Pubblichiamo un’intervista registrata nel mese di agosto con Jean Marc Rouillan, durante il ciclo dell’Università Estiva della nostra organizzazione sorella francese, Révolution Permanente. In questa intervista, discutiamo di strutture repressive, delle strategie che i rivoluzionari possono avere per combattere il capitalismo (a prescindere dalle divergenze che si possono avere, ad esempio, intorno alla fase storica della lotta armata in Europa) e dell’importanza della memoria storica del movimento rivoluzionario, così come della sua conservazione. 


Jean-Marc Rouillan è un militante e scrittore francese. Attivo già dall’inizio degli anni ‘70 nella lotta contro il franchismo, è stato uno dei protagonisti di quel settore del movimento operaio e rivoluzionario che ha scelto la lotta armata come strategia per attaccare il capitalismo in Francia, militando a partire dal 1979 in Action Directe. Dopo una serie di azioni rilevanti, come l’omicidio di Georges Besse, presidente di Renault e fondatore di Eurodif, Rouillan e altri compagni e compagne vengono arrestati nel 1989. A Jean-Marc sono inflitti due ergastoli (il secondo arriva nel 1994), e comincia per lui una fase durissima di reclusione, durante la quale è sottoposto a violenze di ogni tipo. In questo frangente, la sua attenzione è particolarmente orientata verso la natura del carcere e la vita condotta dai carcerati al suo interno, come si può leggere dalla colonna “Chroniques Carcérales” che, dalla prigione, riesce a scrivere per il mensile di critica sociale CQFD. Durante la sua detenzione porta avanti proteste di ogni tipo per i suoi compagni di Action Directe e per gli altri carcerati. Ottiene la libertà condizionale nel 2007, anno a partire dal quale comincia un regime di costante vessazione e sorveglianza da parte dello Stato. Questa sorveglianza non gli impedisce, tuttavia, di partecipare a movimenti importanti come quello cominciato nel 2016 contro la “loi travail” e quello dei Gilet Jaunes. Nel 2022 sostiene la campagna presidenziale di Anasse Kazib, ferroviere e rivoluzionario, organizzata da Révolution Permanente.

Presidio per la liberazione dei “cinque di Action Directe” organizzata dal Soccorso Rosso francese.

Jean Marc, in questi giorni sei ospite di un’organizzazione trotskista, ma il tuo percorso ti ha portato ad abbracciare tante prospettive nel campo vario della sinistra anticapitalista. Come mai hai deciso di venire qui, e continuare ad approfondire i rapporti con i compagni e le compagne di RP?

Innanzitutto, io non sono trotskista, ma dal momento della scissione tra RP ed NPA, io mi sono posizionato sul lato di RP. Dare il via ad un processo di riformazione dell’estrema sinistra è un compito di fondamentale rilevanza, ed è importante che le elaborazioni a guida di questo processo includano una discussione sulla straordinaria esperienza di vent’anni fa. La grande forza politica di RP viene dalla sua capacità di cercare il confronto, di porsi in dialogo con l’esperienza passata. Non puoi cominciare un processo rivoluzionario (esclusivamente) con dei testi degli anni ‘20. Stando qui mi sembra chiaro che, in passato, ci sia stata una riflessione ampia sul processo rivoluzionario e sugli eventi precedenti gli anni ‘90; quello di armare la gioventù organizzata in RP con tutte le nostre riflessioni e le esperienze che facemmo noi all’epoca è un dovere per tutti i quadri rivoluzionari di oggi.

 

Siamo in un’università estiva in cui alcuni degli eventi più pubblicizzati riguardano la lotta per la liberazione dei prigionieri politici. Penso al caso italiano, in cui la questione è descritta come un problema “risolto”, un fantasma del passato. Chiaramente sappiamo che questo non è vero, non solo per la presenza di persone nel sistema carcerario che si trovano ancora a dover pagare per le lotte portate avanti trenta, quaranta, cinquant’anni fa, ma anche per la detenzioni in occidente di militanti politici come Georges Abdallah, o per i rischi che corrono attivisti e militanti (anche non necessariamente rivoluzionari) kurdi in tutti i paesi allineati alla NATO. Perché è così importante, nel 2022, continuare a rivendicare la liberazione dei prigionieri politici e l’abolizione del carcere (da un punto di vista politico e non meramente umanitario)?

