Pubblichiamo la dichiarazione congiunta dei gruppi e dei giornali che costituiscono la Frazione Trotskista – Quarta Internazionale, sul nuovo scenario regionale del Medio Oriente in seguito alla caduta del regime della famiglia Al-Assad in Siria.

Il governo di Bashar Al Assad è crollato, l’8 dicembre, dopo 25 anni al potere. Al Assad è fuggito in Russia quando le milizie islamiste di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e di altri gruppi come l’Esercito Nazionale Siriano, sostenuto dalla Turchia, sono entrati a Damasco. Così si sono conclusi i 12 giorni di rapida offensiva, iniziati dalla presa di Aleppo, da parte di tali forze. Nei primi quattro giorni dopo la caduta di Assad, Israele ha bombardato più di 500 volte in Siria, mentre avanza con forze di terra nel suo territorio. Anche Turchia e Stati Uniti cercano di capitalizzare sulla nuova situazione, sebbene in questo momento il futuro della Siria sia totalmente incerto.


Al Assad assunse la presidenza della Siria nel 2000, succedendo a suo padre, Hafez al-Assad, che aveva preso il potere nel 1971 attraverso un colpo di Stato. Il regime bonapartista del Partito Ba’ath consolidò il suo potere attraverso una combinazione di una serie di politiche sociali e lo sviluppo di un forte apparato repressivo. Questa dinamica produsse una relazione di dipendenza nei confronti dell’esercito e dei servizi segreti, da parte del regime, per mantenere intatto il proprio potere. Assad, un membro della minoranza alawita, effettuò una svolta neoliberista e contemporaneamente mantenne con mano di ferro uno Stato basato sull’oppressione di altri gruppi religiosi e nazionali. Le organizzazioni sindacali rimasero sotto il controllo statale e il Partito Comunista, che si rifiutò di sostenere le mobilitazioni di massa del 2011, considerandole una “cospirazione imperialista”, fu cooptato dal regime. Anche prima della guerra civile, esistevano restrizioni legali al diritto di organizzazione sindacale, e la Confederazione Generale dei Sindacati dei Lavoratori (GFTUW) era assoggettata al Partito Ba’ath. Inoltre,durante la dittatura di Bashar Al Assad, si inasprì pesantemente l’oppressione della popolazione curda.

Il regime era totalmente reazionario e repressivo, con migliaia di prigionieri, torturati e assassinati in carceri come quella di Saydnaya, chiamata il “macello umano”. Per questo motivo, migliaia di siriani, dentro e fuori dai confini nazionali, in questi giorni hanno celebrato la fuga di Assad e l’apertura delle carceri. Comprendiamo la loro gioia per la caduta di un regime odiato e la speranza di tornare a casa e godere della liberazione da tale regime, anche se purtroppo non possiamo condividerla, dato che le forze che hanno rovesciato Al Assad sono anch’esse profondamente reazionarie. Il loro trionfo non preannuncia nulla di buono per la maggior parte della popolazione siriana, decimata e lacerata dopo 13 anni di una terribile guerra civile e dei successivi interventi imperialisti nella regione.

Gli eventi di questi giorni hanno mostrato che l’esercito siriano era molto debole, sia materialmente che moralmente. A questo dato si aggiungono le sanzioni economiche, la fuga di milioni di persone e la distruzione di città e infrastrutture, fattori che hanno condannato la popolazione a carestie e terribili sofferenze. In queste condizioni, di fronte alle quali il regime ha incrementato la portata e l’efferatezza dei suoi meccanismi repressivi, Assad non è riuscito a consolidare il suo dominio. Questa debolezza, poi, non poteva più essere assorbita dai suoi alleati, ovvero Russia, Iran ed Hezbollah, i quali lo hanno abbandonato. Assad è sopravvissuto in questi anni soprattutto grazie al supporto di Russia e Iran, ma aveva perso il controllo di vari territori in Siria. In questo scenario, gli oppositori hanno sfruttato la fragilità di al Assad per sconfiggerlo.

