Il tribunale di Modena, nel maxiprocesso Italpizza, ha ammesso l’ipotesi della richiesta danni da parte dell’azienda per risarcirla degli scioperi. Un attacco brutale al diritto di sciopero e alla lotta sindacale in quanto tale.


Dalla repressione poliziesca alla richiesta di risarcimento: l’escalation dell’attacco padronale

Il 3 ottobre scorso nel tribunale di Modena si è svolta l’udienza preliminare per il maxi processo Italpizza, che vede coinvolti decine di lavoratori e il loro sindacato, il Si Cobas, in seguito agli scioperi e manifestazioni che hanno interessato l’azienda fra il 2018 e il 2019.

Il giudice ha rinviato a giudizio 66 lavoratori e sindacalisti e, cosa ancor più grave, ha ammesso la legittimità dell’azienda multimilionaria di chiedere i danni al sindacato non solo per i disservizi causati dagli scioperi ma anche per tutte le altre presunte attività illecite svoltesi “in piazza” durante manifestazioni e picchetti dei lavoratori.

Tra il 2018 e il 2019 l’azienda Italpizza fu scossa da una serie di duri scioperi da parte delle lavoratrici e dei lavoratori iscritti al sindacato Si Cobas. Al centro della protesta era il riconoscimento del contratto nazionale alimentaristi, non utilizzato a vantaggio del più economico (per la proprietà) contratto multiservizi e la stabilizzazione di lavoratori e lavoratrici in gran parte stranieri. Nella serie di picchetti e manifestazioni sindacali susseguitesi per mesi si assistette a azioni repressive violente da parte delle forze dell’ordine con manganellate, lacrimogeni e fermi arbitrari.

Come se l’usuale utilizzo della violenza da parte delle autorità non fosse abbastanza, oltre alle denunce per manifestazioni non autorizzate, violenza privata e resistenza aggravata, il sindacato si è visto richiedere direttamente dall’azienda Italpizza la somma spropositata di “almeno 500mila euro di danni” per i picchetti e il risarcimento di qualsiasi altro danno “al territorio”. Sicuramente questa è la questione più insidiosa dell’intera vicenda, perché finora nessun giudice aveva mai ritenuto ammissibile in un processo per agitazioni sindacali la responsabilità civile intesa in maniera tanto ampia.

Si inserisce, questo processo, nella continua escalation antisindacale che da anni ormai sferza le organizzazioni combattive dei lavoratori in particolare nel nord delle cooperative (che hanno avuto come referente politico storico la burocrazia passata dal PCI al PD), un’escalation che ha di volta in volta spostato la concentrazione degli attacchi padronali passando da fermi, denunce e condanne a singoli dirigenti e lavoratori sindacalizzati a un attacco più ampio agli stessi diritti sindacali ampiamente intesi.

 

La fine della lotta di classe “per legge”: il sogno irrealizzabile delle élite

Cosa si comunica, quando un giudice ammette la possibilità per un’azienda di chiedere indietro centinaia di migliaia di euro di danni al sindacato per via di uno sciopero, se non che lo sciopero stesso non può e non deve creare danni economici alle aziende? E cosa rimane dello strumento dello sciopero e, in definitiva della stessa possibilità di organizzazione sindacale, se si insinua che non si deve colpire l’interesse economico dell’azienda? 

Cosa resterebbe della forza organizzata dei lavoratori e delle lavoratrici se gli si togliesse la possibilità di creare disservizi e danni economici a proprietari di aziende, magazzini e fabbriche? Praticamente solo la possibilità di manifestare (pacificamente, beninteso) il proprio dissenso, come se la lotta di classe potesse in qualche maniera essere ridotta all’ordinata esercitazione del “diritto di parola” che esclude, una volta disarmata della vera potenzialità dello sciopero, ogni possibilità di innescare un reale cambiamento in una società sempre più antidemocratica e totalitaria, mentre le leve del potere si concentrano, insieme ai capitali, nelle mani di un numero sempre più esiguo di potenti.

Questo è il messaggio del maxiprocesso Italpizza, come pure delle leggi di limitazione del diritto sindacale (come il testo unico sulla rappresentanza del 2014), delle leggi di limitazione degli scioperi (come già avviene nei settori pubblici), delle leggi che puntano ad utilizzare o restaurare reati di epoca fascista (come la devastazione e saccheggio o il reato di blocco stradale). Purtroppo per le élite, tuttavia, questo è un sogno che non possono realizzare: la lotta di classe non è nata con il capitalismo e potrà morire solo con la fine della società basata sullo sfruttamento, non “per decreto”.

La gioventù, i lavoratori e le lavoratrici non potranno essere pacificati “per legge” perché non esiste un modo di risolvere le contraddizioni del sistema in cui attualmente viviamo e abbiamo sempre vissuto. Insomma gli scioperi, i picchetti, i sabotaggi, non potranno essere fermati semplicemente dichiarandoli illegali e lo vediamo quotidianamente nelle piccole e grandi occasioni di opposizione sociale all’interno di tutti i paesi, dall’Europa agli USA, dall’Iran alla Russia. Queste angherie dello Stato, al contrario, mostrano la strada più giusta da percorrere a chi vuole cambiare le cose: non solo e non tanto il dissenso “verbale”, ma l’azione a colpire le principali basi su cui si fonda il potere degli Stati borghesi, a mettere in discussione la proprietà privata ed il profitto.

 

Massimo Civitani