Siamo a pochi giorni da un fine settimana di sciopero per tutto il settore ferroviario, lanciato da USB, CUB, SGB e dall’ Assemblea PdM-PdBil coordinamento autorganizzato del personale di bordo e di macchina sostenuto da vari sindacati di base. 

Si tratta di una nuova data importante – dopo lo sciopero del 13 dicembre scorso – in cui i lavoratori di tutti i sottosettori della mobilità su rotaia (infrastruttura, circolazione, macchinisti e capitreno) possono lottare insieme per un rinnovo del contratto con riduzione dell’orario di lavoro e forti aumenti salariali; per dire no all’accordo del 10 gennaio ai danni dei manutentori, ma anche ai tentativi da parte di Salvini e del governo di reprimere i ferrovieri con la legge anti-sciopero 146 e continuare a mantenere sotto-finanziato e subordinato al profitto il trasporto pubblico (questa la causa dei ritardi dei treni, non i fantomatici “sabotatori” agitati dal ministro).

Per l’occasione, pubblichiamo un’intervista a Ezio Gallori, storico macchinista in prima fila nelle lotte dei ferrovieri tra il 1957 e il 1996, tra i fondatori del Coordinamento Macchinisti Uniti (CoMU), organismo autorganizzato che ha fatto da punta di lancia per gli scioperi nelle ferrovie fino agli anni 1990. Classe 1938, Gallori continua oggi ad essere attivo nelle lotte dei pensionati e nello storico giornale dei macchinisti autorganizzati Ancora in Marcia!

In questa intervista, a partire da domande sulle lotte del passato, emergono spunti ancora attuali per quelle del presente: l’importanza dell’organizzazione dal basso e democratica dei lavoratori, indipendente dalle direzioni burocratiche dei sindacati confederali, ma anche in grado di coinvolgere i lavoratori a prescindere dalla tessera sindacale; il ruolo che possono giocare i ferrovieri contro la guerra, ma anche in battaglie contro le nocività e per l’ecologia; la centralità della costruzione dei rapporti di forza e dell’unità dei lavoratori per vincere contro padroni, governo e repressione.


Cosa vi ha spinto a fondare il CoMU, e che rapporto avevate con il sindacato?

Nel CoMU eravamo quasi tutti iscritti alla CGIL, che nel ’68 aveva fatto la politica dei consigli dei delegati. Eravamo riusciti a mettere insieme quattro o cinque grandi consigli. A livello nazionale i nostri scioperi arrivavano al 90%. A Firenze anche al 99%. E riuscimmo ad ottenere il raddoppio dello stipendio. Un giornalista tedesco una volta mi domandò come fosse possibile che noi eravamo iscritti alla CGIL ma scioperavamo per conto nostro. Poi quando si resero conto che sfondavamo si impaurirono, e nel 1992 la CGIL mi espulse, perché ero iscritto ma li sputtanavo.

Noi non volevamo fare un nuovo sindacato, volevamo fare un movimento. Dopo 31 scioperi fu imposto alle ferrovie e ai sindacati di riconoscerci, anche se l’azienda ci obbligò a organizzarci con uno statuto, e fu un bel colpo. Ci fu anche chi poi è entrato nelle stanze dei bottoni, chi è diventato cavaliere, di cui l’azienda si è servita. C’era anche questa componente nel CoMU. Mentre io facevo parte della componente autonoma di sinistra.

Il CoMU è nato ed è riuscito a vincere perché c’era democrazia. Per diventare responsabile bisognava essere eletti con scrutinio segreto dalla maggioranza dei lavoratori. E questa democrazia esisteva a tutti i livelli: di deposito, di coordinamento regionale, etc. Pensate che con noi c’erano anche due o tre ferrovieri della CISL, che stavano con noi perché erano stati eletti, nonostante fossero della CISL. Anche io, quando straripò il Mugnone [fiume fiorentino n.d.r.] e non si poté votare, fino a che non fui rieletto ero sospeso dal CoMU.

