La liberazione di Patrick Zaki si è accompagnata a un coro di ringraziamenti e elogi al presidente egiziano al-Sisi, che ha concesso la grazia al giovane. Ma questo militare che ha guidato il golpe del 2013 è tutto fuorché un personaggio da elogiare. Vediamo perché in 7 punti.


La liberazione di Patrick Zaki dopo due anni di carcere preventivo è certamente una buona notizia. Il giovane egiziano, da pochissimi giorni laureatosi all’Università di Bologna nonostante il divieto di tornare in Italia, era stato arrestato e detenuto durante uno dei suoi rientri in Egitto, dove è cresciuto. Era stato accusato di diffondere notizie false dentro e fuori il paese  da un tribunale speciale per aver pubblicato un articolo nel 2019, nel quale criticava l’assenza di tutele per la minoranza copta in Egitto. Zaki ha ricevuto la grazia da al-Sisi questo mercoledì, il giorno dopo la sentenza che gli comminava tre anni di carcere. La presidente Meloni ha ringraziato entusiasta il presidente egiziano, approfittando per prendere per sé e per il suo governo i meriti della trattativa tra Italia ed Egitto per il rilascio di Zaki, dopo anni di campagne di solidarietà e di denuncia della violazione sistematica dei diritti umani nel paese del Nilo, durante i quali la destra di Meloni era più interessata a negare quegli stessi diritti ai migranti.

 

Patrick è libero: perché è un festeggiamento amaro? 

Che Patrick sia finalmente libero è un’ottima notizia, ma festeggiarla senza riserve, in maniera ipocrita come la presidente Meloni, non è ciò che si dovrebbe fare, soprattutti per le e gli attivisti di sinistra la cui solidarietà a Zaki comprendeva una critica sostanziale ai vari livelli di oppressione (religiosa, etnica, di genere) e alla repressione poliziesca che schiacciano la popolazione egiziana.

Innanzitutto, Zaki non è stato assolto, riconoscendo l’enormità di un’accusa che potenzialmente può colpire chiunque contesti la linea del governo egiziano e, in ultima istanza, il regime di potere dei militari La sua libertà giunge come un atto di benevolenza da parte di chi si auto-celebra come il padre della patria, Abdel Fattah al-Sisi. Questo significa che il volto più noto di quella controrivoluzione che ha permesso di incarcerare uno studente per un semplice articolo è anche chi pretende di ergersi a magnanimo e illuminato leader capace di correggere gli errori della giustizia. 

Chi ringrazia al-Sisi come se fosse intervenuto su una ingiustizia a lui estranea non fa che legittimare e alimentare il suo stesso mito. Ne consegue che la liberazione di Zaki non possa in alcun modo essere sbandierata come una vittoria delle opposizioni – domestiche o internazionali che siano. Al contrario, la ritrovata libertà dello studente, che giunge comunque al prezzo di un molto probabile esilio semi-volontario, afferma l’assoluta discrezionalità del potere che concede e toglie a proprio piacimento. Non attesta perciò l’emersione di uno spazio di dissenso che il regime è oggi costretto a concedere, ma ne rappresenta la sua più completa negazione. Infine, e anche questo terzo aspetto segue logicamente dal precedente, se il regime non è forzato ad allargare le proprie maglie sotto la spinta di una crescente pressione dal basso, è molto probabile che la liberazione di Zaki faccia parte di una trattativa più larga tra Roma e Il Cairo. Per ovvie ragioni la mente corre all’omicidio da parte degli apparati statali egiziani di Giulio Regeni. Ma non è detto che sia questa la pista migliore. Non fosse altro perché lo Stato italiano ha molto probabilmente smesso già da un bel pezzo, tralasciando ovviamente le solite frasi di rito, di chiedere che il regime egiziano estradi i responsabili. Più realistico, come ricordava Michele Giorgio sul quotidiano Il Manifesto del 21 luglio, è l’impegno da parte del governo di Giorgia Meloni ad agire come sponsor per l’Egitto in alcune trattative, a partire proprio da quella con la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) per la costruzione di un grande silo nel porto di Damietta – opera vitale per il più importante importatore di grano al mondo. La sensazione che qualcosa Roma abbia concesso sembra avvalorata dalle parole del ministro degli esteri, Antonio Tajani, che celebra il grande lavoro diplomatico portato a termine dal suo dicastero e dal video messaggio della premier Meloni, la quale “ringrazia il presidente al-Sisi per questo gesto molto importante”. Le opposizioni parlamentari non hanno gradito. Strano, perché la pressoché totalità di queste si è comportata in maniera molto simile quando è stata al governo. A partire proprio dal Partito Democratico e dal suo ex leader, Matteo Renzi, che in una tristemente nota intervista con l’emittente Al Jazeera si spinse così avanti da definire al-Sisi “un grande leader”. Ma chi è il generalissimo divenuto presidente? E cosa occorre sapere sul suo conto? Provo ad inquadrarlo con 7 brevi note.