Le forze che hanno rovesciato Al Assad e preso il potere a Damasco sono un insieme eterogeneo di fazioni islamiste e milizie sostenute dalla Turchia. Questi gruppi, che avevano la loro base nel nord-ovest e nel nord del paese, sono guidati da due grandi organizzazioni: Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), guidato da Mohammed al-Julani, è una scissione di Al Nusra, filiale siriana di Al Qaeda. Nell’ultimo periodo, il gruppo ha cercato di distanziarsi pubblicamente da Al Qaeda, presentandosi come una forza politica più moderata. Di fatto, esercita funzioni governative nella regione di Idlib dal 2017, dove gestisce i servizi pubblici, l’istruzione, la salute, la giustizia, le infrastrutture e le finanze. Diverse organizzazioni denunciano esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari e detenzioni illegali di civili. HTS conserva l’obiettivo di imporre uno Stato islamico in Siria, anche se negli ultimi giorni ha dichiarato che non reprimerà altri gruppi religiosi.

L’Esercito Nazionale Siriano è un’organizzazione che riunisce diverse milizie sostenute dalla Turchia. Oltre a fronteggiare Al Assad, il suo obiettivo in tutto questo tempo è stato combattere contro le Forze Democratiche Siriane (SDF), un’alleanza formata da curdi siriani e altri settori, che controlla il nord-est della Siria ed è sostenuta dagli Stati Uniti.

Contro Al Assad si sono unite anche altre fazioni e milizie, come le forze druse della provincia di Sweida. Tra le altre forze che hanno partecipato al rovesciamento di Assad vi sono gli islamisti e salafiti di Ahrar Al Sham, legati ai talebani afghani. Nelle steppe orientali si trovano milizie dello Stato Islamico (ISIS), le quali potrebbero approfittare del momento per espandere i loro territori, pur non avendo partecipato direttamente alla presa di Damasco. Questo è ciò che temono gli Stati Uniti, che stanno effettuando bombardamenti nella regione.

Mohammed al Bashir dell’HTS ha assunto la guida di ciò che sta venendo definito il “governo provvisorio” in Siria, e diversi paesi come Turchia, Israele e Stati Uniti stanno cercando di influenzare la “transizione”, anche se non è affatto chiaro come essa si svilupperà.

Dalla Primavera araba all’inferno generalizzato della guerra civile

Nel 2011 esplose un sollevamento popolare nel paese, dalle radici profonde, come parte del processo rivoluzionario della Primavera Araba, un’ondata di ribellioni popolari e mobilitazioni che, pur con differenze importanti nei contesti nazionali specifici, si estese in tutto il Medio Oriente, dalla Tunisia all’Egitto, passando per il Bahrain, la Libia, lo Yemen e la Siria. In Siria, i manifestanti chiedevano la democratizzazione del regime e miglioramenti nelle condizioni di vita di una popolazione impoverita da decenni. Nel 2010, quasi il 30% della popolazione del paese viveva al di sotto della soglia di povertà a causa delle politiche neoliberiste, ed il 55% dei giovani era disoccupato. Gli eventi iniziarono con un sollevamento popolare che ebbe inizio a Daraa, nel marzo del 2011. L’arresto di diversi giovani che avevano scritto graffiti contro il governo di Assad ha provocato proteste diffuse. La rabbia è esplosa contro i prezzi elevati del carburante, e vennero chieste a gran voce le dimissioni del governatore di Homs, noto per la repressione e la corruzione di cui si era fatto garante, e contro le cattive condizioni di vita nella città costiera di Banyas, dove la disoccupazione era alta. Allo stesso tempo, i sostenitori dei Fratelli Musulmani e alcuni altri gruppi islamisti radicali, che erano stati a lungo organizzati nella clandestinità in Siria, sono scesi in strada, ed in poco tempo hanno preso il controllo delle piazze con le loro forze organizzate. Tuttavia, quelle proteste furono soffocate nel sangue da Al Assad. A settembre 2011 il regime aveva già assassinato più di 1500 persone per schiacciare le mobilitazioni, arrivando a più di 5000 assassinati, secondo l’ONU, alla fine dell’anno. La violenta repressione di Assad, e l’interferenza di potenze regionali come la Turchia e delle potenze imperialiste hanno portato all’irreggimentazione della resistenza attraverso la sua militarizzazione: tale processo ha minato il carattere autonomo e di massa della mobilitazione, impedendo la continuità del processo rivoluzionario e dando potere ai movimenti reazionari e ai loro sponsor stranieri. In questo modo, la Primavera siriana è stata sconfitta, dando luogo a una guerra civile reazionaria su vari fronti che si è rivelata devastante, lasciando centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati e rifugiati.

