“Il candidato-meccanico fa esplodere la bolla dell’élite politica francese” (Disrespect Intended: Mechanic-Candidate Bursts French Political Elite’s Bubble): questo il titolo di un articolo apparso sul New York Times del 6 aprile – due giorni dopo il Grand Débat televisivo degli undici candidati all’Eliseo – che rende omaggio alla postura irriverente di Philippe Poutou, al suo linguaggio franco e volutamente stonato rispetto al galateo di circostanza, e alle sue stoccate contro Marine Le Pen, François Fillon e Emmanuel Macron. Peccato che il responso elettorale non sia stato altrettanto esplosivo per il portavoce del Nouveau Parti Anticapitaliste, che ha totalizzato un po’ meno di 400.000 voti, pari all’1,09 %. Molti gli elementi che hanno condizionato questo risultato, tra cui la rapida ascesa nei sondaggi di Jean-Luc Mélenchon nel corso delle ultime settimane prima delle elezioni, fattore che ha favorito una ricomposizione del voto a sinistra nella speranza di riuscire a far arrivare il candidato della FranceInsoumise al secondo turno. Il 7 maggio il duello Macron-Le Pen, come nel 2002 lo scontro Chirac-Le Pen, ha rimobilitato la logica del voto utile contro la minaccia della destra xenofoba e sovranista, a favore dell’attuale presidente, tanto abile quanto drammaticamente impopolare, che nei giorni scorsi ha nominato alla guida del nuovo esecutivo Edouard Philippe, deputato del partito Les Républicains, nel tentativo di guadagnare consensi tra le fila della destra tradizionale in vista delle legislative.

Qual è il compito di una formazione politica della sinistra radicale in questo scenario? E qual è stato retrospettivamente il senso della recente campagna elettorale dell’NPA?

Macron è il presidente della finanza, impopolare e di successo. Poutou il candidato operaio, ultrapopolare, ma perdente in cifre.

L’ho incontrato nella sala riunioni del quartier generale dell’NPA, a Montreuil, alla periferia est di Parigi. La sede legale del partito, al piano di sopra, è anche la sede della tipografia, la Rotographie (al piano di sotto) che dal 1976, data della sua creazione, è stata l’imprimerie della Ligue Communiste Révolutionnaire – l’antenata del Nuovo partito anticapitalista – nonché la fabbrica del quotidiano Rouge, una delle più emblematiche esperienze di giornalismo militante nella Francia degli anni 70 (tra l’altro Edwy Plenel, attuale direttore di Mèdiapart è stato uno dei protagonisti di questa avventura editoriale) .

JM: Cominciamo dalla preistoria, dalla tua preistoria militante e personale per arrivare alla tua prima candidatura con l’NPA nel 2012.

Sei sicura che bisogna ricominciare dalla preistoria? La faccio breve. Ho cominciato a militare a Lutte Ouvrière a Bordeaux, negli anni Ottanta, tra il 1985 e il 1996 per la precisione. Poi insieme a un gruppo di compagni sono stato espulso per ragioni – diciamo – di disaccordo politico. E da quel momento sono entrato alla Ligue [Communiste Révolutionnaire], e ci sono rimasto anche dopo la dissoluzione del partito e la rifondazione dell’NPA. Nel 1996 ho cominciato a lavorare a Ford, allo stabilimento di Blanquefort, con contratti a tempo determinato per tre anni. Nel 1999, in concomitanza con l’entrata in vigore della Loi Aubry sulle 35 ore, Ford ha lanciato un piano di assunzioni. Io ero lì al momento giusto, con un po’ d’anzianità e insieme ad altri sono entrato a tempo indeterminato. Quando ero precario ho fatto di tutto, ci spostavano in continuazione. Ero uno stacanovista, ma era lo spirito di tutti noi precari in attesa di un contratto stabile. Visto che me ne intendevo di meccanica, quando mi hanno assunto mi hanno messo alla manutenzione della macchine. Da allora, dal 1999, sono meccanico di manutenzione e non mi hanno più spostato. Nel 2000 si cominciava a vociferare di programmi di ristrutturazione all’interno dello stabilimento. I licenziamenti sono piovuti massivamente nel 2005 e molti sono stati convinti a andarsene con degli incentivi. Nel 2006 noi che eravamo determinati a restare abbiamo cominciato a organizzarci e a batterci contro le misure di liquidazione del sito di Blanquefort, che sono state ufficializzate nel 2007. La mobilitazione che abbiamo portato avanti nel 2007-2008 è andata bene, abbiamo ottenuto una vittoria provvisoria, con la promessa di non smantellare la fabbrica. Ma sono sempre conquiste fragili, abbiamo ricominciato nel 2011, ci è andata relativamente bene, e adesso siamo di nuovo da capo a dodici con le minacce di chiusura.