Votavamo anche gli scioperi. Si fece un primo sciopero a Venezia. Poi si decise di farne un altro a condizione che si riuscisse a scioperare in almeno nove compartimenti. Allora bisognava raccogliere le firme per decidere se fare lo sciopero su una certa piattaforma. Chi era pronto per scioperare firmava. Così il secondo sciopero si fece all’80%. Noi dicevamo “non siamo Ciompi!”, ovvero: non facciamo una fiammata e poi finiamo, noi ci misuriamo sulla lunga distanza.

Ma poi il CoMU è morto. Perché quando perdi la democrazia e si prendono le decisioni a una tavola ristretta si è perdenti. Noi venivamo dal ’68, avevamo sviluppato una democrazia efficiente e abbiamo retto per questo motivo.

Manifesto scritto e disegnato dai macchinisti del CoMU, anni 1990. Fotografia fatta nello studio di Ezio Gallori.

Che rapporto avevate con la lotta politica? Eravate legati a partiti e movimenti studenteschi?

Io venivo dal Partito Socialista di sinistra libertaria. In deposito a Firenze, su 600 persone c’erano 312 socialisti e 250 comunisti. Eravamo quasi tutti iscritti a un partito. Prima che io entrassi in ferrovia, nel ‘53 i macchinisti avevano scioperato contro la NATO e contro la legge truffa” e presero dieci giorni di sospensione. Il macchinista Casarosa, neanche il più a sinistra dei socialisti, disse: “io ho scioperato, mi hanno dato 10 giorni di sospensione, ma che uomo sarei stato se avessi accettato che i voti della DC valessero tre e il mio uno?”. Nel ’60 quando ci fu il governo Tambroni [governo a cui la DC permise la partecipazione del neo-fascista MSI – Movimento Sociale Italiano n.d.r.], fu sciopero totale. E anche il movimento studentesco ebbe un ruolo positivo nel favorire la mobilitazione.

Noi eravamo un movimento politicizzato, mentre oggi è tutto strettamente sindacale. Gli scioperi di oggi sono per lottare contro lo sfruttamento, perché il capitalismo tira sempre di più la corda. Quando scioperavamo noi c’era un’altra condizione. In macchina eravamo in due, e l’azienda voleva convincerci a lavorare da soli con la paga doppia.

Scioperammo anche contro l’amianto. In Inghilterra c’era il sindacato ASLEF, che fermava i treni perché caricavano le armi, il nucleare, anche se i vertici sindacali non volevano. E così andai lì anche per capire come facevano loro a rimanere autonomi dentro la “trade union”, mentre qui la CGIL ci faceva ostruzione. E me ne tornai con la rivelazione dell’amianto. Perché, tra le altre cose, chiesi se anche loro avevano problemi con l’amianto. Ci dissero che era un prodotto cancerogeno, e che loro era dieci anni che lo avevano tolto. Quando da loro qualcuno toccava l’amianto era infortunio sul lavoro. Io, illuso, tornai in Italia con queste evidenze. Ma era l’82 e ci sono voluti dieci anni di lotte, di processi e di scioperi, per avere la legge sull’amianto. Perché in Italia non veniva riconosciuto come cancerogeno. Con il procuratore Deidda portammo a processo alcuni direttori delle ferrovie per questo motivo. Chissà quante vite si sarebbero salvate…

In Marcia è nato come un giornale dei macchinisti. Ma secondo te potrebbe esserci un giornale dei ferrovieri, che promuova una lotta unitaria?

C’era, si chiamava la Tribuna dei Ferrovieri. Quando nel 1908 Castrucci fondò In Marcia, in molti lo criticarono di corporativismo. Ma lui già nel primo editoriale del giornale disse loro di stare tranquilli, che l’unità di classe sarebbe rimasta. Castrucci inventò le categorie: mentre Pozzo parlava di sciopero per il socialismo, Castrucci partì dai nostri dormitori, dalle segnaletiche di sicurezza. Come dirà anche Di Vittorio, segretario della CGIL: una vertenza per vincere doveva essere sentita, giusta e realizzabile. E allora parlare alla categoria permetteva di renderla sentita.

Dopo quarant’anni, quando Castrucci pose a esame il suo percorso disse: mi avete criticato, ma quando la Diana è suonata, ovvero quando l’antifascismo militante si è tradotto in lotta, i miei macchinisti c’erano. Con questo voleva far capire che non aveva mai detto “viva il particolare”, ma “viva il particolare che si innesta nel generale”.

