I tirocini formativi impongono una situazione di super-sfruttamento e precarietà sia economica sia esistenziale in particolare alle giovani donne, esponendole a situazioni con maggiore rischio di discriminazioni e violenza di genere. 

Abbiamo bisogno di organizzarci nei luoghi di lavoro e di studio, e di convergere con le lotte della classe lavoratrice. 

Rivendichiamo una lotta comune anticapitalista alla manifestazione contro la violenza di genere il 26N!


Quando pensiamo alla violenza sulle donne sul posto di lavoro, c’è una situazione che concentra un po’ tutti gli aspetti più brutali dell’accoppiata di sfruttamento e oppressione che vivono lə lavoratorə: il tirocinio formativo. Una forma di rapporto di lavoro che, con la scusa della formazione del dipendente in futuro (si spera) assunto in pianta stabile nell’ambito di quel “mestiere”, nega molte delle tutele riservate alla maggior parte deə lavoratorə dipendenti. Va tenuto conto che il fenomeno non solo coinvolge ogni anno centinaia di migliaia di studentə, tra scuola superiore e università, ma che il tirocinio extracurriculare, come periodo “di formazione” l’anno scorso, in ripresa dopo il periodo straordinario dei picchi del Coronavirus, interessava quasi 330.000 persone.

Nonostante siano a tutti gli effetti deə lavoratorə, lə tirocinantə sono costrettə ad un livello di sfruttamento tale da aumentare la vulnerabilità della loro condizione: lavorando senza retribuzione – al massimo con esigui “rimborsi spese” – ed essendo sottopostə continuamente al ricatto sulla propria carriera accademica da parte dei propri superiori e tutor. L’essere costretti a “guadagnare in esperienza” per un periodo sintetizza perfettamente l’intersezione tra la forma più brutale di lavoro dipendente – il lavoro gratuito “necessario” ad accedere al lavoro salariato – e il potere moltiplicato di opprimere su una serie di aspetti oltre quello strettamente economico da parte dei superiori.

Specie in settori dove la forza-lavoro, anche quella poi più stabile e “garantita”, è composta molto di più da settori oppressi della classe lavoratrice – donne, persone lgbtqia+ e persone razzializzate – l’oppressione patriarcale, la violenza sessista, la discriminazione razzista e religiosa diventano un rischio molto più serio e, di fatto, un tratto quotidiano, strutturale dell’ambiente di lavoro. Ciò non accade per via di un carattere “naturalmente” oppressivo, necessario, eterno dei rapporti di lavoro, ma proprio perché queste specifiche condizioni di scarsa tutela, isolamento e paura sono state generate da pressioni della classe dominante perché mano a mano dilagassero rapporti di lavoro sempre più precari e senza diritti. Questo ha contribuito a distruggere le conquiste del movimento operaio e delle donne che avevano sfidato i capitalisti e il loro regime politico democristiano bigotto, strappando importanti conquiste nel Dopoguerra fino allo Statuto dei Lavoratori approvato nel 1970. Le nuove, peggiori condizioni incoraggiano padroni, quadri aziendali e, dramma nel dramma, anche colleghi ad approfittarne, schiacciando ancora di più i, ma soprattutto le tirocinanti, in una situazione di oppressione e violenza.

Reagire e unirsi nella lotta a sfruttamento e oppressione

Non dovrebbe bastarci la semplice seppur necessaria lotta culturale contro la violenza machista all’interno anche delle realtà lavorative: non si tratta semplicemente di “educare (innanzitutto) gli uomini” e non sarà mai sufficiente, perché il sistema sociale dentro il quale quegli uomini crescono li educa e li spinge ad essere “figli sani” del patriarcato con una forza che nessun movimento parziale potrà stroncare. Con un approccio più complessivo, bisognerebbe impegnarsi per creare e rafforzare le possibilità di autorganizzazione e autodifesa di fronte alla violenza quotidiana del sistema, a partire da quelle  delle giovani lavoratrici, combattendo l’isolamento, la precarietà economica e la divisione fra colleghi di serie a e di serie b.

Se riconosciamo che c’è un legame, una solidarietà tra le politiche di sfruttamento, le privatizzazioni, lo scaricare i costi delle crisi delle classe dominante sempre su lavoratori e lavoratrici, e l’oppressione (patriarcale e non solo), allora unire la lotta contro i tagli e lo smantellamento dell’istruzione pubblica a quella contro oppressione, violenza e supersfruttamento dellə studentə-lavoratorə è un bisogno, un’urgenza, non una possibilità. Rompere la divisione tra vari settori di studenti, e fra studenti e lavoratori (specie di quelli che lavorano fianco a fianco con lə tirocinantə) è un obiettivo fondamentale per rafforzare le nostre lotte, arricchire e unire le nostre rivendicazioni, strappare conquiste concrete. Anche perché le sconfitte della gioventù e degli strati più poveri, precari e oppressi della classe lavoratrice, le sconfitte delle donne e delle soggettività oppresse innanzitutto, sono sconfitte per tutto il movimento, per i sindacati, per tutta la classe stessa.

