Francia. A una settimana dal primo turno delle presidenziali che secondo i sondaggi favorirebbe Emmanuel Macron, Marine Le Pen o Jean-Luc Mélenchon, l’extrême gauche irrompe nel dibattito elettorale grazie agli exploit televisivi irriverenti del candidato, operaio Ford, del Nouveau Parti Anticapitaliste

 

Jamila Mascat  – da Parigi – fonte Il Manifesto

Una maglietta qualunque, bianca, di cotone, a maniche lunghe. Philippe Poutou, il candidato alle presidenziali del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA), la sbandiera come un trofeo tra gli applausi della folla in apertura del meeting di Reims, una settimana dopo il Grand Débat televisivo del 4 aprile a cui ha partecipato senza giacca né cravatta, proprio con quella maglia arrotolata fino ai gomiti, a fianco degli altri dieci pretendenti all’Eliseo, tutti rigorosamente più eleganti di lui. Un indumento banale – una “canottiera” secondo l’ex ministro della Pubblica Istruzione Luc Ferry, un indumento inqualificabile per Natacha Polony su Le Figaro, un “pigiama” per la deputata del Fronte Nazionale, Marion Maréchal-Le Pen, nipote di Marine – che ha scatenato una raffica di tweet incandescenti e resterà negli annali di questa campagna elettorale, forse la più sofferta e la meno scontata degli ultimi cinquant’anni.

A soffrire di questi tempi è soprattutto il Partito Socialista (PS) di François Hollande e Manuel Valls, grande artefice e prima vittima della riforma del lavoro El Khomri, che oggi guidato da un esponente dell’ala sinistra, Benoit Hamon, rincorre affannosamente il traguardo del 10% senza avere alcuna possibilità di qualificarsi al secondo turno. Se mesi di proteste contro la Loi Travail erano stati un’ avvisaglia, ora il disagio elettorale arriva come una conferma : tout le monde déteste le PS.

Ma non sarà necessariamente il centrodestra, a beneficiare della caduta libera dei socialisti, per colpa delle sciagurate vicende giudiziarie di François Fillon, indagato per “appropriazione indebita di fondi pubblici”. Le proiezioni di voto annunciano il sorpasso del suo partito, Les Républicains, da parte della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e prefigurano uno scenario inedito e inaspettato per il primo turno, con in testa il nuovo centro (En Marche) di Emmanuel Macron, l’extreme droite di Marine Le Pen e la gauche di Mélenchon.

Congratulazioni
Non è stata solo la maglietta poco elegante di un metalmeccanico dello stabilimento Ford di Blanquefort, a Bordeaux, a imporsi all’attenzione del pubblico e dei giornalisti. Philippe Poutou, il più sfrontato dei “piccoli” candidati, è riuscito a infrangere in un colpo solo tutte le regole del galateo che le circostanza d’eccezione imponeva. Già prima dell’inizio del confronto televisivo aveva rifiutato di stringere la mano a Macron, Fillon e Le Pen e di posare nella foto di gruppo con gli altri pretendenti – “non è una foto di famiglia e non sono i miei colleghi”.

Durante tutta la diretta si è voltato più di una volta per rivolgersi ai suoi compagni seduti tra il pubblico, dando le spalle alle telecamere, tanto da suscitare una curiosità irresistibile sui social network. “Cosa avrà bisbigliato mai Poutou ai suoi amici?” si chiedeva Buzzfeed. Disarmante, la risposta di Philippe – “gli chiedevo un parere, per sapere se ero intervenuto bene e avevo detto cose giuste” – ha commosso una giornalista de L’Obs/Rue 89, che ha voluto rendere omaggio a tanta irresistibile modestia nel titolo del suo articolo: Internet, sappi che Philippe Poutou è ancora più fico di quello che pensi”.

Ai “grandi” candidati, il portavoce dell’NPA ha risposto per le rime. Ha spiegato a Macron – ex banchiere di Rothschild e ex ministro dell’economia del governo di Manuel Valls, perché quando parla di lavoro ordinario è evidente che non sappia cosa di cosa parli. Ha detto a Fillon quello che tutti avrebbero voluto, ma nessuno ha osato dirgli, accusandolo sfacciatamente di corruzione. E come se non bastasse, ha svelato i privilegi di casta della candidata più fintamente anti-casta di tutto il firmamento elettorale francese, Marine Le Pen, che convocata dai giudici per un’inchiesta sugli impieghi fittizi dei suoi assistenti parlamentari a Strasburgo, ha potuto rinviare il suo interrogatorio, facendo appello all’immunità parlamentare di cui gode in qualità di eurodeputata. “Noi non abbiamo l’immunità operaia: quando la polizia ci convoca, dobbiamo andare”.