JM: Dici “noi” e intendi la sezione sindacale della CGT, immagino, i delegati e gli iscritti. Durante il movimento contro la Loi Travail, la CGT è stata percepita come una sorta di eccezione europea, il sindacato combattivo dalla parte dei lavoratori, il sindacato che non molla, soprattutto se paragonata agli esempi delle confederazioni sindacali storiche che esistono negli altri paesi, più concilianti, sempre pronte alla concertazione, incapaci di dare battaglia. Tu che sei dentro, cosa ne pensi?

Sono entrato alla CGT nel 2000 poco dopo essere stato assunto a Ford. Da delegato non ho buoni rapporti con la federazione metalmeccanica del sindacato né con l’unione dipartimentale. E direi che tutta la nostra sezione ha rapporti pessimi con i vertici locali e nazionali. La situazione è diventata più tesa e più conflittuale nel momento in cui abbiamo cominciato a batterci contro i licenziamenti, a parlare di convergenza con altri settori in lotta. I dirigenti sindacali erano in disaccordo, hanno cercato di controllare e sabotare le nostre iniziative, ma non è una novità. È un problema classico, strutturale di rapporti tra le gerarchie burocratiche e i sindacalisti della base, che emerge violentemente quando dal basso si cerca di fare autorganizzazione, ed è quello che è successo anche durante gli scioperi contro la Loi Travail. Ci sono delle linee di frattura che si sono ulteriormente incrinate tra le direzioni e i militanti di base. Da noi a Ford, nonostante tutto, la squadra è in buona salute, e non è stata smantellata, anche perché abbiamo ottime relazioni con le altre sezioni sindacali delle fabbriche della zona e facciamo rete dal basso per far fronte all’ostilità della federazione a livello dipartimentale.

JM: Nel 2011 vieni candidato dall’NPA alle presidenziali del 2012. Dico “vieni candidato” perché non è stata esattamente una tua idea, ma hai accettato. Come è stato il passaggio dalla fabbrica alle elezioni?

Sì, diciamo che “sono stato candidato” e anche molto rapidamente. Quando Olivier [Besancenot] ha deciso che non si sarebbe ripresentato per la terza volta, bisognava pensare a nuove candidature da discutere in congresso. La mia candidatura è stata decisa più o meno in sette settimane – tra l’annuncio di Olivier e la data del congresso. I compagni di Ford e della sezione NPA di Bordeaux mi hanno spinto. C’era stata la vittoria sindacale in fabbrica nel 2011, cosa rara, e questo aspetto aveva entusiasmato molti. Presentare un candidato operaio, con un profilo combattivo e con alle spalle una lotta andata a buon fine, avrebbe permesso al partito di orchestrare una campagna su questa linea programmatica: un anticapitalismo attivo impegnato nelle mobilitazioni che proCollage_poutouvengono dal mondo del lavoro, e non solo, ovviamente.

Non ero un dirigente dell’NPA all’epoca, perché fino ad allora mi ero concentrato sulle battaglie sindacali a Ford. Militavo da tanti anni, sì, ma sostenere una campagna elettorale è un’altra cosa, una battaglia di altro tipo. Diciamo che fortunatamente ho avuto poco tempo per rendermi conto del vortice in cui mi sarei imbarcato e delle conseguenze. Pensavo che l’impegno sarebbe durato un anno, da luglio 2011, dal congresso dell’NPA, alle elezioni, a maggio del 2012. In realtà poi avrei dovuto continuare a essere portavoce del partito. E a lavorare a Ford e con il sindacato. Il mio debutto è stato catastrofico, e senza il sostegno umano e politico, al di là delle divergenze di orientamento che esistono anche dentro a un partito piccolo come il nostro, non sarei andato da nessuna parte. Parlo sempre al plurale, me lo rimproverano sempre, ma non è un modo di dire, la mia è una candidatura portata collettivamente in tutto e per tutto. L’unica cosa è che senti di avere delle responsabilità in prima persona quando non riesci a fare o a dire le cose come vorresti. A luglio 2011 mi ricordo la prima intervista televisiva al Grand Journal di Canal Plus. Michel Denisot mi ha fatto una domanda, la prima, e mentre la formulava mi rendevo conto che non ero sicuro di aver capito bene cosa mi stava chiedendo. E lì ho realizzato quanto sarebbe stato difficile per una persona come me fare i conti con qualcosa cui non ero abituato per niente.