Hai detto parole importanti – “come un fantasma”. Potremmo anche dire “come uno spettro”, ed io aggiungerei: “… che si aggira per l’Europa!”. I prigionieri sono proprio questo, “uno spettro che si aggira per l’Europa” e spaventa la politica. Noi non difendiamo i buoni sentimenti: questi compagni e queste compagne sono la memoria vivente delle lotte che in passato hanno terrorizzato il capitale di tutto il Mondo. Sono importanti, in ultima istanza, perché riconquistare la nostra memoria è un passo decisivo della lotta di tutti e tutte le rivoluzionarie ed i rivoluzionari. Oggi, quindi, lottiamo per strappare i prigionieri dalle prigioni, come stiamo facendo congiuntamente a Révolution Permanente in Francia per liberare il compagno Georges Abdallah dal carcere (un articolo su Georges Abdallah e sulla sua storia in inglese, apparso sul Palestine Chronicle). Strappare tutti i compagni dal carcere vuol dire strappare una parte decisiva della nostra classe dal sistema repressivo dello stato capitalista (aggiunge il compagno Umberto, che traduce le domande all’intervistato: indipendentemente dal pensiero dei singoli individui che si trovino carcerati in questa o quella realtà).

Militante comunista palestinese, Georges Ibrahim Abdallah è in carcere in Francia dal 1984.

Hai accennato all’importanza del riprendere in mano la nostra storia, tornare in controllo delle nostre esperienze e del portato storico del movimento operaio e rivoluzionario. Che ruolo gioca questa elaborazione nello sviluppo del movimento al giorno d’oggi?

 La repressione borghese ci ha schiacciato militarmente, e ha schiacciato anche la memoria delle nostre lotte e di questo scontro. In Francia, non puoi dare il via ad un processo rivoluzionario se non sei disposto a confrontarti con ciò che è avvenuto a partire dal ‘68, così come in Italia è impossibile avviare una lotta operaia, rivoluzionaria, di classe senza conoscere la storia delle Brigate Rosse e di Prima Linea, come di tutto ciò che è stata realmente la lotta di classe: non solo, quindi, bisogna conoscere i movimenti del ‘68 e del ‘77, si ha da capire tutto ciò che è successo in quel periodo storico. Ogni rivoluzionario deve assumere in se stesso la storia di quegli anni (francesi come italiani), con tutti i nostri successi, così come con tutti i nostri difetti.

Ieri ho fatto un discorso sulla controrivoluzione a partire dal ‘68; in esso, ho fatto menzione del fatto che tu e la generazione a cui appartieni non abbiate vissuto le fasi del fordismo, del dopoguerra… siete nati col neoliberismo, ed ora che esso arriva al suo punto di crisi culminante (è dal 2008, d’altronde, che non riesce a ri-valorizzare il proprio capitale) e che non riesce a far fronte alle contraddizioni sorte durante la mondializzazione, si trova anche di fronte ad una crisi ideologica e politica. In un momento del genere, è naturale che arrivino dei giovani disposti a chiedersi che cosa sia avvenuto prima di tutto ciò: quando questo accade, assistiamo ad un “errore” (come in inglese “fault”, ndr.) del sistema, che non riesce più a nascondere la realtà, e soprattutto non riesce più a convincere i giovani del fatto che non valga la pena di approfondire storie come quella di Action Directe, delle Brigate Rosse, degli anni ‘70 e via dicendo. Per me, l’apparizione di Révolution Permanente nel contesto politico francese equivale ad una crisi ideologica del sistema, così come lo sono altre esperienze di questi anni, ad esempio quella dei Gilet Gialli. Mi sento sempre in dovere, poi, di dover spiegare nelle mie discussioni la portata dell’interventismo americano e della NATO negli affari politici interni italiani; si tratta di un interventismo criminale, che oggi, ad esempio, cerca di convincere un intero paese della giustezza di mandare armi in Ucraina per alimentare sempre più le fiamme del conflitto. Per questo è importante che discutiate di argomenti come la strategia della tensione, che analizziate la complicità e l’influenza della NATO in tutti gli attentati e le stragi che hanno sconvolto il vostro paese per anni.

Il nostro dovere (quello della mia generazione) è dettato dal fatto che noi non saremo più in circolazione in molti casi, e di certo non saremo più in grado di prendere in mano le armi (almeno nel senso compiuto del termine), ma questo vuol dire assumere appunto il compito di trasmettere l’esperienza di quello che è stato, affinché voi abbiate la capacità di comprendere perché valga la pena di andare avanti, e come abbia più senso farlo.

