Quando mi si chiede “Come sei diventato comunista?”, Sorrido. Perché per chi è nato negli anni sessanta, le opzioni erano due…
Provengo da un quartiere che all’epoca era legato al ceto medio e da una famiglia che, sul piano economico e sociale, era divisa in due.
Da una parte gli odiosi cugini di Posillipo e del Vomero, legati all’accademia militare Nunziatella e alle facoltà di medicina e giurisprudenza, dall’altra di stampo operaio che risiedeva tra lo storico quartiere di San Giovanni e Vicaria -San Lorenzo, dove a malapena riuscivano a sbarcare il lunario e garantire ai figli l’istruzione e la salute.
Eravamo i figli diretti del 68 e mai avremmo pensato di ritrovarci catapultati in un movimento di contestazione come quello del ’77.

Siamo cresciuti in una società dove la puzza del fascismo era forte come quelle delle fogne a cielo aperto. Da piccoli venivamo derisi da chi aveva molto, molto di più. Ti deridevano per il tuo modo di vestire (perché non alla moda), perché in molti avevano perso i denti le famiglie non potevano curarci, né tantomeno garantirci la mutua visto che spesso i nostri non lavoravano. Ti deridevano perché non avevi il “vespino”, i jeans, i Piccadilly, perché a scuola ci andavi senza grembiule e spesso eri sottoposto al giudizio del bidello, che aveva il potere di farti entrare o meno. E quando lo permetteva, era un’umiliazione pubblica visto che, portatoti in classe, esordiva davanti a tutti con uno storico: <<Signò! Angiatece pacienza si stu fetente nun tene o grembiule ma, o pato nun fatica…>> (Signore o signora, abbiate pazienza ma il ragazzo se non ha il grembiule è perché il padre non lavora).
Eravamo i primi se non gli unici ad essere puniti quando spariva qualcosa di qualche altro ragazzo (macchinine della mattel, figurine dei calciatori, ecc,ecc.) perché, stupidamente, pensando che venivamo dalla ristrettezza economica, era per loro inevitabile che rubassimo.

Si viveva ai margini della vita ma ascoltavamo, con grande attenzione, la sera, nei giardini pubblici, i racconti di quelli più grandi che si “chiavavano” a mazzate con le guardie.
Eravamo eccitati da queste figure eroiche che si ribellavano. Allora ci dicevamo tra i più piccoli : <<Uanm ! ‘E sentuto ò cumpagno?! ‘A scassat’ ‘a capa dò guardio dint’ ‘o curteo!>> (Wow! Hai ascoltato il compagno?! Ha rotto la testa all’agente nel corteo!).

Crescere tra questi racconti e in mezzo a questi giovani c’ha formato, ha reso chiaro in noi che quanto prima dovessimo imparare a ribellarci contro quelli che ci deridevano e che avevano umiliato la nostra infanzia.

La prima occasione, almeno per me, fu quando mio padre mi iscrisse all’istituto Augusto Righi di Fuorigrotta, dove i nostri docenti erano tutti provenienti dal movimento del ’68. L’istituto è poi rimasto nella storia per l’enorme quantità di materiale umano fornito al ’77.

Inizialmente, in molti aderimmo alla FGCI, per poi abbandonarla dopo qualche anno (correva proprio il ’77…). Non accettavamo né l’incombenza del PCI né le sue posizioni sui fatti d’Ungheria e nemmeno la flebile posizione avuta sulla guerra del Vietnam, e né le rivendicazioni degli operai Torinesi.
Giudicavamo, se pur giovanissimi, il Partito Comunista Italiano come totalitario e sottomesso alla democrazia cristiana. Infatti ,mentre nelle campagne elettorali, inneggiava alla rivolta e alla riscossa di classe, di fatto, tramite Luciano Lama, chiedeva ulteriori sacrifici alla classe, tramite Massimo Dalema, chedeva di denunciare ai segretari di sezione tutti i compagni che si sapevano in odore di forte critica al partito e di simpatizzare con le prime formazioni che cominciavano a nascere: i NAP, Prima Linea e Br. Fu per un caso che un pomeriggio scoprii il segretario del circolo dove ero iscritto che in piazza parlava con due questurini. Vidi che gli consegnava dei fogli che già avevo visto…
Il giorno successivo ne parlai con un compagno a me vicino, sul piano politico, il quale mi chiese:<< Che colore e forma hanno?>>. Gli spiegai è lui esclamò: << Bastardi!>>.