JM: Si è parlato a sfinimento del tuo rapporto con i giornalisti nel corso di questa campagna, con la stampa e la tv in particolare. Voglio dire che i giornalisti hanno speculato a lungo sul trattamento che ricevevi da parte di altri giornalisti. Per molti versi sei stato l’exploit mediatico di questa campagna, inaspettato, insospettabile, e quindi al centro dell’attenzione. Al tempo stesso sei stato anche il bersaglio preferito, in tante occasioni, di uno snobismo sprezzante, volgare che caratterizza il giornalismo mainstream francese, e non solo.

C’è una cosa da precisare prima di tutto: il fatto che per fare una campagna come la intendiamo noi, una campagna elettorale che è una campagna che punta a far circolare idee che non circolano di solito, non è possibile rifiutare gli spazi di visibilità, pochi di solito, che ci vengono offerti, anche sapendo quello a cui andiamo incontro. Cioè non possiamo snobbare i dibattiti e le interviste pur con tutti i limiti che sappiamo. Abbiamo rifiutato l’invito alla trasmissione di Eric Zemmour, perché è un personaggio destrorso, orribile, e non volevamo accreditarlo come un interlocutore possibile. Ma a parte rare eccezioni, ogni spazio mediatico, con tutte le distorsioni del caso, può essere uno spazio politico e bisogna occuparlo. Dopo il 4 aprile c’è stato sicuramente un picco di interesse. Il giorno dopo ho ricevuto quasi 50 proposte di intervista. Ci lamentavamo dell’invisibilizzazione e siamo diventati visibili, all’improvviso. Questo sicuramente ci ha giovato, non per i media in sé, ma per la cassa di risonanza che producono.

Il mio rapporto personale con i giornalisti, soprattutto alla luce degli sketch aberranti di cui mi sono ritrovato in balia, mi riferisco alle risate isteriche dei conduttori televisivi di On est pas couché mentre parlavo del divieto dei licenziamenti, è difficile da spiegare. A parte un paio di volte in cui ho provato rabbia, e si è visto, mi rendo conto di non avere una percezione reale, dal vivo, di quello che succede quando sono davanti alle telecamere. Tutto è fatto per intimidire soprattutto gente come me che non ha niente a che fare con il bel mondo della politica e dei salotti. E c’è un rapporto di inferiorizzazione, quasi fisico, direi, che si crea in questi contesti, come ti guardano, come ti rivolgono la parola. È una cosa che rischia di avere un effetto paralizzante, motivo per cui devo aver sviluppato dei meccanismi di autodifesa e non ci faccio caso lì per lì, non me ne accorgo di solito. Mi concentro su quello che devo dire e basta. Spesso sono gli altri a farmi notare quanto sia visibile il disprezzo nei miei confronti o nei confronti di quello che rappresento: non un politico di professione, non un uomo di potere, ma un lavoratore che fa politica con i suoi strumenti.

Il trattamento, soprattutto in tv, è chiaramente umiliante, è impossibile riuscire a parlare più di 30 o 60 secondi senza farsi interrompere, o ridere in faccia. In questo senso la nostra campagna ha avuto anche un effetto di smascheramento del razzismo sociale che invade il giornalismo. Non solo i miei compagni, i miei colleghi e quelli come me hanno avvertito un disagio tutte le volte in cui mi sono trovato ad essere trattato come l’idiota della situazione. C’è stata una reazione di sdegno generalizzata, e un sentimento di solidarietà nei miei confronti, nel momento in cui il disprezzo nei riguardi di quello che rappresento è diventato apertamente visibile.

JM: Rispetto al 2012 hai fatto progressi enormi. Non è un caso che tu sia diventato così popolare. Che bilancio puoi trarre da quest’ultima campagna? Popolarità senza successo di numeri?