 

A tale riguardo hai menzionato anche la repressione subita da movimenti operai, come in Francia è successo per i Gilet Jaunes, una lotta che ha vissuto un altissimo livello di violenza. In Italia, anche durante la pandemia, abbiamo assistito ad un riemergere di lotte operaie più localizzate di quella dei Gilet Jaunes, ma che ciononostante si sono trovate a fare i conti con un rinnovato fervore repressivo da parte dello Stato (penso al caso recente dell’arresto di otto sindacalisti il mese scorso, avvenuto attraverso una ridicola distorsione della legge sugli scioperi). In questi contesti si rinnovano dibattiti cruciali come quello sul tema dell’autodifesa operaia, nelle fabbriche come nelle manifestazioni, ma soprattutto ci si domanda che aspetto debba avere la direzione politica dei movimenti per rispondere alla repressione e mirare alla vittoria. Cosa pensi in merito?

La lotta di classe di oggi ha un carattere di violenza spropositata (aggiunge il compagno Umberto: “a livello di movimento di massa, la repressione oggi è molto più brutale di quella che abbiamo vissuto negli anni ‘60. Gli anni di detenzione, di condanna, che vediamo oggi, sono di una durezza mai vista”). Una delle forze del neoliberalismo, nella sua vittoria contro il movimento è stata quella dell’imposizione del monopolio della violenza. Il movimento rivoluzionario deve contestare tutti i monopoli della borghesia, il che include, chiaramente, il monopolio della violenza, ma deve includere necessariamente anche quello dell’ideologia; in Francia, ad esempio, come risultato della vittoria del neoliberismo, abbiamo assistito ad un processo di grande istituzionalizzazione e addomesticamento dell’estrema sinistra. Oggi, questa sinistra istituzionale ha come sola parola d’ordine di mobilitazione la conquista di seggi e incarichi attraverso le elezioni borghesi. Questo fenomeno ha avuto delle conseguenze concrete nelle ultime due grandi ondate di mobilitazione proletaria: parlo di quella dei quartieri popolari del 2005 (movimento contro il quale la borghesia dichiarò rapidamente uno stato di emergenza), e dell’insurrezione dei Gilet Jaunes: in entrambi i momenti, l’estrema sinistra è stata quasi totalmente assente, con conseguenze prevedibili. Solo Révolution Permanente e i suoi militanti sono stati presenti, specialmente con l’uso degli strumenti mediatici a loro disposizione.

 

Nel parlare del 2005 mi hai fatto pensare alla composizione contemporanea della classe operaia: una classe operaia composta sempre più da soggetti di nuove migrazioni, giovani, donne e persone queer. Sappiamo anche che essere, ad esempio, una persona razzializzata, ti espone ad un rischio molto maggiore di violenza istituzionale. Il compagno Vincenzo ricordava poco fa che in Libano, ovunque, era normale scorgere sui muri dei palazzi scritte inneggianti alle BR o alla RAF, il che dà idea di come questi fenomeni fossero riconosciuti e considerati stimolanti anche oltre i confini nazionali. Mi chiedevo oggi, cosa pensi della capacità potenziale della classe operaia, armata di una direzione politica forte, di formare legami in tutto il mondo, e sorpassare quelle divisioni sociali tanto convenienti per il capitalismo.

Ieri, al meeting plenario che abbiamo avuto, un compagno ha cominciato il suo discorso rimandando alla famosa citazione di Warren Buffet, per il quale la lotta di classe sarebbe esistita, ma che l’avrebbe vinta la borghesia. Io ne do un’interpretazione diversa dall’originale: signor Warren Buffet, non solo la lotta di classe esiste, ma l’avete già persa, perché avete creato il proletariato mondiale. Il neoliberismo, la mondializzazione, tutti gli sforzi fatti per ridare valore sul piano internazionale al capitale, furono previsti dai cinque punti di Marx quando parlava della caduta tendenziale del saggio di profitto: uno di questi punti fondamentali è proprio quello dell’estensione geografica dello sfruttamento. Io sono marxista: già nel manifesto si dice che il momento cruciale della rivoluzione sarà quando la borghesia verrà messa di fronte all’esistenza di un proletariato mondiale. Oggi, ci siamo: è praticamente creato. La maggioranza del mondo è proletaria (cifre ufficiali, sia chiaro). 