Durante i primi anni della guerra civile, l’esercito regolare di Al Assad -con il supporto di Iran e Russia- si è scontrato con svariate milizie e fazioni, che a loro volta si scontravano tra di loro, e che contavano sul patrocinio di potenze regionali –Turchia, Arabia Saudita, Qatar– così come sul finanziamento degli Stati Uniti.

La proclamazione del califfato da parte dello Stato Islamico (ISIS) nel 2014, con la città siriana di Raqqa come sua capitale, ha dato inizio ad una nuova fase del conflitto (il califfato è arrivato a occupare il 30% della Siria e il 40% dell’Iraq). Gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente, al comando di una coalizione contro lo Stato Islamico in entrambi i paesi, un intervento che sarebbe poi durato per anni. Sebbene il califfato sia stato sconfitto nel 2019, gli Stati Uniti mantengono una presenza militare nell’Est della Siria (che si aggiunge al supporto finanziario e militare fornito ai curdi), e proprio in questi giorni hanno bombardato diverse posizioni delle milizie dell’ISIS.

La Russia ha avviato un intervento militare diretto in Siria nel 2015, prendendo la parte del governo di Assad. Ha stabilito una base militare a Latakia, che si è aggiunta a quella già presente a Tartous, ha fornito forze speciali e private come il gruppo Wagner, ed ha effettuato bombardamenti che hanno reso possibile la riconquista di Aleppo da parte delle forze filo-governative nel 2016. Anche l’intervento dell’Iran si è intensificato, con finanziamenti, armi e la presenza sul campo delle milizie pro-iraniane di Hezbollah. Tale sostegno è stato fondamentale per la sopravvivenza del regime di Al Assad, ma ha anche fortemente politicamente indebolito questo gruppo in Libano, dato il supporto per un regime fortemente odiato da più di un popolo nella regione.

Durante tutto questo periodo, la Turchia è stata un altro attore chiave del conflitto, attraverso milizie proxy e mediante incursioni dirette, anche se non ha raggiunto il suo obiettivo massimo, che era la caduta di Assad. L’operazione “Scudo dell’Eufrate” nel 2016 mirava simultaneamente a colpire lo Stato Islamico ed i curdi. Nel 2018 ha portato avanti l’operazione “Ramo d’Olivo” con l’obiettivo di occupare la regione curda di Afrin con attacchi aerei e truppe di terra. La Turchia ha praticamente occupato Afrin come se si trattasse di un proprio enclave; ha distrutto le strutture democratiche curde, ceduto la rappresentanza politica a gruppi fondamentalisti islamici, espulso parte della popolazione curda e saccheggiato i beni e le proprietà locali, come nel caso del furto di olio d’oliva, prodotto nella regione.

Questi 13 anni di guerra civile e interventi imperialisti hanno lasciato un saldo devastante per il popolo siriano, con intere città distrutte. La storica Aleppo è stata ridotta in macerie nel corso della guerra civile, ed è diventata una fossa comune per migliaia di siriani. La popolazione continua a mancare di cibo, assistenza medica e sicurezza. Ad Al Yarmouk, i rifugiati palestinesi sono stati bombardati e condannati alla fame dall’esercito siriano. Secondo varie stime, almeno 500.000 civili sono morti nel conflitto, un dato che include decine di migliaia di bambini. In questo periodo di tempo, oltre 12 milioni di persone sono state sfollate, e 5,2 milioni di siriani hanno chiesto asilo in paesi vicini —la Turchia ne ospita il 62,3%—. Le atrocità di Assad durante e dopo la Primavera Araba, la distruzione inflitta dalle milizie islamiste dell’Isis, gli attacchi contro i curdi da parte di forze comandate dalla Turchia e i bombardamenti della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, hanno affondato la popolazione in un inferno senza fine.

