Il 15 gennaio è morto David Lynch, autore di alcuni tra i film più importanti della storia del cinema. Il suo contributo artistico è fondamentale per comprendere la psicologia, le paure e le angosce dell’epoca appena trascorsa e in cui ancora viviamo.


Rendere omaggio a una grande personalità per la sua morte non può che mettere di fronte a un certo imbarazzo: continuamente, centinaia di persone in tutto il mondo – persone senza nome, ma che in realtà un nome lo hanno, e avevano una vita, amici, emozioni, sogni e speranze – muoiono assassinate dal semplice e inesorabile corso della storia, in stragi, omicidi, guerre; muoiono di fame, di freddo, muoiono mentre lavorano. Ancora qualche giorno fa, quando già era stato raggiunto l’accordo per la tregua fra Israele e Hamas, e soltanto si aspettava che entrasse in vigore, 81 palestinesi sono stati uccisi in un bombardamento dell’esercito israeliano a Gaza.

È perciò con questa consapevolezza, che in ogni caso non diminuisce il senso di ingiustizia, che mi accingo a ricordare e celebrare David Lynch, morto pochi giorni fa a 78 anni. Lynch aveva girato il suo ultimo lungometraggio, Inland Empire, nel 2006, e probabilmente non sarebbe tornato a fare film, perciò non si può dire che il mondo del cinema abbia perso con lui anche le sue future opere; ma il senso di vuoto, per chi l’ha considerato un maestro e un punto di riferimento artistico, è enorme.

Si può dire con certezza che, nelle sue opere cinematografiche, David Lynch ha toccato corde che forse, o quasi, nessun altro regista ha saputo sfiorare. Egli era in grado, in una maniera del tutto naturale, di mettere in scena non tanto la vita, quanto le sensazioni connesse alla vita; e lo faceva spesso non esplicitamente, per mezzo di tecniche visive dichiarate e particolari, ma per via indiretta, creando un’atmosfera che pervade tutti i suoi film migliori.

In uno dei molti articoli usciti subito dopo la sua morte, si dice che i film di Lynch non vanno tanto interpretati razionalmente, quanto, piuttosto, sentiti emotivamente. Devo dire di essere solo parzialmente d’accordo: una lettura del genere rischia di mettere fin da subito fuori gioco la possibilità di una comprensione della logica interna, a suo modo razionale, delle sue opere. Una, non la, perché le interpretazioni dei suoi film possono essere molteplici e tra loro connesse, e questo è motivo della loro inesauribilità. Ma è vero che, anche quando non è direttamente tematizzato, l’elemento inconscio e sensoriale è la sostanza attraverso la quale il cinema di Lynch veicola le sue storie, e attraverso la quale noi le riceviamo. Sostanza che emerge dai colori, dagli ambienti, dalle luci e dalle ombre, dal modo in cui i personaggi entrano in relazione fra loro, sempre in maniera leggermente – e mai sfacciatamente – innaturale. Se la realtà rappresentata è vista come attraverso le lenti di un sogno, si tratta di uno di quei sogni semi-vigili, quando siamo prossimi a svegliarci: vediamo la realtà fuori di noi, ma questa ci appare inquietante e abnorme, nitida e irraggiungibile a un tempo.

In Lost Highway questo perturbante senso di straniamento è dato dall’uso costante dell’oscurità, in cui tutto il film è immerso, così che viene frustrata ogni speranza di riuscire a delineare legami certi – spaziali e temporali – fra i vari elementi visivi, sia umani che non umani. Luoghi e personaggi galleggiano quasi letteralmente nell’oscurità e tutto il film è una immensa strada perduta nella notte della coscienza.

In Mulholland Drive lo stesso senso complessivo è reso in maniera ancora più sottile e assurda: se, come in Lost Highway, è di nuovo l’inconscio a essere messo in scena, qui il suo rapporto con la realtà lineare è sempre più sfuggente e ambiguo; vi si appiccica sopra come una patina. Qui anche la luce, il sole, il cielo sempre sereno della Los Angeles hollywoodiana sono una minaccia. Allo stesso modo che in alcuni grandi capolavori di Tarkovskij e di Kubrick (ma in una maniera appunto più sottile e più assurda), è proprio questo ciò che unisce tutti i film migliori di Lynch, da Blue Velvet, a Lost Highway, a Mulholland Drive, a Inland Empire: ci danno la costante sensazione che qualcosa di terrificante stia per accadere. La loro cifra è l’angoscia, e lo sapeva perfettamente Stanley Kubrick, che, durante le riprese di Shining, faceva proiettare in continuazione Eraserhead, primo film di Lynch, per introdurre meglio gli attori nell’atmosfera allucinata dell’Overlook Hotel.