Nel contesto politico aperto dalla vittoria della destra alle elezioni, è inevitabile puntare il dito contro le responsabilità delle politiche misogine, razziste e conservatrici del governo guidato da Giorgia Meloni che, cavalcando la crisi economica, politica e sociale del nostro paese, continua la sua tradizionale opera di negazione dei diritti e dell’emancipazione delle persone oppresse, ridando ossigeno alle peggiori frange reazionarie della politica cattolica.

In questo quadro, non possiamo delegare la nostra causa alle stesse istituzioni che hanno generato e alimentato tali problematiche senza volerle risolvere sistematicamente, al di là dell’alternanza tra i partiti di governo. Condanniamo la nostra lotta se ci illudiamo che basti mobilitarsi per far loro una pressione ‘efficace’ e lasciare che sia lo Stato a risolvere ‘da sé’ la questione della nostra emancipazione economica, di genere, politica: non ha funzionato e continuerà a non funzionare.

Un obiettivo per la mobilitazione che rivendichiamo è la creazione di comitati di donne e soggettività oppresse sui luoghi di studio e di lavoro per contrastare la violenza sistemica a cui loro per prime sono quotidianamente sottoposte. Questi comitati possono essere il motore per avanzare rivendicazioni collettivamente discusse, sindacali, politiche, transfemministe e antirazziste che vadano a minare in profondità le radici del sistema che genera l’oppressione. Ad esempio, tirocini non gratuiti ma retribuiti adeguatamente, in cui vengano garantiti diritti come quello alla malattia e maternità pagate, così come il trasporto per raggiungere i posti di studio e di lavoro. Nella lotta per alzare i salari, storicamente fermi al palo nel nostro paese, e divorati dal carovita, non si possono lasciare a parte, indietro, le centinaia di migliaia di tirocinant*.

Per quanto ad oggi queste possano sembrare rivendicazioni distanti dalla quotidianità ‘pacifica’ dell’ambiente scolastico-accademico, il movimento studentesco, è proprio da questo ambiente che sta venendo la risposta più diffusa al futuro di precarietà che il capitalismo ci ha promesso, e alle politiche del governo Meloni: non solo con l’impegno entusiasta di settori di studentə a fianco degli operai GKN e nel movimento Insorgiamo, ma con le occupazioni che si seguono da fine settembre, in particolare quella in reazione allo scontro con la polizia dentro la città universitaria della Sapienza a Roma. Questa onda può crescere, allargarsi e rompere gli argini della pace sociale ‘draghiana’ che Meloni intende conservare: va approfondita e radicalizzata la logica per cui lə studentə della Sapienza hanno rivendicato un antifascismo anticapitalista, che punta il dito contro tutto il sistema, rompendo il feticismo della nostra repubblica ‘democratica’ sottoposta alla dittatura dei capitalisti, dei ricchi. Proprio questa logica pone il problema di rendere efficace il nostro movimento, come scrivevamo sopra: non perché facciamo semplicemente pressione, ma perché mettiamo in campo una lotta sociale che faccia effettivamente male ai potenti.

Ci serve la lotta di classe, la forza della classe lavoratrice e dei suoi metodi di lotta, ci serve lo sciopero generale e generalizzato per questo. La convergenza dei tanti settori separati della classe lavoratrice tra loro, e con la gioventù, le donne e il movimento transfemminista ci apre la prospettiva di un’unica lotta contro il sistema capitalista e patriarcale, per emanciparci e non soltanto essere oppressə un po’ meno.

La manifestazione nazionale del 26 novembre contro la violenza di genere, in questo senso, può essere un momento per vivere e rilanciare questa convergenza, rigettando i tentativi del femminismo liberale e persino di quello reazionario di rivendicare la nostra lotta, e rivendicando una prospettiva egemonica dove la lotta di classe e il transfemminismo siano legati indissolubilmente in una lotta comune per emancipare tuttə!

 

Ilaria Canale

Nata a Napoli nel 1993. Laureata in infermieristica all'Università "La Sapienza" di Roma, lavora nella sanità nella capitale.. È tra le fondatrici della corrente femminista rivoluzionaria "Il pane e le rose".