È stato un elettroshock per tutti. Per i commentatori televisivi della serata che nonostante una buona dose di snobismo e condiscendenza, hanno faticato a digerire “l’insolenza volgare “ di Poutou e della sua barba incolta, e per i “grandi” candidati che il giorno successivo hanno fatto sapere per bocca dei loro portavoce di non voler più partecipare a un secondo round del dibattito a 11 come previsto all’inizio per il 20 aprile. Ma la performance di Poutou ha scosso soprattutto il pubblico della diretta – quasi sei milioni e mezzo di telespettatori – che hanno dimostrato di apprezzare le virtù di un politico non professionista: non un dilettante allo sbaraglio come vorrebbe Madame Le Pen, ma un militante abituato a una politica diversa, che non si decide nei palazzi, che non si discute in completi scuri che non beneficia di nessun privilegio di fronte alla giustizia, ma al contrario paga il prezzo delle lotte affrontando la repressione brutale degli ultimi tempi. Philippe è un lavoratore che passa 30 ore a settimana a fare manutenzione in officina, e per questo insiste sulla riduzione dell’orario di lavoro: lavorare meno per lavorare tutti. Un sindacalista della CGT (per 20 ore al mese) che conosce bene il diritto del lavoro e le infrazioni da parte delle imprese, e che da anni si batte contro la chiusura del suo stabilimento Ford a Blanquefort. Un cittadino che paga le tasse in proporzione a quel che possiede (che non è molto: una Peugeot 3008 e qualche migliaio di euro sul conto in banca, secondo la dichiarazione dei redditi del 2016 resa pubblica dalla Corte Costituzionale dopo l’approvazione della sua candidatura alle presidenziali).

Il suo ingresso irriverente nel dibattito ufficiale è stato un cortocircuito che anche opinionisti non sospetti hanno salutato favorevolmente. Un “missile Scud” per Le Mondeun’eroe popolare” per il New York Times,  e soprattutto un’”irruzione di realtà”, secondo Mediapart, che ha avuto l’effetto di un secchio d’acqua in faccia a una classe politica non completamente impermeabile.

Campagna euforica

Sabato scorso nella piazza del mercato di Saint Denis, banlieue nord di Parigi, si gira uno degli spot ufficiali della campagna di Poutou che dal 10 aprile scorso vengono trasmessi ufficialmente in TV. Il set è un grande flash mob che si dimena davanti alla basilica sulla Place de la République, a poche decine di metri dalla rue du Corbillon, resa nota dall’assalto lanciato al civico 48 da un centinaio di uomini dell’antiterrorismo contro i responsabili dell’attentato del Bataclan. Periferia usurata dalla droga, dal crimine, dalla discriminazione, e bersaglio degli interventi a dir poco maldestri della Bac (Brigade anti-criminalité) – che il 7 marzo, per esempio, ha fatto incursione nel liceo Suger e arrestato 55 studenti rimasti in stato di fermo per oltre 24 ore – Saint Denis non è una location di finzione, ma uno dei tanti volti del paese reale. Sono una cinquantina i militanti dell’NPA di tutte le età – dai 2 agli over 60 – che partecipano alle riprese, insieme a un equipe di ballerini professionisti. Hugo Chesner, il regista che aveva già diretto gli spot della campagna 2012, spiega al megafono di che si tratta: “Preparatevi a una lotta a passo di danza. Non è tanto diverso da una manifestazione”. Ma dopo due ore di prove Konan, il coreografo, non è ancora soddisfatto. “No, non ci siamo capiti, ci vuole più energia. Pensate a Poutou contro Le Pen e fate come lui!”.

Philippe intanto si aggira sulla piazza, stringe la mano di chi va a salutarlo, si lascia intontire di foto dai passanti, scatta selfie con uno sciame di adolescenti che spudoratamente giurano che dal vivo è anche più bello che in tv, abbraccia una signora velata sulla sessantina che vuole a tutti i costi congratularsi con lui, rilascia qualche intervista e soprattutto si gode lo spettacolo. Quelli che proprio non riescono a ballare ripiegano sullo sventolamento delle bandiere rosse che pure fanno parte della coreografia. Le riprese vanno avanti fino alle 4 del pomeriggio. C’è chi è sfinito e giura che avrebbe preferito volantinare all’alba o attacchinare di notte piuttosto che darsi alle danze. Ma per fortuna c’è anche chi si è divertito. “Secondo me è venuto bene, dice Clémence. E poi sarà sicuramente l’unico clip con un corpo di ballo!”. Per le ultime due settimane di campagna Hugo ha immaginato una web-series a puntate dove Philippe interviene come un supereroe contro le vessazioni di Mr. Capital, contro il sessismo, lo sfruttamento e la discriminazione.

