Senza la veridicità di un biopic o il rigore di una docuserie, Netflix sorprende ancora una volta con una première di qualità e divertente sulla vita della prima donna che riuscì a diventare avvocata in Italia.


La vita dell’avvocata Lidia Poët, a cavallo tra Otto e Novecento, ispira questa produzione italiana, dove il vittimismo non ha posto. Al contrario, l’audacia e la perseveranza di una donna che sfida i limiti del suo tempo costruisce un personaggio accattivante e sorprendente anche per il XXI secolo.

Quello che sappiamo dalla serie è che Lidia, interpretata da Matilde De Angelis, ha avuto un’ottima istruzione e si è laureata in legge, come suo fratello. Ma a causa di una denuncia del procuratore generale, le viene impedito di esercitare la sua professione perché è una donna. Poi, assediata dai debiti mentre fa ricorso alla Camera di Cassazione per rivedere la decisione del tribunale, decide di lavorare nello studio del fratello.

La serie inizia nel novembre del 1883, quando il tribunale di Torino rifiuta la sua iscrizione all’albo professionale. Da quel momento in poi, assistiamo a una vita senza pregiudizi, libera e autonoma, nonostante le condizioni ostili, mentre risolve i casi che le capitano tra le mani: la difesa di un giovane povero, un tossicodipendente, un dottore in chimica, la figlia di una prostituta e il giovane giornalista libertario suo cognato, tutti accusati di omicidio.

Come per Le combattenti (altra serie Netflix), si tratta di una fiction, chiaramente ambientata in un periodo storico con ottime ricostruzioni, costumi e dettagli di vita quotidiana. Ma, sebbene la storia sia centrale, sono solo alcuni elementi della vita reale ad aver ispirato gli sceneggiatori. Con donne come Lidia, che non piange, Netflix fattura.

Chi fu Lidia Poët

Lidia Poët nacque il 26 agosto 1855 in un piccolo paese del torinese, la più giovane di sette figli in una famiglia di proprietari terrieri colti e istruiti. Si diplomò come insegnante e, all’età di 17 anni, quando il padre morì, parlava già quattro lingue, oltre al latino e al greco, e mostrava un’inclinazione per lo studio delle materie umanistiche. Così la madre la sostenne per continuare gli studi e lei si laureò come avvocato all’età di 26 anni, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, con una tesi dal titolo “Studio sulla condizione femminile in materia di diritto costituzionale e di diritto amministrativo delle elezioni”.

Nel 1883, dopo aver sostenuto un esame, fu ammessa all’albo degli avvocati di Torino con 8 voti a favore e 4 contrari, diventando la prima avvocata italiana praticante. Tuttavia, la nomina fu impugnata dal Procuratore Generale della Corte d’Appello di Torino, che ne chiese l’annullamento. Il suo ricorso sostiene che la professione legale può essere esercitata solo da uomini, che le donne “non dovrebbero interferire” nei processi pubblici perché sarebbe “sconveniente e brutto” vederle lì, dove spesso trattano questioni non adatte “a donne oneste”. Ci sono anche motivazioni più insolite, come il fatto che il camice non starebbe bene sopra “gli strani e bizzarri abiti che le donne spesso indossano”. Il tribunale si lascia andare a qualche consiglio alle donne, chiedendo loro di non competere con gli uomini per diventare loro pari, ma di essere semplicemente le loro compagne.


Il rifiuto di ammettere Lidia Poët all’albo degli avvocati scatenò un dibattito pubblico, su giornali, riviste, circoli intellettuali e politici. Lidia presentò un ricorso che fu respinto dalla Camera di Cassazione. Per questo motivo, come si vede nella serie Netflix, Lidia Poët esercitò la sua professione in modo non ufficiale, presentandosi come collaboratrice del fratello avvocato.

Ma ciò che non viene detto esplicitamente nella sceneggiatura è che, allo stesso tempo, Lidia sviluppò un’intensa attività in difesa dei diritti e del trattamento dignitoso delle persone private della libertà, diventando una delle creatrici del moderno diritto penitenziario. Nel 1883 partecipò al primo Congresso Penitenziario Internazionale, difendendo una posizione anti-punitivista e ponendo l’accento sull’istruzione e sul lavoro dei detenuti. Fu anche grazie alla sua lotta politica che vennero istituiti i tribunali minorili, con l’obiettivo di dare ai bambini un trattamento speciale per facilitare il loro reinserimento sociale.

Fu anche un’attiva femminista, partecipando a conferenze e congressi per la piena emancipazione delle donne, l’uguaglianza e il diritto di voto. Nel 1908 prese parte al Primo Congresso delle Donne Italiane a Roma; nel 1914 presiedette il Consiglio Internazionale delle Donne, anch’esso tenutosi nella capitale italiana, dove diede un contributo speciale sull’assistenza morale e legale ai minori. Lidia considerava inappropriati i sistemi coercitivi e punitivi come le carceri e i riformatori, e sosteneva l’educazione scolastica per migliorare la situazione dei bambini in Italia.

Durante la Prima Guerra Mondiale si arruolò come infermiera volontaria presso la sezione italiana della Croce Rossa. Nel pieno della guerra, che stravolse i ruoli sociali di uomini e donne, e delle ripercussioni internazionali della Rivoluzione Russa, il 17 luglio 1919 fu approvata in Italia una legge che concedeva alle donne il diritto di accedere a tutte le cariche pubbliche, ad eccezione della magistratura, della politica e dell’esercito. Nonostante le limitazioni della legge, Lidia ne approfittò per continuare a combattere la sua battaglia e, sulla base di questa parziale vittoria, lottò nuovamente per il diritto di essere ammessa all’albo degli avvocati di Torino, che ottenne nel 1920.

Non si sposò mai e non ebbe mai figli. Dedicò tutta la sua vita alla professione e alla lotta politica per i diritti dei bambini, dei prigionieri e per l’emancipazione delle donne. Morì il 25 febbraio 1949, 74 anni fa. Quali sarebbero le battaglie che Lidia porterebbe avanti oggi, con una mentalità così avanzata per il suo tempo e la sua determinata lotta contro le ingiustizie? Forse troveremo delle trame per ispirare una nuova serie futuristica e di fantasia in cui Lidia continua a spingerci verso la libertà.

 

Andrea D’Atri

Traduzione da La Izquierda Diario

Nata nel 1967 a Buenos Aires, dove tuttora vive. Laureata in Piscologia alla UBA, specializzata in Studi sulla Donna, ha lavorato come ricercatrice, docente e nel campo della comunicazione. È dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS). Militante di lungo corso del movimento delle donne, nel 2003 ha fondato la corrente Pan y Rosas in Argentina, che ha una presenza anche in Cile, Brasile, Messico, Bolivia, Uruguay, Perù, Costa Rica, Venezuela, Germania, Spagna, Francia, Italia.
Ha tenuto conferenze e seminari in America Latina ed Europa.
Autrice di "Pan y Rosas", pubblicato e tradotto in più paesi e lingue. Ha curato il volume "Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia" (2006), pubblicato in Argentina, Brasile, Venezuela e Spagna (2006).