spezzato uno steccato storico promosso dalla borghesia tra giovani e operai, dando una carica di protagonismo alle rivendicazioni ambientaliste nel movimento operaio stesso, può e deve essere un esempio in tutto il mondo: queste esperienze sono il vissuto comune di un movimento che può e deve approfondire i legami tra l* oppress* di tutto il mondo.

Dice bene, poi, Martina Comparelli, attivista e portavoce del movimento Fridays For Future in Italia, in un intervento pubblicato lo scorso 13 settembre, quando afferma che bisogna rigettare la retorica delle scelte individuali. Proprio in un momento del genere, in cui contendenti elettorali cercano di raggranellare qualsiasi percentuale di consenso, bisogna lottare per un programma di ribaltamento politico della situazione. Nel suo intervento, Camporelli ricorda la natura sociale della crisi, come ricorda i cinque macro-temi che costituiscono l’ agenda Climatica del movimento: energia, edilizia, acqua, lavoro e trasporti. C’è molto con cui troviamo terreno comune, in termine di proposte concrete; tuttavia, ciò con cui ci troviamo maggiormente d’accordo è la natura politica della crisi, come della soluzione che ad essa vogliamo trovare. Anche in quest’ottica, è giusto, come sempre si legge nell’intervento, rigettare la politica d’immagine e le vaghe, dannose o inconsistenti proposte che vediamo sciorinate in questa campagna elettorale. Da chi, come Giorgia Meloni, rivendica come elisir di tutti i mali l’investimento sul nucleare, alle deboli proposte di un centrosinistra ormai perfettamente allineato alle politiche di sfruttamento neoliberista (da cui prova timidamente a smarcarsi, sperando di poter condannare all’oblio quanto ha compiuto negli ultimi dieci anni di governo): le soluzioni al disastro climatico e sociale non possono passare da quella classe politica che per anni non ha fatto altro che confermare il suo asservimento a quei settori dell’industria che sono al cuore della crisi. A queste ricette dobbiamo contrapporre rivendicazioni forti e chiare, per farla finita con questo sistema e con coloro che lo hanno diretto per decenni, guidandoci alla situazione nella quale oggi ci troviamo: sono soluzioni, quindi, che devono partire dal movimento, il quale non ha bisogno di sponde istituzionali, ma di legami forti in settori strategici della società.

In quest’ottica, il più grande successo del movimento ecologista attuale in Italia è stata la convergenza con lotte operaie come quella della GKN, dove si è instaurato un solido rapporto tra il collettivo di fabbrica e l* giovani che, fin da subito, sono stat* il cuore pulsante del movimento. Anche sulla scorta di questa vicinanza si sono cominciate a pensare proposte radicali, come la riorganizzazione dell’impianto industriale del paese. Possiamo fare di più! Il settore energetico, e tutte le aziende strategiche – in primis l’automotive, da mettere al servizio di un trasporto pubblico di massa e non inquinante – devono passare sotto il controllo di chi le anima e le opera. Solo pianificando l’economia si può evitare che la limitata “transizione ecologica” promossa dal capitale venga pagata da chi lavora e affrontare realmente la crisi climatica e ambientale. Rivendichiamo questo in quanto rivoluzionari*, non per velleità idealistiche, bensì perché solo in questo modo saremo in grado di riorganizzare la società da zero, togliendo le leve dell’economia alla classe capitalista che opprime i giovani e le masse sfruttate, anche scaricando la crisi ambientale sulle loro spalle; solo così potremo sconfiggere l’enorme minaccia ecologica che ci offre il corso attuale delle cose. Di conseguenza non è solo importante mettere al centro il lavoro, ma anche i lavoratori; la convergenza tra movimento ecologista e movimento operaio deve essere incoraggiata, non solo però quando settori avanzati come i lavoratori GKN chiamano alla mobilitazione, ma nell’orientamento strategico di intervento quotidiano del movimento ecologista. Il movimento ecologista deve ambire a conquistare quant* più lavorator* e quanto più spazio di influenza politica nel movimento operaio.

Se i lavoratori non sono in prima linea nel movimento ecologista non è in ultima analisi perché sono ‘disinteressati’, ma anche perché serve maggiore comprensione da parte degli attivisti della loro importanza strategica; quindi della necessità di coinvolgerli in uno sforzo di organizzazione volto a liberarli dall’influenza di burocrazie sindacali sempre più concertative – da cui l’assenza della CGIL nazionale dalle piazze di oggi –  e pronte a cedere alla retorica padronale della dicotomia “ambiente-lavoro”, come ha dimostrato la vicenda dell’Ilva di Taranto. I nostri nemici a destra vedono la situazione e si compiacciono del campo libero lasciato dalle vecchie strutture politiche, civili e sindacali del centrosinistra storico all’ascesa di spiegazioni xenofobe e reazionarie per il disastro sociale in corso. Non si possono abbandonare lavoratori e lavoratrici a questi sgherri opportunisti: costruiamo il movimento ecologista nel movimento operaio e non solo con. D’altro canto, parafrasando i compagni di Stati Genderali, che rivendicano la necessità di portare la lotta per i diritti di genere e riproduttivi sul posto di lavoro (oltre alla convergenza con la lotta anti-imperialista ed ecologista), nessuno di noi fa l’ambientalista di professione e chi oggi è studente presto dovrà guadagnarsi da vivere in cambio di un salario, spesso all’interno di produzioni nocive e/o che contribuiscono alla crisi ecologica, trovandosi pertanto in una posizione centrale per ribaltare i rapporti di forza e il destino dell’umanità.

L’autunno che ci aspetta porterà a galla una miriade di nuove contraddizioni, oltre a quelle di cui già vediamo la manifestazione oggi. Anche, e soprattutto, per questo dobbiamo cominciare da subito a preparare il terreno su cui avanzeremo le rivendicazioni di cui abbiamo bisogno: l’uscita necessaria dalla crisi deve essere anticapitalista ed internazionalista, perché capitalista ed internazionale è il sistema che ci schiaccia! Tutt* in piazza il 23 per lo sciopero globale per il clima!

 

Luca Gieri

 

Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.