Il video di Saint Denis, invece, è quello sui cui verrà registrato la lettera aperta di Poutou agli elettori, che ci conclude più o meno così: “Lo sappiamo che queste elezioni non ci cambieranno la vita. Ma votare per un operaio e per un programma anticapitalista è un modo per dire che non finisce qua”.

Come già nel corso delle campagne precedenti, gli spot dell NPA cercano di rispecchiare lo spirito del partito: possibilmente contro corrente, senza prendersi troppo sul serio, rifiutano il culto della personalità. Eppure Philippe a suo modo è diventato sorprendentemente un cult e la cosa fa sorridere i compagni e le compagne che lo conoscono da tempo. Nel 2012 alla sua prima prova elettorale era il candidato che nessuno conosceva e che in fondo che nessuno desiderava conoscere, destinato a rimpiazzare un predecessore giovane e carismatico come Olivier Besancenot, senza riuscire a eguagliarlo in fatto di eloquenza, popolarità e voti (la Ligue Communiste Révolutionnaire di Besancenot nel 2007 aveva raggiunto il 4,08 %, mentre nel 2012 l’NPA di Poutou, il suo successore si era fermato all’1,15 %, pari a 411.160 voti). All’epoca per presentarsi agli elettori Philippe aveva pubblicato un libretto di cinquanta pagine intitolato Un ouvrier est là pour fermer sa guele (Un operaio farebbe meglio a stare zitto). Nel frattempo ha imparato parlare come si deve, incassando i complimenti della stampa internazionale. “Va molto meglio, ma è soprattutto un lavoro di squadra”, ci tiene a precisare, “supportato da un nucleo determinato di militanti molto attivi che lavorano per questa campagna già da prima che esistesse”. Si riferisce alla campagna pre-elettorale, la corsa a ostacoli per raccogliere le 500 firme di sindaci o deputati che, in base ai requisiti della legge francese, gli avrebbero permesso di partecipare alla corsa all’Eliseo. Senza l’impegno ostinato di tanti volenterosi che hanno percorso la Francia in lungo e in largo per perorare la causa della sua candidatura, Poutou non ce l’avrebbe fatta.

Oggi i suoi sostenitori continuano a essere una risorsa fondamentale nell’organizzazione dei meeting elettorali e un sostegno morale quando il gioco (quello mediatico) si fa duro fino a diventare sprezzante. “E incredibile il disprezzo che circola nei salotti televisivi nei confronti di persone come me. Eppure credo di rappresentare una buona fetta della popolazione di questo paese”. A differenza della maggioranza dei candidati, Philippe evita i monologhi e preferisce i dibattiti. Ogni evento – a Lione, a Montpellier, a Toulouse, a Clermont-Ferrand , a Lille – è presieduto da una tribuna di invitati. A Saint-Ouen, alle porte di Parigi, per il primo grande appuntamento dopo la validazione legale della sua partecipazione a queste presidenziali, il 23 marzo, siedono al suo fianco uno studente di Paris 8, un controllore del traffico ferroviario, un’insegnante di storia delle medie, una metalmeccanica di Peugeot-Citroën, e un attore, intermittente dello spettacolo. Philippe conclude il giro di interventi e illustra alcune delle misure del suo programma: la riduzione dell’orario di lavoro a 32h a settimana, il salario minimo a 1700 euro, l’abrogazione della Loi El Khomri, il rilancio dei servizi pubblici e dell’impiego contro la crisi, il divieto per le imprese di licenziare, la nazionalizzazione dei beni comuni e dei settori portanti dell’economia. “Sappiamo che i licenziamenti fanno morire dalle risate certe persone, dice facendo allusione ai giornalisti di On n’est pas couché (storico e chiacchieratissimo talk-show d’attualità in onda il sabato in seconda serata su France 2) che qualche settimana fa, in una sequenza tanto memorabile quanto ignobile a giudizio dei telespettatori, hanno riso in faccia a Philippe Poutou per quasi due minuti di seguito. “Ma quelli che hanno visto da vicino che cosa significa la soppressione di centinaia di posti di lavoro, sanno che non è una barzelletta”.