 

Ma le lotte dei macchinisti ponevano punti anche per tutti i ferrovieri?

Sì, per esempio nel 1990 abbiamo scioperato contro la guerra del Golfo. Il giornale La Voce Repubblicana mise una fotografia che si riferiva a me con scritto: “mandiamolo a Baghdad senza ritorno!”.

Nel 1990 si è imposta la legge 146, cosiddetta “antisciopero”, che limita fortemente l’esercizio del diritto di sciopero. Come scioperavate prima della 146?

Prima gli scioperi erano tremendi. Si facevano a mezzanotte, si lasciavano i treni ovunque ci trovassimo. Tutti quelli che erano liberi o di riposo erano mobilitati per andare a prendere gli scioperanti con le macchine. E poi ci radunavamo tutti in piazza in Via Alamanni, dove c’era la sede del sindacato, e facevamo una grande festa.

Una volta mi avevano messo di servizio con un collega della CISL. Lo sciopero iniziava alle 10, orario in ci saremmo trovati a Chiusi. E gli dissi che io avrei fatto sciopero. Invece, arrivati in stazione, lui proseguì la corsa. Così tirai la frenata rapida e fermai il treno in una vigna. La Polfer mi fece rapporto, e mi mandarono a processo, dove però mi assolsero per aver esercitato un diritto costituzionalmente garantito!

Prima di uno sciopero, nel 1987 venne fuori un accordo tra azienda e CGIL che prevedeva di dare 200.000 lire di aumento al mese a chi non avesse scioperato. Allora, preoccupato, chiamai un compagno magistrato che mi confermò che l’azienda poteva farlo. Ma mi disse anche che se passava questa misura – che chi faceva sciopero non prendeva l’aumento – di scioperi non ne avrebbe fatti più nessuno. Allora scioperammo, e ci furono 7.500 adesioni. Dopo aver visto questi numeri, l’azienda disse che chi si sarebbe pentito avrebbe ricevuto l’aumento. Soltanto nove macchinisti si pentirono!

La 146 l’hanno fatta per noi. Il nostro errore è stato abbandonare gli scioperi brevi. Dieci minuti, mezz’ora in partenza. Venne fuori un decreto che ci toglieva una giornata di lavoro anche se avessimo scioperato per cinque minuti. Quindi smettemmo di farli, per non lavorare un’intera giornata non retribuita. Invece erano fondamentali.

Facemmo un corteo a Roma in Piazza Sant’Apostoli, con una bara che rappresentava la morte del diritto di sciopero.

Che possibilità di affermazione hanno i sindacati di base, rispetto ai sindacati confederali?

In qualche intervista dissi che il nuovo sindacato non può essere la CGIL, perché funziona in maniera non democratica. Vittorio Foa, che nella CGIL era un antagonista, diceva che Di Vittorio in assemblea faceva la sua relazione e poi, “sentiti tutti i compagni”, faceva quello che voleva lui. Questa era la democrazia di Di Vittorio. Loro hanno scelto il mondo liberista. Noi siamo di qua, siamo antagonisti.

Ma bisogna trovare l’unità. Oltre al fatto che non c’è abbastanza democrazia. Noi ci siamo salvati perché tutto doveva essere votato. A loro basta la sopravvivenza, e allora poi litigano e ci sono le scissioni su chi è più duro. L’unità purtroppo non è nella testa della gente. Questa diventa una lotta interna che divide. Anche quando si sciopera, se si sciopera tutti uniti si ha un certo peso, altrimenti possiamo fare tutti i proclami che si vuole. Noi veniamo dai consigli, c’erano elezioni democratiche e con voto segreto. A me votava gente anche del PCI nonostante io non fossi del PCI. Il movimento era di chi lottava!

 

 

Intervista a cura di Roberto Marchese e Lorenzo Lodi

 

Roberto Marchese

Nato a Prato nel 1996, ferroviere e studente di filosofia all'università di Firenze. Collabora con La Voce Delle Lotte approfondendo sul campo le dinamiche sindacali e le lotte dei lavoratori

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.