Insieme ad Angelo Badalamenti, autore delle musiche – melodie, armonie, tappeti sonori – di buona parte dei suoi film, David Lynch ha creato opere che veramente incombono sullo spettatore. La sensazione, vedendole al cinema, è di trovarsi costantemente in balìa dell’opera: da quando le luci iniziano a spegnersi, non sappiamo nulla di quello accadrà nel prossimo paio d’ore. Entriamo in un mondo che ha una sua coerenza interna, diverso da quello che ci siamo lasciati alle spalle entrando nello spazio vellutato e ovattato della sala cinematografica; vi entriamo prima con i sensi, poi, pian piano, anche con la mente. È un’esperienza più affine a quella che si prova davanti a uno spettacolo teatrale, forse perché a teatro lo spettatore è più disponibile, più curioso; al cinema più distratto, più uniformato. O forse si tratta di qualità intrinseche al teatro e a certi film eccezionali. Ci ritroviamo, davanti a un film di Lynch, come Betty e Rita al Club Silencio di Mulholland Drive: inermi, un po’ agghiacciati e un po’ affascinati, prede dell’illusione così incredibilmente vera, che rivive dentro di noi, già sempre dentro di noi.

Theodor Adorno diceva nella Teoria Estetica che le autentiche opere d’arte sono come monadi senza finestre: il loro formarsi segue una logica interna legata al materiale estetico, al connettersi reciproco dei loro diversi elementi nella forma estetica, alla storia artistica ed extra-artistica sedimentatasi, al rapporto immanente con le altre opere passate e presenti. Il rapporto fra arte e realtà, fra opera ed epoca, è indiretto e mediato, non solo dall’artista, ma anche da tutto lo sviluppo spirituale precedente. Anche quando il mondo esterno non è direttamente tematizzato come contenuto, dal punto di vista della forma, di ciò che più autenticamente è artistico nell’opera – il suo elemento spirituale che, nel momento decisivo della concrezione dell’opera d’arte, dà forma al materiale a disposizione – esso viene incorporato nella logica interna all’opera, che così resta indissolubilmente legata – quasi magneticamente attratta – a ciò che sublima. Il mondo rivive potenziato nella forma artistica, che pure è negazione formale del mondo stesso. «È buffo», dice Alex in A Clockwork Orange, «come i colori del vero mondo divengano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo». Non solo i colori, in questo caso, ma anche le sensazioni: più che reali, diventano esemplari. Generate da essa, sembra che le opere non riflettano la realtà, ma che la rivelino come per la prima volta, attraverso un rapporto che resta in buona parte inconscio.

Da questo punto di vista, i film di David Lynch sono stati veramente delle grandi opere d’arte, epocali perché hanno incorporato al loro interno il disagio di un’epoca, l’orrore rimosso di e da un’epoca, quella della “vittoria” del blocco occidentale capitalista e della credenza – illusoria ma soprattutto ideologicamente interessata – in una fine della storia. L’anno dell’uscita di Mulholland Drive, il cielo azzurro, splendente e perfetto di New York veniva squarciato dall’esplosione delle Torri Gemelle.

Direttamente o meno, i film di Lynch ci dicono – e ce lo fanno tangibilmente sentire appiccicandoci addosso una sensazione che fatichiamo a scrollarci via – che nel mondo in cui viviamo, intimamente violento e su cui incombe la catastrofe, non siamo al sicuro. Così è morto David Lynch: durante gli incendi che hanno devastato i boulevards di Hollywood, cronologicamente solo l’ultima manifestazione reale del crollo di un mondo che lui ha mostrato sullo schermo.

Se, ormai anestetizzati, non siamo più in grado di vedere l’orrore concreto che, fuori dai paesi del centro capitalista (e sempre più anche dentro di questi), vive quotidianamente l’umanità, opere come quelle di Lynch possono contribuire, facendoci mancare il terreno sotto i piedi, a infrangere l’incanto che ci irretisce. Dipende però da noi reagire alla potenza complessa e rivelatoria dei suoi film con un comico «it’s fucking crazy, man!», oppure cominciare a razionalizzare l’assurdo, non per giustificarlo, ma per scoprirne la logica immanente, demistificarlo e combatterlo.

Leonardo Nicolini

Nato a Genova nel 1998, è cresciuto in una famiglia di artisti. Ha studiato filosofia prima a Pavia e poi e Firenze, dove vive attualmente. Militante della FIR, si dedica anche alla fotografia e al cinema.