Poi risponde alle domande del pubblico, sulle energie rinnovabili, i trasporti pubblici e gratuiti, i Territori Occupati, le pensioni. E ritorna al punto di partenza: “Dicono che siamo poco credibili. Ma che Bernard Arnault, il presidente di LVMH (il gruppo che possiede il marchio Louis Vuitton) abbia un patrimonio di 40 miliardi di euro, non è ancora più incredibile? Mentre se noi parliamo della necessità di garantire alla gente di poter vivere di quello che guadagna, o di assistenza sanitaria gratuita, o di diritto alla casa, ci sentiamo ripetere che è impossibile, inimmaginabile, fantasioso, un’utopia. Vi pare logico?”.

L’ha ripetuto venerdì a Lille – “Ma perché quando sono le banche a rubare è normale, e se noi diciamo “espropriazione” invece è assurdo?” – e poi di nuovo forte e chiaro in un’intervista rilasciata a Libération : “Cent’anni fa anche le ferie pagate erano un’utopia. Ma le conquiste sociali non sono mai piovute dall’alto. Non sono mica stati i padroni spontaneamente a rendersi conto che il lavoro minorile fosse un’aberrazione”.

Alla convinzione diffusa per cui, parafrasando Fredric Jameson, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, Philippe obietta una convinzione ostinatamente contraria: la consapevolezza che è impossibile riformare questo sistema per renderlo vivibile dignitosamente per tutti. “Ci dicono che le cose non possono essere altrimenti. Ma chi l’ha detto che hanno ragione loro? E poi non possiamo permetterci il lusso di privarci della possibilità di pensare e volere qualcosa di diverso”.

Questione di desideri, di diritti, di rapporti di forza e di lotte, di vite che si ribellano contro i profitti che le negano. Queste sono le parole d’ordine intorno a cui Philippe Poutou ha costruito la sua campagna elettorale (Nos vies, pas leur profits) – a volte intercalandole a qualche parolaccia per irritare meglio i benpensanti. “C’è tanta rabbia in giro di questi tempi e con ragione. Ma non è tutta destinata ad andare in pasto al Front National. Le Pen ha un vantaggio: in una fase di merda come quella attuale sono gli argomenti peggiori, all’altezza della situazione, che riescono imporsi. La scommessa è tirare fuori da questa collera diffusa qualcosa di buono: la rabbia, la coesione e la solidarietà”.

Più facile a dirsi che a farsi, certo. Ma il semplice fatto di avanzare una prospettiva simile contro il fatalismo disperante e martellante che vuole che le classi popolari siano tutte risolutamente protese a destra, getta una luce diversa sulle ombre della politica francese, che pare trovare conferma nell’ascensione di Mélenchon nei sondaggi e nell’improvviso entusiasmo suscitato dal caso Poutou.

Che razza di popolo?
Il bilancio virtuale è strepitoso. Quadruplicati i likes sulla sua pagina Facebook, Poutou è in testa al 
Twitter Politique essendo il candidato più nominato sulla rete, mentre il video della sua stangata a Fillon e Le Pen durante il dibattito televisivo del 4 aprile ( « Philippe Poutou fustige la corruption» ) è in pole position sulla pagina politica del sito di Le Monde, con 4 milioni mezzo di visualizzazioni. Intanto i meeting si susseguono e raddoppiano i numeri dei partecipanti, molti dei curiosi che vengono a conoscerlo di persona. Che ogni like diventi un voto è cosa tutt’altro che scontata. Poutou piace e dispiace; e chi ne ha condiviso l’intervento salutare contro la casta corrotta non è necessariamente sulla sua stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda tutto il resto. Contro di lui si è scagliato l’ex direttore di L’Express, Christophe Barbier, con un editoriale intitolato “Poutou est quelqu’un de dangereux, che a pensarci bene in fondo è un complimento. Per contrastare l’immagine del candidato “normale”, Barbier sbandiera la minaccia bolscevica e taccia di questa pericolosa collocazione ideologica sia Poutou che Nathalie Artaud, la candidata alle presidenziali di Lutte Ouvrière, l’altra storica formazione trotskista dell’extrême gauche francese.

Da una prospettiva molto diversa, gli elettori della France Insoumise di Mélenchon vorrebbero che Poutou si facesse da parte, lanciando la parola d’ordine del voto utile a sinistra e puntando sull’eleggibilità del loro candidato al secondo turno.