Resta poi, però, la questione dell’identificazione del soggetto di classe. In Italia, sembra sia stato un lavoro costantemente difficile, questo dell’identificazione. Negli anni ‘60 alcuni compagni tentarono di identificarlo esclusivamente col proletariato del mezzogiorno; d’altro canto, esistevano anche dei riformisti, allineati ad esempio col PCI, che nel proletariato del sud non vedevano alcuna possibilità di emancipazione politica. Il soggetto della classe non è l’insieme, per così dire, della classe, ma è quel suo settore più avanzato, quello che fronteggerà i più duri degli scontri (potremmo anche parlarne come dell’avanguardia della classe). La globalizzazione dello sfruttamento ha portato a questo: che la maggior parte del proletariato mondiale, oggi, sia completamente precarizzato, non solo perché non ha un lavoro fisso  (un operaio FIAT si potrebbe dire precario, giacché fronteggia il rischio della delocalizzazione, ad esempio”, aggiunge il compagno Umberto). La qualità dello sfruttamento determina la precarizzazione. Il proletariato mondiale dev’essere cosciente della sua sempre crescente razzializzazione, come dell’essenzialità della sua componente femminile (su scala mondiale, la donna è maggioritaria), e del suo concentramento abitativo nelle periferie degli spazi urbani: si tratta di cambiamenti storici nelle dinamiche della nostra classe.

 

Se penso a tanti miei coetanei, non riesco a fare a meno di pensare al fatto che la nostra generazione (non in maniera esclusiva) sia quella più soggetta a contratti precari e a fenomeni come la gig economy, mostruosità del neoliberismo in crisi. Questi giovani precari, tuttavia, sono anche soggetti estremamente difficili da organizzare, soprattutto per quelle strutture sindacali che ancora basano la propria attività su modalità atrofizzate e burocratiche, e che hanno nel tempo deciso di abbandonare quasi del tutto questo sforzo. Quali pensi possano essere stimoli e idee che aiutino i rivoluzionari a raggiungere questa nuova classe operaia giovane e precaria?

Oggi, sono in un’organizzazione che rivendica l’idea dello sciopero generale, che difende l’idea che sia necessario organizzare il proletariato precario: ciò che è dimostrato da tale organizzazione è che lo scontro è il momento cruciale della ribellione. Quando i militanti vanno alla manifestazione dei Gilet Jaunes dicendo “sciopero generale”, il proletario precario, sceso in strada come Gilet Jaunes, non riesce a capire la pertinenza di parole d’ordine di questo tipo, in un momento come quello, perché già si trova nello scontro. Non è il fatto di criticare la rivendicazione dello sciopero generale, ma non corrisponde né allo scoppio delle mobilitazioni nei quartieri popolari, né a quello dei Gilet Gialli, per i quali era impossibile concepire, in un momento di conflittualità come quello, una parola d’ordine come quella dello sciopero generale. Si era nel mezzo di una mobilitazione estremamente conflittuale, e per questo motivo le tattiche tradizionali di “preparazione” non ricevevano risposta da coloro che avevano già avviato la propria lotta.

Voglio tornare su un punto: quando si è presentata l’estrema sinistra istituzionalizzata a dialogare con i compagni in lotta (durante i coordinamenti dei Gilet Jaunes), ha espresso qualcosa di irricevibile per me da un punto di vista teorico: si affermava il fatto che lo Stato nazionale sarebbe separato dall’internazionale. Chi afferma cose di questo dimostra di non aver compreso le forme di statalizzazione  (qui, statalizzazione intende l’assunzione di responsabilità statali da parte di enti non appartenenti allo Stato stesso, ndr.) che sono state imposte dal neoliberismo a partire dall’inizio degli anni ‘80. Noi sappiamo bene che la giustizia che ci ha condannato, tutti quegli anni addietro, è stata una giustizia essenzialmente europea; che tutte le politiche controrivoluzionarie che sono state portate avanti hanno trovato un nuovo campo di applicazione e sperimentazione nel processo di statalizzazione europeo, nella Nato e in tutte le strutture caratteristiche di questa moderna controrivoluzione. 

“Vivere si! Sopravvivere no!” – Il frastagliato rapporto tra gilet gialli e sinistra francese ha visto una scarsa partecipazione delle organizzazioni politiche ai coordinamenti di quest* lavorator*.