 

Da generale controrivoluzionario a golpista a presidente: sette chiavi di lettura su al-Sisi

1. Il 25 gennaio 2011, quando scoppiò la rivoluzione egiziana, al-Sisi era il più giovane componente dello SCAF. L’acronimo inglese indica il Consiglio Supremo delle Forze Armate, un organo composto da un numero variabile, compreso tra 20 e 25, di altissimi ufficiali dell’esercito che agisce come governo delle forze armate. L’incapacità della polizia di placare le proteste della piazza spinse il presidente Hosni Mubarak, alla guida del paese da tre decenni, a richiedere l’intervento dell’esercito nel pomeriggio del 28 gennaio. Moltissimo è stato scritto e speculato sull’ingresso in scena dei militari in questi anni. Esiste oggi un consenso largo tra gli studiosi della rivoluzione egiziana: per quanto lo SCAF fosse favorevole ad una repressione su larga scala, il processo di fraternizzazione tra insorti e ranghi inferiori dell’esercito rendeva questa opzione non praticabile, mettendo a rischio persino la tenuta delle forze armate stesse. Per circa due settimane, lo SCAF si attestò quindi su una posizione ambigua: impossibilitato a reprimere direttamente i manifestanti, concesse a Mubarak il tempo per provare a riprendere il controllo della situazione. Questo non-sostegno alla rivoluzione si spinse fino al non-intervento di fronte all’assalto che un raccogliticcio plotone di fedelissimi del regime e piccoli criminali sferrò a bordo di cammelli e cavalli contro il presidio permanente di piazza Tahrir, nel centro del Cairo, il 2 febbraio. Nella battaglia morirono 11 persone e altre 600 circa rimasero ferite. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici della rivoluzione e delle sue rivendicazioni: pane, libertà e giustizia sociale.


2. Impossibilitato a salvarlo con un’azione diretta, lo SCAF capì che doveva scaricare Mubarak, sacrificando sull’altare della rivoluzione per guidare la propria controrivoluzione. Due elementi sono stati decisivi al riguardo. In primo luogo, a partire dal 6 febbraio, un vasto movimento di scioperi e proteste colpì i principali centri produttivi del paese, coinvolgendo almeno 300mila lavoratori. Secondariamente, una crescente parte degli ufficiali di medio rango aveva cominciato a manifestare aperta simpatia, giungendo anche a gesti pubblici ed eclatanti, per la rivoluzione. Il tempo di Mubarak era scaduto. Il “faraone” entrava nei libri di storia l’11 febbraio. Due giorni dopo lo SCAF assunse perentoriamente e senza alcun mandato popolare la guida del paese. Si trattava di fatto di un colpo di Stato, patinato dalla finta liberazione dal giogo di Mubarak. Così facendo, lo SCAF perseguiva un triplice obiettivo: proteggere il proprio immenso impero economico; impedire qualsiasi forma di controllo civile sul budget statale destinato alla difesa; ed infine evitare che la destituzione di Mubarak aprisse un pericoloso vuoto di potere che avrebbe potuto determinare il trionfo della rivoluzione. Una simile strategia era d’altronde perfettamente in linea con la natura bicefala delle forze armate egiziane. Da un lato, queste erano un attore statale che godeva del monopolio dei mezzi di coercizione e che si era tradizionalmente distinto per un costante e significativo coinvolgimento negli affari politici del paese. Dall’altro, i militari erano una frazione della classe capitalista che, in virtù dell’improvvisa e rovinosa sconfitta subita dalla borghesia neoliberista legata a Gamal Mubarak, figlio di Hosni, si trovava adesso a guidare la propria classe e a difenderne gli interessi. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici della democrazia e della volontà popolare.