Melenchon non è un nemico”, ha ripetuto Poutou in tante occasioni. “Ma non siamo interscambiabili. E il voto utile alla fine è il voto calcolato in funzione di quello che dicono i sondaggi. Se non ci fossero i sondaggi, voteremmo per le idee che ci rappresentano”. I sostenitori di Philippe sono d’accordo: “Poutou non è Mélenchon. C’è differenza tra una campagna popolare e una campagna populista”, spiega Corinne Rozènne, redattrice di Révolution Permanente, alludendo a un’intervista a Chantal Mouffe pubblicata pochi giorni fa su Le Figaro, che incorona il “populismo di sinistra” di Mélenchon e accusa le altre opzioni di non capire gli orientamenti della congiuntura politica attuale.

A dispetto del suo conclamato realismo politico, la prospettiva di Mouffe le pare la più irreale di tutte. Abbracciare un “patriottismo di sinistra” per parlare al cuore degli elettori e inventare il “frontenazionalismo della gauche”, le sembrano entrambe ipotesi improponibili. “O forse sono praticabili, ma allora bisogna fare finta che la République, anche nella fantomatica VI versione invocata da Mélenchon, non sia quello è. Il che non mi pare così realista”. Contro la “lepenizzazione” dilagante del dibattito politico che ha fatto dei temi della sicurezza, del protezionismo, della patria da difendere, delle frontiere da salvare e dalla tradizione da preservare, il denominatore comune di questa campagna (le domande a cui tutte le forze politiche sono state indirettamente chiamate a rispondere), Poutou ha scelto deliberatamente di sollevare altre questioni.

Se per contenere la deriva verso un nazionalismo reputato “delirante”, il Consiglio Superiore dell’Audiovisuale ha deciso di vietare la marseilllaise e le bandiere francesi dagli spot elettorali, Poutou da parte sua ha puntato tutto sull’internazionalismo: lo sciopero generale in Guyana, il popolo kurdo, i rifugiati siriani. “Se parliamo di passioni, appassioniamoci alla solidarietà invece che alla paura e a casa nostra”.
Poutou perciò sembra ancora più necessario in questa configurazione elettorale che nella precedente. Secondo Emmanuel Barot, professore di filosofia all’università di Toulouse-Mirail e militante dell’NPA, “Poutou dice a voce alta quello che molti pensano a voce bassa”. Ma soprattutto dice cose che altri non dicono e non fa cose che altri fanno. A differenza di Mélenchon, non cosparge i suoi meeting con le tinte del tricolore, non invoca la Repubblica universale di De Gaulle e Mitterrand, non pensa che “il popolo (tout court) sia la soluzione”, non difende ad ogni costo l’idea ormai abusata di una laicità che esclude più di quanto non includa, non ammicca al sovranismo di sinistra.

Piuttosto, dice a chiare lettere no all’islamofobia e basta allo stato d’emergenza; spiega che il razzismo di stato è un problema serio e punta il dito contro la sua inestirpabile radice coloniale, denunciando la criminalizzazione dei giovani nei quartiers populaires. Femminismo, anticapitalismo, antimperialismo sono parole che non esistono nel programma di Mélenchon, l’Avenir en commun. C’è chi obietta che sono solo parole e per giunta desuete. Ma sono parole a cui una parte del popolo della sinistra non è disposto a rinunciare.

Per questo è tutt’altro che inutile che Poutou continui a dar voce al proprio dissenso all’interno del dibattito elettorale, approfittando del fatto che il suo discorso è riuscito a fare breccia, con buona pace di Marine Le Pen, apparentemente incrinata nella scalata dei sondaggi da un avversario – “un’arma di distruzione di massa” secondo il settimanale d’economia Challenges tutto dalla parte di Macron – che la deputata ha sprezzantemente accusato di essere un “catcheur”, un politico da wrestling.

In un articolo dedicato al wrestling del 1958, «Il mondo del catch», Roland Barthes analizzava le caratteristiche di uno sport che, insieme alla boxe, ha sempre fatto parte del patrimonio della cultura popolare. “La funzione del lottatore non è di vincere, spiega Barthes, ma di compiere esattamente i gesti che ci si aspettano da lui”. E Philippe Poutou ha fatto e continua fare quello che milioni di persone si aspettano che faccia. E’ così che anche chi non avrebbe mai voluto, è stato costretto a smettere di ridere e di deriderlo per rispondergli.

In attesa del verdetto del voto (per Poutou un mezzo e non un fine, dal momento che la politica non si riduce ai seggi elettorali), che il buon senso dell’extrême gauche contro le insensate ingiustizie di questa società sia diventato senso comune per bocca di un “lottatore” è in ogni caso un’ottima notizia.

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