La Turchia, Israele e l’imperialismo cercano di controllare la “transizione” e riorganizzare il Medio Oriente a loro favore

Lo Stato di Israele sta sfruttando la situazione per ampliare il suo dominio regionale, mentre continua con il genocidio in Palestina e ha ancora truppe in Libano. L’esercito sionista ha già annunciato che considera la Siria come il suo “quarto fronte” di guerra, insieme a Gaza, Cisgiordania e Libano. Mentre bombarda varie regioni, è entrato in territorio siriano con truppe di terra, spostando carri armati dalle Alture del Golan. Questa zona confina con Israele, Siria, Libano e Giordania; si tratta, quindi, di una posizione strategica fondamentale, che tra l’altro fornisce quasi un terzo dell’acqua di Israele. Le forze israeliane occuparono la regione durante la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, e poi la annessero unilateralmente nel dicembre del 1981. Donald Trump riconobbe formalmente il controllo israeliano delle Alture del Golan nel 2019: ora, Israele intende consolidare la sua annessione, estendendo la zona cuscinetto che lo separa formalmente dalla Siria.

Netanyahu vede la caduta di Assad come espressione di debolezza di Hezbollah e dell’Iran, e quindi come l’opportunità di sviluppare ulteriormente il progetto del “grande Israele”. Il primo ministro israeliano interviene sulla scia di successi tattici importanti nella sua disputa con l’Iran, dopo aver decapitato Hezbollah (anche se i risultati della sua invasione terrestre del Libano sono limitati) e colpito severamente Hamas. Per la prima volta nella sua storia, inoltre, ha scambiato attacchi militari diretti con l’Iran. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, Netanyahu spera di poter capitalizzare questi successi in un nuovo equilibrio regionale, molto più reazionario di quello già esistente.

La risposta dell’Iran non è ancora chiara: sarà da comprendere se continuerà con la sua “risposta contenuta” o se questa offensiva lo spingerà ad accelerare lo sviluppo di armamenti nucleari. Vediamo un regime indebolito, che è diventato piuttosto impopolare e diviso internamente. Anche la posizione interna di Netanyahu è complicata, dovendo apparire in questi giorni di fronte alla corte di giustizia per accuse di corruzione pendenti dal suo precedente governo. Un nuovo fronte di guerra è anche un modo per riaffermarsi al potere; ma lo Stato sionista non potrebbe portare avanti il brutale genocidio contro il popolo palestinese e la sua offensiva nella regione senza il supporto degli Stati Uniti e degli Stati europei, che lo finanziano e che ad esso vendono armi. Per questo, “Genocide Joe”, o “Israele assassina, Europa sponsorizza” (“Israèl asesina, Europa patrocina” in spagnolo), sono cori condivisi e rilanciati da tutte le componenti sociali e politiche presenti nelle manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese da New York, a Parigi, Londra e Madrid.

La Turchia cerca anche di raccogliere benefici dalla caduta di Al Assad. Erdogan ha ambizioni geopolitiche di influenzare il riordino regionale in maniera decisiva, ed internamente cerca condizioni per forzare una rielezione che per ora non gli è permessa. Le azioni delle imprese edili e del cemento turche sono aumentate dopo l’annuncio della caduta di Assad, mostrando che diverse aziende turche si aspettano di svolgere un ruolo strategico nella ricostruzione.