3- Per circa un anno e mezzo, fino all’estate del 2012, lo SCAF ha detenuto direttamente il potere in Egitto. In questo lasso di tempo, oltre a non rispettare neanche i più elementari principi della democrazia borghese, si è macchiato di gravi crimini. Due sono probabilmente i più rilevanti. Il primo è il tristemente noto
test di verginità. Attraverso questa pratica, i militari egiziani verificavano se le donne egiziane che protestavano in piazza fossero ancora vergini o meno. Il primo esponente dello SCAF a confermare l’effettiva esistenza di questa violenza statale sulle manifestanti è stato proprio al-Sisi. La ragione pubblicamente addotta, per quanto di difficile comprensione, sarebbe stata quella di proteggere le donne da possibili abusi e violenze. In secondo luogo, gli apparati di sicurezza hanno utilizzato in maniera massiccia armi da fuoco e gas lacrimogeni contro i manifestanti nel corso della cosiddetta sollevazione di via Muhammad Mahmoud, nel centro della capitale, nel novembre del 2011. Questo è stato il momento nel quale la seconda fase della rivoluzione egiziana, che avrebbe dovuto segnare il passaggio di potere dai militari ai rivoluzionari, è sembrata più vicina. L’incapacità del movimento “politico” e di quello “economico” di fondersi in un unico momento di generale insurrezione ha però condannato la rivoluzione alla sconfitta. Negli scontri persero la vita 40 manifestanti e oltre 2mila feriti vennero soccorsi dall’ospedale da campo allestito dai volontari in piazza Tahrir. Con una pratica tristemente nota, l’esercito egiziano ha cercato ripetutamente di accecare i rivoluzionari, puntando i mirini dei propri fucili verso i loro occhi. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici dell’emancipazione femminile e di una qualsiasi trasformazione progressiva dell’esistente.


4. Al termine del primo anno di presidenza di Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana e primo presidente democraticamente eletto della storia egiziana, al-Sisi in qualità di comandante in capo delle forze armate egiziane lancerà un ultimatum di 48 ore. L’indisponibilità di Morsi a dimettersi e a formare un governo provvisorio di unità nazionale avrebbe portato i militari ad agire in prima persona. Il 3 luglio 2013, al-Sisi guiderà il ventilato colpo di Stato, mentre Morsi viene arrestato e condotto in prigione, dove morirà, anche a causa della mancanza di adeguate cure, nel giugno del 2019. La Fratellanza reagisce al colpo di Stato con l’occupazione di alcune piazze. Tra queste, la più importante, è certamente Midan Rabaa al-Adawia, nella zona est della capitale e tradizionale roccaforte degli islamisti a partire dagli anni settanta. Il 14 agosto, dopo aver già sparato in più occasioni sulle manifestazioni della Fratellanza, le forze di sicurezza egiziane attaccarono violentemente l’occupazione di Rabaa. Nell’assalto, definito da Human Rights Watch, come “uno dei peggiori massacri perpetrato contro civili non armati della storia moderna,” rimasero uccisi almeno 817 manifestanti. Una simile sorte, per quanto il bilancio degli scontri risulta decisamente meno cruento, toccò anche alle altre piazze occupate dalla Fratellanza ad Alessandria, Aswan, Asyut, Giza e Beni Suef. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici del rispetto della dignità umana e dei diritti politici.