Il risultato è stato deludente. Ancora più deludente perché la campagna è stata molto positiva. La visibilità mediatica ha giocato a nostro favore, certo, ma il dato significativo è l’eco più generale, al di là delle fissazioni dei giornalisti, la risposta popolare, la solidarietà che ho sentito intono e le realtà in lotta che ci chiedono supporto o che vogliono dialogare con noi. Lo scopo non era vincere le elezioni, ma riuscire a dire delle cose. Le abbiamo dette, ci siamo riusciti, ma non abbiamo convinto.

Stando ai risultati del voto, su cui comunque la pressione del voto utile a Mélenchon ha pesato parecchio, non convinciamo. Una quantità di gente mi ferma per strada e mi dice “avrei voluto votare per te, ma…”. In ogni caso in questa situazione convincere non era facile. D’altra parte la partecipazione elettorale non è il nostro unico investimento. È una delle tante occasioni, che in questo caso specifico ci è servita per dimostrare di poter rompere le regole del dibattito politico, dire e far sentire che c’è un’ingiustizia sociale profonda, rispetto alla quale bisogna contrattaccare. Questo credo che abbia toccato molte persone, quando parlano della “Poutoumania per strada”, io credo che dipenda dal fatto che abbiamo dato voce a un disagio diffuso, che c’è e che rimane inespresso, soppresso dalle logiche della politica mainstream. Abbiamo anche imparato molto da questa campagna. La popolarità che ho avuto e che continua a quanto pare, ci ha confermato che lo sfruttamento, la discriminazione, l’ingiustizia non sono parole astratte, ma parlano alla gente e che nonostante la demoralizzazione, c’è una certa coscienza o spirito o rabbia di classe che spesso non si sente e non si vede, ma che quando trova risonanza si riaccende di nuovo. Certo non basta il tormentone mediatico dell’immunité ouvrière, ma penso che non sia stata solo una questione mediatica. Si è trattato un processo reale che ha scosso una rabbia sedata e scatenato meccanismi identificazione. Penso anche alla manifestazione del primo maggio. In tanti sono venuti a ringraziarmi per quello che ho detto sulla corruzione dei politici, sui paradossi della giustizia d’élite, sui paradossi di questa crisi economica che si trascina a colpi di austerità. Quello che dicevamo ha permesso a molte persone di immedesimarsi, nel senso di pensare “vale anche per noi”.

Diciamo che la campagna ha avuto una funzione rivelatrice: ci ha permesso di toccare con mano la collera diffusa tra le classi popolari, che non si traduce automaticamente in un voto a Le Pen, ma che rischia di guardare a Le Pen come a un’alternativa al sistema. Io ho voluto dire chiaramente che non è così. Le Pen non è un’alternativa a questo sistema, ne fa parte. E Le Pen non è nemmeno il sociale contro la finanza, le banche e il capitale.

Resta il fatto che speravamo di fare meglio e che se ci fosse stato un risultato migliore, avremmo potuto far pesare di più il contenuto di questa rabbia antisistema e contro le ingiustizie del sistema. Il successo politico della campagna non si è tradotto in un successo elettorale. È l’opposto del fenomeno Macron, impopolare ma di successo.

JM: A proposito di impopolarità mi viene in mente la coincidenza sfortunata del tuo ultimo passaggio televisivo prima del voto, in cui ribadivi la proposta del disarmo della polizia, proprio la sera dell’uccisione/attentato di un poliziotto sugli Champs Elysées. C’è chi dice, tra i giornalisti, che ha pesato sul tuo risultato. La domanda è: c’è qualcosa che rimpiangi di questa campagna elettorale?

La storia del disarmo della polizia non ha fatto scandalo solo quella sera. È sempre stata percepita come un delirio. È una di quelle cose su cui ogni giornalista che mi ha intervistato mi ha chiesto di dare delle spiegazioni, e rispetto alla quale anche molti dei nostri simpatizzanti rimangono perplessi: “ma come si fa ? è impossibile!”

Ma non è l’unica proposta “incredibile”. Anzi, direi che durante ogni intervista sul nostro programma c’era questo senso di incredulità. Tutte le interviste sono state alla fine la ripetizione della stesso copione. Sono stato continuamente sollecitato sulle stesse cose: il divieto dei licenziamenti, che è un’aberrazione impraticabile, una follia. Altrettanto folle è il disarmo della polizia. E un po’ meno l’abbandono del nucleare. Poi c’è la questione della libera circolazione, che suona come un’altra pazzia.