Dopo la caduta di Assad, il movimento curdo si è mostrato disposto a dialogare con HTS al potere; tuttavia, le sue forze stanno continuando a subire attacchi. In questi giorni, l’Esercito Nazionale Siriano, controllato dalla Turchia, sarebbe entrato a Minbic e starebbe commettendo crimini di guerra. Si sono verificati saccheggi nella città contro la popolazione curda e sono state incendiate le sue abitazioni. Le Forze Democratiche Siriane, a maggioranza curda, hanno concordato un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti, il che significa che dovranno ritirarsi da quella regione. Il cantone multi-etnico di Manbij era stato liberato dalle milizie dello Stato Islamico autoproclamato proprio dalle SDF e dalle unità di difesa femminile YPJ nel 2016, con il supporto americano. Erdoğan annuncia ripetutamente l’intenzione del suo paese di occupare una fascia di 30 chilometri di profondità lungo il confine in territorio siriano. Il prossimo obiettivo sarebbe Kobane, una città che è diventata famosa in tutto il mondo nel 2015, quando l’ISIS ha tentato di prenderne il controllo per diversi mesi, fallendo grazie alla resistenza delle milizie curde.

Il movimento curdo giustifica la sua cooperazione con gli Stati Uniti come una “tattica militare”, ma così facendo ha terminato per subordinare la lotta per l’autodeterminazione a un’alleanza con la potenza imperialista più grande del pianeta, e non possiamo ignorare i meccanismi di dipendenza che ne sono emersi. La direzione politico-militare curda ha presentato i suoi “partner” imperialisti come una “protezione” contro Assad e specialmente contro Erdogan. Sebbene questo abbia permesso loro un respiro occasionale, non rappresenta una soluzione di fondo, né a lungo termine. I compromessi con gli stati imperialisti occidentali, in particolare con gli Stati Uniti, per ottenere il riconoscimento dell’ “autonomia in Rojava”, hanno ostacolato sia l’autodeterminazione del popolo curdo oppresso, sia le possibilità di un cambiamento sociale profondo. L’attuale situazione, in cui i curdi sono nuovamente messi all’angolo, dimostra che coloro che hanno presentato gli stati imperialisti come protettori o addirittura alleati delle nazioni oppresse hanno lasciato il popolo curdo con le mani legate, senza una strategia di indipendenza di classe e anti imperialista.

L’Europa razzista e imperialista vuole espellere i rifugiati siriani

Con la fine del regime di Assad in Siria, nei paesi europei si è rapidamente sviluppato un dibattito razzista sulle deportazioni. I governi si preparano per una stagione di deportazioni di massa: in Germania, l’Ufficio Federale per la Migrazione e i Rifugiati (BAMF) ha sospeso con effetto immediato tutte le richieste di asilo dei rifugiati siriani pur non essendo la situazione in Siria affatto sicura.

Alcuni rifugiati vorranno senza dubbio tornare a casa. Guardando a ritroso di questo intero dramma, risulta come raramente abbiano trovato la protezione che si aspettavano: al contrario, si sono trovati soprattutto ad affrontare violenza razzista, campagne di odio nei media e condizioni di vita e di lavoro insicure. Tuttavia, c’è anche un numero significativo di loro che vuole rimanere. Ci sono decine di migliaia di figli di rifugiati siriani che vanno a scuola, fanno stage o già lavorano: che i siriani vogliano tornare nella loro patria o rimanere in Europa deve essere una decisione esclusivamente loro.

Di fronte all’estrema destra, che agita l’islamofobia e il razzismo, tutti i governi imperialisti fanno propria la sua agenda reazionaria. Ma i rifugiati siriani e di altre nazionalità fuggono dalle guerre e dalla miseria provocate dagli interventi di quelle stesse potenze imperialiste e dei loro alleati. La classe lavoratrice, nativa e straniera, deve combattere il razzismo e la xenofobia che i capitalisti usano per dividerla e frammentarla. È fondamentale portare avanti la lotta per la regolarizzazione di tutti i migranti, la chiusura dei centri di detenzione per stranieri, l’abrogazione delle leggi sull’immigrazione e la rottura di tutti i patti dell’UE con regimi come Turchia, Libia, Tunisia o Marocco, volti a trasformare questi paesi nei “gendarmi” dei suoi confini.