5. Saldati i conti con la Fratellanza – rapidamente messa fuori legge, definita organizzazione terroristica, decapitata con centinaia di arresti, e forzata all’esilio oppure ridotta alla clandestinità interna – il regime di al-Sisi, divenuto presidente a partire dal maggio del 2014 e poi confermato nel 2018 in elezioni pienamente anti-democratiche, si è preoccupato di mettere a tacere ogni altra voce critica. Dopo una legge di fine 2013 che proibiva qualsiasi forma di protesta non autorizzata, il regime varava una delibera nel 2014 che indicava tutti i ponti e le strade del paese come arterie strategiche, stabilendo perciò che qualsiasi protesta in questi luoghi sarebbe stata illegale. Nel maggio del 2017, ogni organizzazione indipendente veniva posta sotto la stretta sorveglianza delle autorità, mentre nell’aprile dello stesso anno, in seguito a due attentati terroristici contro le chiese copte nelle città di Alessandria e Tanta, veniva dichiarato uno stato di emergenza di tre mesi. Questo sarà poi rinnovato per ben 17 volte consecutive da al-Sisi stesso, fino all’ottobre del 2021. Le conseguenze immediate sono state il più completo annichilimento di ogni forma di opposizione e la creazione di un gigantesco panottico liberticida. Per far fronte ad una popolazione carceraria passata da 60mila detenuti ad oltre 110mila, di cui circa la metà per reati politici, le autorità egiziane hanno costruito almeno 7 nuove prigioni tra il 2013 e il 2021. Nel solo primo anno di presidenza di al-Sisi, dopo che nessuna sentenza capitale era stata eseguita a partire dalla rivoluzione del 2011, 27 persone sono state giustiziate, spesso alla conclusione di processi farsa. Nel 2016, il numero di condanne eseguite non è stato inferiore a 44, mentre nel 2021 le corti di giustizia egiziane hanno emesso ben 356 condanne alla pena capitale, risultando così seconde al mondo in questa triste graduatoria battute solamente da quelle cinesi, che insistono comunque su una popolazione di circa 13 volte maggiore. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici delle più elementari norme democratiche.

 

6. Individuando nel movimento operaio non solamente uno dei motori principali della rivoluzione del 2011, ma anche un temibile avversario nel processo di graduale istituzionalizzazione del suo regime iper-autoritario, al-Sisi ha varato un pesante giro di vite contro la classe lavoratrice egiziana. La legislazione del dicembre 2017 ha criminalizzato qualsiasi forma di mobilitazione, ha dissolto tutti i sindacati indipendenti, ha vietato nei fatti tutte le organizzazioni dei lavoratori al di fuori del sindacato giallo controllato dallo Stato, e ha anche stabilito una condanna fino a 15 anni di carcere per chi non rispetti le disposizioni sulla formazione dei sindacati indipendenti. Come effetto di ciò, il numero di proteste sui luoghi di lavoro, a dispetto di salari miseri e un’inflazione galoppante, si è decisamente affievolito negli ultimi anni, mentre i lavoratori arrestati per aver osato scioperare o anche semplicemente protestare è cresciuto vertiginosamente. In quello che probabilmente è stato il caso più emblematico, 26 operai del cantiere navale di Alessandria, che era passato sotto il controllo dell’esercito nel 2007, sono stati giudicati da un tribunale militare nel 2017, perdendo il proprio posto di lavoro e passando anche cinque mesi in carcere. Sorte simile è toccata anche a 9 lavoratori della El Nasr Company di Suez, arrestati nel gennaio del 2021 per aver protestato contro la liquidazione della fabbrica. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici della classe lavoratrice.


7. Il 25 gennaio 2016 spariva al Cairo Giulio Regeni, dottorando all’università di Cambridge dove stava portando avanti una ricerca sui sindacati indipendenti degli ambulanti egiziani. Il suo corpo, con evidenti segni di tortura, verrà ritrovato senza vita in un fosso alla periferia della capitale egiziana il 3 febbraio. A partire da quel momento, il regime di al-Sisi ha fatto di tutto, inventando le storie più inverosimili (incidente stradale, torbida relazione omosessuale, delitto legato allo spaccio di stupefacenti), per nascondere una verità tanto semplice quanto triste: Giulio Regeni è stata una delle tante vittime della controrivoluzione guidata dal presidente al-Sisi. I suoi carnefici, come le indagini preliminari della procura di Roma indicano chiaramente, si trovano tra gli ufficiali del servizio segreto interno egiziano. Vi sono nomi, cognomi e richieste di rinvio a giudizio. Manca ovviamente la volontà di estradare i presunti colpevoli da parte del regime egiziano. In attesa di questo, la corte d’assise ha sospeso, con un pronunciamento alquanto dubbio, il processo. La decisione è stata successivamente confermata dalla corte di cassazione. 

Lo SCAF e al-Sisi sono sempre stati acerrimi nemici della campagna che chiedeva e continua a chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni. E la ragione è semplice: sono i principali responsabili di questo delitto come di tutti gli altri che questo articolo ha provato ad elencare.

 

Gianni Del Panta

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).