Uno degli aspetti più faticosi, e però necessari, di questa campagna è stato forse proprio quello di avere la sensazione di esprimere sempre punti di vista considerati assurdi, perché controcorrente, su questioni scottanti. E ripeto non parlo solo dell’incredulità dei giornalisti che ho avuto di fronte, ma di chi mi ascoltava, e di chi potenzialmente sta anche dalla nostra parte.

Per esempio la libertà di circolazione è un tema che suscita solidarietà, ma è una cosa inimmaginabile, è il mondo alla rovescia, ovvio che sembri un’aberrazione nel momento in cui, tutti, ma proprio tutti, parlano di patria e frontiere.

Idem per quanto riguarda i licenziamenti, la gente pensa “sì, non sarebbe male, ma è impossibile”, e noi per primi ci poniamo il problema di capire l’implementazione di una misura del genere, concretamente.

Il disarmo della polizia è sicuramente il picco della follia, peggio di tutto il resto. In una fase di stato d’emergenza prolungato, militarizzazione degli spazi pubblici e minaccia terrorista su scala nazionale e internazionale suona ovviamente come una proposta totalmente fuori luogo. E ogni volta per me si è trattato innanzitutto di risituare la questione: quando parliamo di disarmo della polizia parliamo di disarmo dei settori attivi nella gestione dei “disordini” di piazza e nei quartiers populaires. Sono loro, di fatto, i responsabili della repressione e delle violenze razziste che denunciamo.

Ora se mi pento di aver detto quello che ho detto la sera in cui un poliziotto è stato ucciso? No, non me ne pento, non credo ci sia nulla di cui pentirsi.

Il punto è un altro, e più complicato. Mi sono reso conto, e ci siamo resi conto, della difficoltà che abbiamo incontrato non solo a convincere la gente della giustezza di proposte che di primo acchito sembrano poco fattibili, ma a volte semplicemente a porre un problema che mette in discussione dati di fatto che sembrano naturali, scontati e immodificabili.

C’è una resistenza, in prima battuta, ad accettare che venga posta come un problema e non come una sciagura ineluttabile, la questione delle violenze della polizia. È un fenomeno strutturale, con un grave impatto sociale; c’è una repressione di stato orchestrata contro ogni forma di lotta e di contestazione e, questo è il dato che non possiamo ignorare. Come rispondiamo? Questa è la questione.

L’insistenza testarda con cui abbiamo portato avanti questo tipo di domande non è stata inutile. Siamo riusciti a far passare la legittimità di un problema politico che non è un’evidenza. Non abbiamo proposto soluzioni assolutamente convincenti? Dobbiamo rispondere meglio? Non siamo stati efficaci? Probabilmente, ma il fatto di aver posto e in un certo senso imposto questi problemi all’attenzione pubblica attraverso il nostro programma mi pare essenziale. Quindi non rimpiango, anzi rivendico il fatto di aver difeso le nostre idee controcorrente, e sfacciatamente, in contesti di discussione non facili da questo punto di vista. È uno degli aspetti più positivi di questa campagna. Per cui, no, je ne regrette rien.

JM: A proposito del secondo turno. L’NPA non ha espresso una posizione unanimemente condivisa sulla questione del voto al secondo turno, e tu ti sei pronunciato subito la sera del primo turno, in Tv, dicendo che ti saresti astenuto. Poi c’è stato tutto il dibattito interno al partito sull’opportunità di usare formule come “Ni Le Pen/Ni Macron – Ni patrie/Ni patrons” che rischiavano secondo alcuni di finire per mettere sullo stesso piano due candidati politici molto diversi. Leggevo su un comunicato dell’NPA di Poitiers un’analisi del duello Macron-Le Pen che riprende una metafora di Trotskij da un testo del 1931, la Lettera a un operaio tedesco, membro del partito comunista tedesco. Te la leggo perché è suggestiva, ma non so quanto sia appropriata alla situazione attuale: “In una scala ci sono sette note. Chiedersi quale sia la migliore, do, re o sol, non ha senso. Però un musicista sa quale tasto scegliere e quando farlo. Chiedersi astrattamente chi rappresenti il male minore tra Brüning e Hitler è altrettanto insensato. Ma ancora una volta bisogna sapere quale tasto è opportuno premere tra i due. È chiaro? Per chi non ha capito, prendiamo un altro esempio. Se uno dei miei nemici mi avvelena ogni giorno con piccole dosi di veleno, e un altro vuole spararmi un colpo alle spalle, darei la priorità al compito di strappare di mano la pistola al mio secondo nemico, cosa che mi darà la possibilità di liquidare il primo. Ma questo non significa che il veleno sia un “male minore” rispetto alla pistola”. Il mio dubbio è che nel tentativo di disarmare il nemico numero due e strappargli la pistola uno finisca per darsi un colpo sui piedi….