C’è un compagno in Italia, Cesare Di Leonardo, che da quarant’anni risiede in carcere: è stato torturato, brutalizzato, come conseguenza di una decisione presa da quadri della NATO, e non da giudici o magistrati italiani. Molte delle politiche applicate contro di noi sono passate dalla NATO (mediante l’orchestrazione del cosiddetto “Gruppo di Trevi”, una sorta di super-ministero all’interno della comunità europea). La statalizzazione previde l’assunzione immediata di rapporti di Stato, da parte di enti sovrastatali, già a partire dagli anni ‘80. Non stiamo chiaramente affermando la dissoluzione dello Stato nazionale, quanto l’esistenza di altre strutture che si sovrappongono nell’amministrazione di quanto una volta era responsabilità del singolo Stato.nazione. Queste strutture sono direttamente funzionali al processo di mondializzazione e globalizzazione del capitale, e così della formazione di zone di interesse geostrategico. Oggi, l’opposizione di classe a questa tendenza non può rifarsi all’esperienza dello stalinismo di un tempo, ad esempio, in cui al massimo ci si dotava di formule di facciata (come quella dei cosiddetti “partiti fratelli” del blocco orientale) senza effettivamente provvedere un livello di coordinamento rivoluzionario tale da fronteggiare sul campo la controrivoluzione. 

Bisogna ricordarsi poi dello spostamento della centralità operaia a sud, sempre a causa di questo processo di mondializzazione; è necessario discutere di come raggiungere questi proletari dei paesi del sud del mondo, nel sud-est asiatico come in sud-America, di come tessere rapporti concreti con essi, perché è sempre nella pratica che si dimostrano le forze e le debolezze delle organizzazioni, e mai solo nella teoria.

 

Tra gli anni Settanta e i primi Ottanta, l’italiano Livio Maitan poteva considerarsi il principale stratega dell’organizzazione formalmente erede della Quarta Internazionale, il Segretariato Unificato. Si tratta del periodo in cui elabora la teoria delle tre regioni della rivoluzione mondiale, a cui far corrispondere diverse strategie (in sintesi “l’Occidente” avanzato, il mondo cosiddetto “socialista” e il mondo post-coloniale). In quel periodo, il Segretariato è forte in America Latina, dopo la crisi della scissione guidata da Juan Posadas nel’59 e prima dell’ascesa della LIT di Nahuel Moreno. La strategia della Quarta portò spesso alla distruzione (anche fisica) delle organizzazioni attive in quei territori. Mi interessava sapere quali erano le vostre considerazioni in quel periodo anche alla luce della conquista, da parte della Quarta, della sinistra dell’ETA nel 1976.

 Allora, come ho accennato, non essendo trotskista, non ho chiari tutti i riferimenti ideologici che hanno arricchito questa tradizione. Tuttavia, anche grazie ai contributi di compagni come Vincenzo [altro compagno “storico” in visita insieme a Umberto, ndr], già tra il ‘79 e l’80 avevamo capito che lo sforzo rivoluzionario non potesse restare bloccato entro i confini nazionali. Anche in tal senso, avevamo avviato una politica di unificazione, a livello di organizzazioni: si trattò della prospettiva del Fronte Antimperialista, un’iniziativa pensata per cercare di mettere le organizzazioni combattenti al livello dello spazio in cui esse si trovavano a combattere; uno spazio dove si concentravano le politiche più importanti della borghesia. A proposito di ciò che tu dicevi, della politica della Quarta Internazionale, ti rispondo che la mondializzazione è di centrale importanza per la lotta rivoluzionaria. Nel corso della storia, la centralità rivoluzionaria si sposta dall’Inghilterra, alla Germania, ad altri paesi, come anche faceva in tempi passati. Oggi, è essenziale porsi la domanda su dove questa centralità della nostra classe si collochi. C’erano sessanta milioni di operai, nel ‘68: oggi ne troviamo miliardi, i quali si trovano principalmente fuori dall’Europa (che da un pezzo ormai non è il centro della classe). Chiaramente, l’Europa mantiene una reale importanza strategica, dato l’alto concentramento di capitali nei paesi che la compongono. In questo continente abbiamo una responsabilità politica ancora più forte di impedire il controllo a livello planetario della borghesia, di demolire la borghesia per fare avanzare la rivoluzione. Ti rispondo in termini diversi della Quarta: ciò che mi importa è la centralità rivoluzionaria. In altre parole, qual è il nostro ruolo come rivoluzionari?

Spero di aver risposto alla tua domanda.

Ringraziamo i compagni Umberto e Vincenzo, militanti rivoluzionari “storici” italiani in visita, per la traduzione e gli utili approfondimenti, che hanno superato di molto i limiti di questo articolo, oltre che i compagni e le compagne di Révolution Permanente, senza i quali e le quali non solo non sarebbe stata impossibile questa intervista, ma anche le ore di discussione serrata che abbiamo potuto avere alla loro Università d’Estate.

 

Luca Gieri

Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.