Un mondo sempre più turbolento

La caduta di al Assad non può essere compresa al di fuori di uno scenario globale turbolento, nel contesto della crisi dell’ordine mondiale ad egemonia nordamericana. La guerra in Ucraina ha esacerbato il militarismo e i conflitti tra grandi potenze. Le potenze imperialiste della NATO stanno agendo per procura, sostenendo l’esercito ucraino nel suo confronto con la Russia, che conta sul supporto di Iran, Cina e Corea del Nord.

Il conflitto sta vivendo un’escalation negli ultimi mesi. All’incursione dell’esercito ucraino nella regione russa di Kursk, è seguita l’autorizzazione di Stati Uniti, Regno Unito e Francia a lanciare missili a lungo raggio dall’Ucraina verso il territorio russo. La risposta è stata il lancio di missili balistici sperimentali contro l’Ucraina da parte della Russia.

La guerra ha comportato un enorme logoramento di forze economiche e militari per l’Ucraina e la Russia. Nel caso di Putin, sebbene fosse meglio posizionato rispetto a Zelensky, in vista di un’eventuale fase di negoziati, gli sforzi in quella guerra sembrano aver reso impossibile continuare a sostenere l’esercito indebolito di Assad in Siria, aprendo le porte per l’avanzata di Turchia, Israele e Stati Uniti nella regione. La caduta di Assad è un duro colpo per la Russia e le sue ambizioni geopolitiche, considerando l’importanza della regione come via di sbocco verso il Mediterraneo e per la sua proiezione nel Sahel; ma tenendo anche conto del fatto che l’intervento russo in Siria gli ha permesso di mettere pressione sulle potenze occidentali su altri temi, specialmente quello della crisi in Ucraina post-2014.

L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio non fa altro che aggiungere incertezza alla situazione mondiale. Ogni negoziato in Ucraina sarà molto difficile, e non si possono escludere nuove escalation. In Europa, i paesi imperialisti hanno fatto importanti passi avanti nel processo di riarmo imperialista, ma l’asse franco-tedesco è attraversato da forti crisi politiche e di governo. Se Trump alza i dazi doganali come promette, le economie europee saranno fortemente colpite, ed assisteremo allo sviluppo di tendenze recessive, come già si stanno intravedendo in Germania.

Sul versante iraniano, le modifiche dello scenario regionale colpiscono come mai prima il regime degli Ayatollah. L’Iran è entrato in una fase di profonda incertezza, caratterizzata da numerosi fattori esogeni ed endogeni al sistema politico nazionale. La caduta di Assad e l’indebolimento di Russia e Iran sono anche una cattiva notizia per la Cina, che vede deragliare la sua strategia in Medio Oriente. La Cina aveva dato un importante supporto a Bashar al Assad, che ha visitato quel paese nel 2023, per annunciare una “partnership strategica” con Pechino.

Tutto indica che le tendenze più intricate della situazione internazionale si approfondiranno ulteriormente.

Una posizione internazionalista e antimperialista

Di fronte all’aggravarsi dello scontro tra potenze e all’aumento delle crisi, la grande maggioranza della sinistra a livello internazionale tende a collocarsi su posizioni “campiste”, subordinate a diversi settori capitalisti e imperialisti. In merito alla guerra in Ucraina, da settori riformisti come Die Linke, fino a organizzazioni più piccole come la LIT o la UIT-CI che rivendicano la tradizione del trotskismo, si sono allineati con il campo della NATO e “l’esercito di Zelensky”. Allo stesso modo, alcuni oggi presentano la caduta di Al Assad per mano di milizie jihadiste e pro-turche, con il beneplacito di USA e Israele, come risultato di una “rivoluzione democratica trionfante”. Come se, insieme all’avanzata dell’imperialismo e a milizie militari reazionarie, potesse esserci qualche speranza di emancipazione per le masse siriane.

