Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!

Giovanni Verga, Novelle rusticane, “La roba” (1883)

È notizia di oggi quella dell’omicidio (presunto ma piuttosto scontato), nel primo mattino, di moglie (73 anni) e figlio (48 anni) da parte di un settantasettenne residente nel centro di Ferrara, Galeazzo Bartolucci, il quale si è poi suicidato per strada, non distante dall’abitazione. In Italia le stragi familiari, l’uccisione della compagna, dei figli e di parenti da parte dei mariti-padri padroni è purtroppo un avvenimento quasi quotidiano, una piaga apparentemente inestirpabile similmente alle morti sul luogo di lavoro (mettendo insieme questi due tipi di eventi, non a caso tipici e inevitabili nel capitalismo, ogni anno in Italia muoiono diverse migliaia di persone). Ma quale motivo ha potuto spingere un anziano signore a un gesto così violento e insensato?

Bartolucci era il proprietario di un negozio di antiquariato in città, nella piazzetta privata di famiglia, e proprio oggi avrebbe subito lo sfratto dalla casa e dal negozio per gravi difficoltà finanziarie. Disperato, l’uomo avrebbe freddato con un colpo di pistola alla testa moglie e figlio nella propria abitazione (ai piani superiori dello stesso stabile del negozio di famiglia) per poi appiccare fuoco all’edificio, uscire e togliersi la vita.

Se l’angoscia e la depressione per il fallimento dell’attività di famiglia, per la cacciata dalla propria casa, per lo stigma sociale che ne sarebbe derivato rendono perlomeno comprensibile la scelta del suicidio da parte di una persona anziana che non ha più nulla da perdere e che d’un tratto si trova emarginata e senza nessun legame di solidarietà e nessun appiglio materiale, da dove può provenire la scelta, tristemente non così rara, dell’uccisione dei parenti più prossimi in caso di grave crisi economica familiare, di perdita del posto di lavoro?

Il concetto per cui “l’ideologia dominante è quella della classe dominante”, espresso da Karl Marx e Friedrich Engels nella loro Ideologia Tedesca oltre un secolo e mezzo fa, non era un banale slogan o una frase fatta: proprio questi casi ne costituiscono la continua verifica empirica. Il fatto, che siano il denaro, l’arricchimento, la potenza economica, l’accumulazione di capitale a fare da legame sociale fondamentale e dominante nella nostra società, fa sì che nella nostra cultura, nella nostra visione del mondo, nella nostra psicologia individuale e di massa si formi una concezione delle cose a misura di merce, di proprietà privata. Se perdo la mia proprietà privata, perdo il mio status sociale, perdo il mio onore, perdo qualsiasi prospettiva, perdo la certezza non solo del benessere materiale ma della mia stessa sopravvivenza.

Così, siccome la famiglia è parte integrante della nostra riproduzione sociale ed è strettamente legata a come accumuliamo e trasmettiamo la proprietà, ecco che i familiari possono diventare per noi un tutt’uno con la roba, come la chiama il protagonista della novella di Verga, Mazzarò: un povero in canna che costruisce la sua fortuna avendo come pensiero fisso, appunto, la sua roba. Proprio il momento in cui realizza che non potrà più disporre della sua roba (nel suo caso, non perché la perda in seguito a un disastro economico, ma semplicemente perché non può portarsela nell’aldilà), ecco che il suo sentimento di impotenza si trasforma in furia distruttrice, ecco che si mette a fare a pezzi la sua roba di modo che non abbia a “trovarsi sola” dopo la sua scomparsa, di modo che la sua tragedia sia la tragedia anche della sua roba.

Analogamente, un comportamento insensato di questo tipo lo ritroviamo nei tragici casi come quello del Bartolucci che, rimasto senza prospettive di vita come proprietario (perdendo casa e negozio), decide di “far venire con lui” anche la componente umana della sua roba (non a caso, Marx incorpora la persona del lavoratore come capitale variabile, cioè come componente umana del processo di riproduzione del capitale, della ricchezza), uccidendo moglie e figlio.

Un caso, tragico e triste, che come tanti altri dà la conferma pratica di come la pauperizzazione, l’impoverimento e la caduta in disgrazia delle famiglie con una piccola proprietà e un reddito in genere superiore a quello dei salariati (cioè la piccola borghesia) non genera automaticamente un loro avvicinamento (fosse anche solo in termini di mutuo soccorso, prima che politici) alla classe lavoratrice: questa è una possibilità che dipende in buona sostanza da parte della classe lavoratrice organizzata di fare da riferimento politico, pratico per strati sempre più larghi di diseredati e oppressi; dalla capacità di mostrare come il programma della rivoluzione socialista del proletariato sia il programma che il piccolo proprietario di oggi avrà come unico reale riferimento, quando sarà sempre più soggiogato dai grandi capitalisti e progressivamente gettato nei ranghi di chi è proprietario solo della sua forza-lavoro. L’alternativa “fisiologica” è quella della sottomissione all’agenda politica dell’altra classe sociale fondamentale nella nostra società, cioè quella dei grandi capitalisti, banchieri, industriali, palazzinari.

Così, la “fisiologica” ideologia della proprietà privata fatta a misura di capitalista porta alla distruzione di qualsiasi legame d’umanità di fronte alla propria crisi come proprietari: la distruzione, la strage di propri simili, della propria famiglia, diventano allora atti logici, la naturale conseguenza della propria fine come proprietari e, dunque, come padri-padroni; proprio perché il capitalismo ha fatto sua l’antica struttura relazionale del patriarcato, essa continua a riprodursi a tutti i livelli nonostante il continuo rivoluzionamento che la stessa società borghese ha operato sul suo proprio patrimonio ideologico: per quante posizioni possano conquistare le sacrosante lotte contro ogni forma di oppressione, per quanto storiche siano state le battaglie e le vittorie di movimenti come quello del 1968 in Europa, l’inerzia della società capitalista rimane quella di conservare i propri rapporti di produzione economica, di riproduzione sociale, e quindi di riproduzione dei suoi vecchi legami sociali e delle ideologie “classiche” con cui essa è storicamente ctresciuta.

Una società senza Mazzarò, una società in cui non potrà mai essere logico disperarsi per la propria proprietà, concepire i propri congiunti come roba, concepire di avere potere di vita e di morte su di essi, non potrà mai essere la società dove sopravvive come legame sociale il capitale: la rivoluzione che abbatterà il capitalismo e instaurerà il socialismo per tutta l’umanità raggiungerà questo risultato – non la riforma del capitalismo stesso. Combattere quest’ultima illusione, ideologia, falsa coscienza (tipica, in politica, di chi fa gli interessi degli strati aristocratici della classe operaia e della piccola borghesia contro gli interessi dei lavoratori e delle masse povere) è un compito fondamentale che da marxisti ci poniamo fin dal tempo della pubblicazione del nostro Manifesto, e che è nell’interesse non tanto nostro quanto del movimento operaio tutto, se vuole arrivare a una emancipazione reale e definitiva dallo sfruttamento e dall’oppressione che la dittatura dei capitalisti genera.

 

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.