Mi prese per il braccio e corremmo in sezione, forzammo la porta della stanza del segretario, aprimmo la sua scrivania è… trovammo la corrispondenza che aveva da mesi se non anni con le forze di polizia.

In pratica compilava ad ogni iscritto della sezione, e non solo, un modello della questura dove veniva scritto il mondo sul compagno. Oltre alle generalità, le sue frequentazioni, il modus vivendi, titolo di studio, famiglie con relativa estrazione sociale ecc,ecc.

Ma il brutto fu scoprire tra quelle carte, un ordine di servizio della commissione di controllo interna che richiedeva, nell’interesse del paese e della sicurezza della democrazia, di denunciare al partito o direttamente alle forze di polizia le eventuali teste calde all’interno della Fgci, della Cgil, e del partito stesso.

Ricordo ancora : <<Questo è un atto dovuto in termini di responsabilità al governo che comincia ad aprire le porte alla nostra storia.>> cit. Enrico Berlinguer.

Rimanemmo basiti e nauseati. Senza nemmeno pensarlo rompemmo tutto.
Sfasciammo mezza sezione per non far capire che qualcuno di noi aveva scoperto che il PCI metteva in vendita i principi della resistenza ed i suoi stessi figli.
Il giorno dopo, con l’amaro in bocca e la delusione che la faceva da padrone, decidemmo, negli angusti meandri di un ignoto palazzo del quartiere Vasto, di passare ad altro.
Il salto dalla Fgci all’autonomia fu breve come ancor più breve fu il salto di qualità.
Ci impegnammo per anni a rappresentare e vendicare le tante bocche affamate, i volti sconosciuti tumefatti dalle manganellate dei celerini, gli stupri subiti dalle compagne nelle questure, e non solo, ci vendicammo dei tanti sfottò ricevuti solo perché poveri, di chi approfittandosene di una condizione sociale protetta abusava delle nostre madri e delle nostre sorelle. Ci vendicammo di chi sfruttava i bambini nelle botteghe, di chi sfruttava uomini e donni in condizioni estreme di lavoro e poi, accompagnato dai “guappi”, non li pagava, di questo o quel politico che abusava della moglie o della figlia del povero disgraziato che gli era andato a chiedere non un posto fisso ma un po’ di lavoro per sfamare la famiglia.
Ecco cosa fu per centinaia di migliaia di noi il ’77 . Un atto dovuto alla richiesta interiore di ribellione. Un atto dovuto contro una società che affamava sempre di più i nulla tenenti e gli emarginati. Ecco perché ancora oggi non ci spaventa il giudizio di nessuno… Siamo definiti dai più come degli “irriducibili” che suonano segretamente tra certa composizione della classe, come dei fanatici, dei nostalgici.
A noi non interessa come la pensino quelli che non c’erano… sappiamo che tutto ciò che accadde era inevitabile e ancor di più la nostra risposta.

Ecco il ’77 dagli occhi di chi da ragazzo ha respirato la puzza della cordite e dello zolfo e con i propri occhi è stato protagonista e non spettatore, di una società bigotta e fascista che nell’interesse dei deboli e delle generazioni future andava cambiata!

 

Fabio Manta

La Voce delle Lotte ospita i contributi politici, le cronache, le corrispondenze di centinaia compagni e compagne dall'Italia e dall'estero, così come una selezione di materiali della Rete Internazionale di giornali online La Izquierda Diario, di cui facciamo parte.