Nell’angolo opposto, settori della sinistra populista o neo-stalinista, lamentano la caduta della dittatura di Assad. La presentano, insieme al resto dell’ “Asse della resistenza” comandato dal reazionario regime iraniano, come un’alternativa progressista e antimperialista. Un’altra linea di argomentazione sarebbe quella per cui i nemici del proprio nemico diverrebbero i propri alleati, perché sfidano l’ “egemonia occidentale”. Questo ignora completamente il carattere di classe di quelle potenze. Tali forze, più che sostenere la causa palestinese o dei popoli oppressi, cercano di opporsi a un riordino della regione dettato da Israele e Stati Uniti, che le marginalizzerebbe, in un momento in cui cercano di riconciliarsi con le monarchie pro-imperialiste del Golfo.

Dal canto nostro, quello della Frazione Trotskista – Quarta Internazionale, abbiamo mantenuto una posizione internazionalista, antimperialista e di indipendenza di classe di fronte ai principali fatti della situazione mondiale.

Ripudiamo tutte le aggressioni imperialiste nella regione, come le sanzioni o gli attacchi che Israele ha effettuato (con l’avallo degli USA) contro l’Iran, il Libano e la Siria, sostenendo un presunto “diritto alla difesa”. Lottiamo contro l’enclave sionista dello Stato di Israele e per l’espulsione dell’imperialismo dal Medio Oriente: ma lo facciamo senza offrire il minimo sostegno politico alle borghesie della regione, né ai regimi reazionari alleati con l’Iran.

La dichiarazione di Balfour del 1917, mediante la quale i britannici si impegnavano a promuovere la colonizzazione sionista della Palestina, e gli accordi di Sykes Picot tra Francia e Regno Unito nel 1916, hanno posto il destino della regione sotto l’oppressione imperialista. La divisione delle antiche province ottomane in zone di influenza per ogni potenza imperialista è all’origine della creazione di Siria e Iraq, attraverso il raggruppamento di diversi gruppi etnici, nazionali e religiosi: in questo quadro, il popolo curdo senza Stato è stato diviso in quattro parti a causa degli accordi tra le potenze imperialiste. Da allora, la questione curda rimane irrisolta in quattro paesi (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e per questo motivo al Kurdistan viene negato il diritto all’autodeterminazione. La creazione dello Stato di Israele, nel 1948, consolidò la presenza imperialista, e in particolare degli Stati Uniti, nella regione. Più recentemente, le guerre in Iraq e Afghanistan hanno aumentato straordinariamente la sofferenza delle masse, e hanno accelerato processi di frammentazione e crisi degli Stati, nel mezzo dei quali sono riemersi i conflitti tra settori sunniti e sciiti dell’islam, incoraggiati in modo reazionario da potenze regionali e dall’imperialismo. In queste guerre, la nostra posizione muove passo dalla necessaria sconfitta dell’aggressione imperialista.

Nella misura in cui crescono le tendenze alla guerra e le crisi dei regimi, solo la lotta della classe operaia, insieme ai contadini, alle donne e alla gioventù, può aprire una via progressista in Medio Oriente. Oggi, più che mai, difendiamo il diritto dei rifugiati siriani di decidere se vogliono tornare in Siria o rimanere in Europa con pieni diritti lavorativi, politici e sociali. No alle deportazioni! Sottolineiamo la necessità di continuare a sviluppare il movimento di solidarietà e la lotta per porre fine al genocidio in Palestina, per lo smantellamento dello Stato di Israele e per una Palestina operaia e socialista, dove i popoli di tutte le etnie e religioni possano convivere in pace e fraternamente. Ci schieriamo convintamente: giù le mani dell’imperialismo, di Israele e della Turchia dalla Siria! Per l’autodeterminazione del popolo curdo!

La lotta per il pane, per la libertà e per porre fine alla guerra, è legata alla lotta contro l’imperialismo e le borghesie locali reazionarie. Pertanto, è una lotta per la costruzione di governi dei lavoratori, basati sulla democrazia della classe lavoratrice e del popolo impoverito, e di una federazione di repubbliche socialiste nella regione.

Redazione Internazionale La Izquierda Diario

Rete di 15 giornali online militanti, in 7 lingue, animati dalla Frazione Trotskista per la Quarta Internazionale (FT-QI), di cui La Voce delle Lotte è la testata in Italia.

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.