Beh sì. È questa gabbia del voto utile che ci perseguita. Quest’anno già dal primo turno c’era la questione del voto utile-Mélenchon per cui noi eravamo inutili, avremmo dovuto toglierci di mezzo, farci da parte ecc. Si sapeva che il secondo turno con Le Pen avrebbe creato un ricatto fortissimo, tra le pressioni morali del fronte repubblicano e i richiami alla responsabilità da destra e da sinistra. Per cui è pazzesco, ma alla fine il colpevole diventa l’astensionista. Le discussioni che ho avuto in fabbrica e altrove sono interessanti, e anche i dati emersi dai sondaggi rispetto agli elettori di sinistra. C’è la pressione sociale al voto utile, ma c’è anche un riflesso spontaneo e immediato a rifiutare il voto e respingere la farsa della scelta. L’NPA non voleva rincarare la dose delle pressioni su un elettorato indeciso e per questo abbiamo deciso di non fare attivamente campagna per l’astensione. Non abbiamo dato indicazioni di voto, ma io ho detto subito che non avrei votato. Ma come si fa? Ci siamo battuti per mesi contro la Loi Travail e Macron è la continuazione anzi l’amplificazione esponenziale di quel tipo di riforme.

Fare fronte con Macron contro Le Pen è un’illusione così come è un errore pensare, come alcuni pensano, di fare fronte con Le Pen contro il neoliberismo spinto di Macron. E il voto Chirac nel 2002 contro Le Pen padre, sono ancora in molti a rimpiangerlo. Ma per noi è importante non creare barriere al dialogo con chi interpreta diversamente gli imperativi elettorali di una circostanza come questa.

JM. Ultima domanda. Come può e cosa può l’extrême gauche in questa fase?

C’è un problema evidente di fiducia da recuperare, globalmente, e c’è un problema di convinzione, che riguarda anche noi militanti, pieni di dubbi e d’incertezze. Siamo preoccupati, spesso pessimisti, a volte perfino rassegnati; non sappiamo bene a cosa serviamo. Con la campagna volevamo restituire la voglia di lottare, la voglia di osare, di dire cose che non vanno di moda e che perfino la sinistra ha mollato per riportarle all’ordine del giorno. E abbiamo deciso di farlo con una certa spudoratezza per dimostrare in primo luogo che non è impossibile, anche se è complicato. Non si tratta di imporre delle parole d’ordine, ma di lavorare su quello che succede intorno, i movimenti, le rivolte, le lotte nel mondo del lavoro, nei quartieri popolari, ovunque. E anche di farsi carico del malcontento e della demoralizzazione che pure esistono.

In questa fase mi sembra che la cosa più urgente da fare sia coltivare la rabbia e il dissenso che abbiamo constatato, e che faticano a trovare forme compiute d’espressione, per provare a renderle efficaci. Sono sentimenti presenti anche tra chi ha votato per il Parti Socialiste, per Mélenchon, per Lutte Ouvrière e tra chi non ha votato – i libertari, gli zadisti. Per tutti questi settori popolari, alcuni politicizzati e altri no, è evidente la necessità di guardare oltre le elezioni, per organizzarsi su altri terreni di lotta.

La sinistra, in senso lato, ha tante colpe ormai da decenni: si è lasciata trasportare dal riformismo considerato più “realista”, ha sposato la necessità di accettare e assecondare il senso – presunto – di come vanno le cose, ha puntato troppo spesso sulla logica del “meno peggio”, ed è stata una spirale deleteria a tutti gli effetti. Non funziona. La novità ora sarebbe provare a fare diversamente, e in ogni caso è una pista che va tentata. Intendo dire: ripartire da noi e dalle nostre idee politiche, dalle nostre aspirazioni sociali, dalle nostre forze. Dopo trent’anni di riflusso della gauche non è facile. Perciò in questa fase la battaglia più urgente è una battaglia per recuperare il morale a sinistra e per ribadire la convinzione radicale che il nostro compito non è quello di assecondare la corrente.

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